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Il confine, di Annarosa Luzzatto. (1)

Inviato da Tano Pirrone
Rete. Papavero [1]

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27 Gennaio – La Giornata della Memoria.
Annarosa Luzzatto ha acconsentito alla pubblicazione nel nostro Blog – ( sinistrasenile [2] – NdR) – del V capitolo di una sua autobiografia data alle stampe una ventina di anni fa. Ricordi di una bambina di tre anni in fuga dall’Italia verso la Svizzera per sfuggire alle leggi razziali.
È il nostro contributo per la Giornata della Memoria, che ricorre domani 27 gennaio. La data è quella dell’apertura al mondo ed alla vita dell’inferno di Auschwitz ad opera dei soldati dell’esercito sovietico in marcia verso Berlino. Era il 1945 e la fine della guerra era vicina, ma l’orrore ci avrebbe seguito per tutti questi anni e la nostra coscienza civile ci impone di trasmetterlo ai nostri figli ed ai nostri nipoti. Perché mai nessuno dimentichi.
Tano Pirrone

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Credo direttamente da Clusone avvenne la mia famosa fuga in Svizzera, il ricordo più vivido e positivo di tutta la mia infanzia, il ricordo del mio coraggio.

Dunque, credo fosse il mese di ottobre del 1943. Sino ad allora le famiglie degli antifascisti erano state fondamentalmente lasciate in pace, diceva mio padre.
Ma in quel periodo comincia­vano a correre voci sui campi di sterminio nazisti, per cui nemmeno le famiglie potevano più stare tranquille, e men che meno le famiglie ebree.

Così i miei decisero che dovevamo fuggire tutti dall’Italia. I fratelli di mia madre, lo zio Giuseppe e la zia Marina Sadun, erano già fuggiti in Brasile. Mia nonna Anna, la nonna materna, decise di rimanere in Italia in una casa di riposo, lasciando ai figli l’alea dell’avventura all’estero, e lì rimase incolume sino alla fine della guerra (queste informazioni le ho avute dalla zia Marina l’ultima volta che venne in Italia, circa dieci anni fa).
Rimanevamo noi, famiglia Luzzatto, così composta: prima di tutto il nonno Fabio, invalido, malato di cuore, da poco vedovo.
Mio nonno era molto inviso al regime, tanto che, come ho già detto, avevano tentato di ucciderlo perché era un fervente antifascista ed era uno dei dodici (undici? tredici? I libri di storia non riportano tutti lo stesso numero) professori universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Naturalmente perse il posto, e con onore. Non sapeva allora che in ogni caso lo avrebbe dovuto perdere pochi anni dopo, a causa delle leggi razziali.
Oltre al nonno c’era lo zio Oscar, suo fratello maggiore, medico scapolo in ottima salute (morì a più di novant’anni); lo zio Guido, il maggiore dei fratelli Luzzatto, scapolo, di dieci anni più anziano di mio padre, ritenuto da sua madre un genio, poeta e critico d’arte a tempo perso, fondamentalmente un tipo strano; la zia Gina, di un anno minore di Guido, ormai, a quasi quarant’anni, irrimediabilmente destinata a rimanere zitella, e con molti motivi per essere infelice. Infine lo zio Dino, mio padre, mia madre ed io. Un insieme davvero difficilmente governabile.

A farla breve, mio padre decise che l’attraversamento del confine di tutta una simile famiglia presentava dei rischi, sia per la facile riconoscibilità del nonno, sia per la possibile imprevedibilità di mia madre, soprattutto se si trovava vicino alla bambina (cioè a me).
Quindi la bambina doveva superare il confine separatamente da tutti gli altri.
E preparò la mia fuga solitaria.
Racconterò prima ciò che ricordo, poi i commenti, e ciò che mi è stato raccontato.

Ricordo che la zia Gina mi ha accompagnato per delle vie cittadine affollate sino ad un punto dove la strada era sbarrata per metà, trasversalmente, da una rete molto alta. Alcune persone non potevano accedere al di là della rete, altre sì. Mia zia parlò con qualcuno, un uomo, poi mi salutò e tornò indietro.
Io passai al di là della rete con quest’uomo. Era alto, di corporatura normale, con un vestito scuro ed aveva una bicicletta nera, con la canna, ed un seggiolino per bambini davanti al manubrio. Mi fece sedere sul seggiolino, e si mise a pedalare per le strade di una città che ora mi appariva deserta. Non parlava.

A un certo punto si fermò, posteggiò la bicicletta lungo il marciapiede e mi disse:
– “Aspetta qui, vado a telefonare a tuo padre.”

Si allontanò entrando in quello che mi sembrò un bar. Aspettai in silenzio. Il tempo mi parve lungo. Tornò e disse:
– “Tutto a posto, tuo padre ti aspetta.”

Ricominciò a pedalare, in silenzio, lungo le vie deserte. Raggiungemmo a un certo punto un luogo dove la città non c’era più, e invece c’era una lunghissima rete, una rete molto alta, più alta di un uomo alto. E al di là della rete c’era un prato, un prato di erba verde e ben tenuta, ma largo solo pochi passi, e poi c’era un fossato, un fossato pieno d’acqua, largo come il prato, poi ancora molta terra incolta, e poi di nuovo case. Questo confine attraversava la città di Chiasso.

L’uomo in bicicletta si fermò vicino alla rete, posò la bicicletta e mi fece scendere. Quasi al livello del terreno, nella rete c’era un buco, un buco molto piccolo. Al di là della rete, nessuno. L’uomo mi disse:
– “Passa!”
Io cercai di passare, prima con le mani e con la testa, ma il buco era stretto.
– “Passa ti ho detto!”

Ed io continuai a strisciare, sentendo i bordi del filo di ferro della rete metallica lungo i fianchi. Quando ormai dovevo solo far passare le gambe, dall’altra parte della rete si materializzarono quattro uomini.

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