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Risposta ai commenti (1 e 2) di Rosanna Conte (parte seconda)

di Sandro Romano
Reggia di Carditello [1]

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Riferimento ai primi due commenti di Rosanna Conte : leggi qui [2] e qui
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Le Prammatiche.
Per capire di cosa si sta parlando è opportuno capire meglio la struttura delle prammatiche.
“La prammatica prima” non è la legge borbonica prima in assoluto, ma la parte prima di una legge. Una prammatica ha un determinato titolo (non solo un numero) ed è composta, a sua volta, da più prammatiche discendenti e non sempre entrocontenute. Quindi la ‘prammatica prima di Ventotene’ è la prima parte di una legge composta da più prammatiche dove, nella prima parte c’è Ventotene. Considerato che appare difficoltoso (quasi un’impresa) già solo riuscire a consultare le prammatiche in originale, lascio immaginare quante possibilità ci sono di poterle riprodurre in fotocopia. Pertanto ho fornito alla Redazione ciò che avevo (non molto) come fotocopie degli originali, con la promessa di produrre appena possibile quelle delle prammatiche di fondazione. Tuttavia già dalla lettura di quanto riportato nei due documenti (anche se poco), si comprende lo spirito riformatore dei sovrani napoletani. Ed era solo questo lo scopo dei due documenti da me prodotti.

Le strategie politiche di Carlo di Borbone,
Obietta Rosanna: “Quando (Carlo) arrivò a Napoli, non si trovò  a fronteggiare ‘movimenti popolari ’, ma dovette affrontare la decadenza economica del regno ed usò strategie che erano comuni ai suoi contemporanei: fare entrare metalli preziosi e denaro nelle casse del regno favorendo l’esportazione di prodotti di lusso (teoria mercantilistica), impiantare le fabbriche reali come quella di S. Leucio (seta), di Capodimonte (ceramica), di arazzi e pietre dure, firmare trattati commerciali con le potenze europee, fortificare le coste per tenere lontani i pirati barbareschi”.

Credo che sia da ingenui credere che solo con gli interventi su elencati, per lo più concentrati intorno alla capitale, il Regno sia riuscito poi, nel giro di qualche decennio dalla sua fondazione, a passare da una condizione di estrema povertà ad uno di tutto rispetto (terzo posto) nell’Europa delle grandi potenze.
Un’ingenuità indotta dalla malafede di chi, soprattutto nel passato, ha generato una cultura di regime (giolittiana e fascista di cui fu l’apoteosi la riforma Gentile) attraverso una produzione bibliografica, soprattutto scolastica, fortemente di parte.

A tal proposito, anche per non tediare i lettori, rimando gli interessati alla Bibliografia in calce all’articolo, per la consultazione di testi scientifici anche di recente generazione, che trattano il rilancio dell’economia del Regno di Napoli, poi delle Due Sicilie, attraverso lo studio approfondito, comparato e completo delle fonti di archivio non solo italiane (1).

Per ottenere tale rilancio economico in tutte i campi dell’industria, dell’artigianato e del commercio fu fondamentale avviare prima la riforma demaniale del Regno e, quindi, l’esperimento isolano.
Ciò posto, i dubbi e le perplessità emergono e restano tali solo se non si riescono ad individuare ed a collocare al posto giusto gli elementari tasselli di un mosaico economico e politico molto complesso ed avversato.

I capricci e le incapacità dei Borbone.
Le affermazioni sulle origini delle comunità isolane solo quale premio agli ischitani intervenuti al matrimonio di re Carlo, così come le “lamentate” poco regali qualità dei sovrani della casa Borbone e tutte le altre storielle, i soliti luoghi comuni, le squallide caricature, le incredibili calunnie, spesso di cattivo gusto, e le molteplici altre menzogne che da oltre 150 anni infarciscono i libri ed i dibattiti degli italiani riscuotendo una stupida ilarità e diffondendo disprezzo verso il più antico ed esteso Stato laico italico preunitario, le ritengo illazioni di natura ideologica basate sull’ignoranza storica, suffragate solo da una bibliografia fortemente di parte e sguarnita da seri supporti documentali.
Posizioni ideologiche mosse più che altro dalla necessità culturale e politica di denigrare tutto quanto è stato fatto di positivo nel Regno di Napoli, al di là di ogni logica strategia politica e sociale di quei regnanti.
Dice Denis Mack Smith: “Per denigrare un popolo è sufficiente denigrare chi in qualche modo  lo rappresenta”.
Visti gli effetti, a quanto pare ci sono riusciti perfettamente.

Beni pubblici e demani feudali.
Visto che ci stiamo impegnando a fare chiarezza sui luoghi comuni e che la faccenda dei beni pubblici è nodale per comprendere tutto il discorso in questione, è meglio, a riguardo, fare alcune precisazioni e qualche approfondimento.

Nel mia relazione principale, ho sempre parlato in primis dibeni pubblici” e “beni demaniali”, solo in un secondo momento ho accennato ai feudi.
Pertanto quanto da Rosanna è stato articolato in risposta alla mia nota, di fatto è una conferma meglio sviluppata di quanto avevo solo accennato. E mi spiego meglio attraverso l’illustrazione del criterio di assegnazione dei beni pubblici ai contadini che avevo solo citato.
Analizzando gli atti notarili di assegnazione (notai con mandato diretto del re come accadde per le Isole Ponziane) dei beni ai contadini, ex servi della gleba, si evince che, dopo una prima ricognizione da parte di incaricati del re, furono censiti e, quindi, assegnati i beni di qualsiasi natura giuridica (demanio e feudi) purché pubblica, che si fossero trovati in un “evidente stato di abbandono”.

Naturalmente la maggior parte di questi erano beni di diritto demaniale sui quali, proprio grazie a tale ricognizione, si scoprirono una lunga serie di “usurpazioni” dei feudatari che avevano arbitrariamente inglobato nei loro feudi beni non appartenenti all’originale impianto.
Tra l’altro si scoprì che i baroni, per svincolarsi dal pagamento della gravosa “fondiaria” (una specie di IMU) prevista per i beni privati che superavano una certa estensione, avevano “mimetizzato” tra i terreni feudali, vaste aree boschive di loro proprietà.

Solo quando i beni pubblici incolti furono tutti assegnati, si passò alla seconda fase dei beni feudali. E qua cominciarono i guai. Va detto che mai alcun decreto avrebbe potuto abolire il demanio feudale (come invece fecero i francesi nel 1806), perchè essendo Napoli la culla del Diritto Romano, gli oppositori (i resistenti della nobiltà terriera) avrebbero fatto valere le loro ragioni nei tribunali (come poi fecero sistematicamente), colpendo anche le assegnazioni dei beni pubblici ai contadini.

È in questo contesto che si innestano gli interventi legislativi che, ribadisco, non erano finalizzati all’abrogazione giuridica dei feudi, ma al “transito” in possesso (non in proprietà che restava dello Stato) in parte o nella loro totalità al popolo, dei terreni dello Stato.

È altrettanto importante notare che i più grandi feudi che si trovarono a trattare i Borbone, provenivano da impianti di epoca normanna se non addirittura antecedente. In passato nemmeno le guerre erano riuscite a sradicare tali diritti su vasti territori demaniali e ciò non solo per il disinteresse o per le incapacità del sovrano di turno, ma anche per quella “canina fedeltà al barone” (Zitara) da parte dei contadini condizionati da generazioni e generazioni di forte servilismo.
Ma c’era un altro grave elemento di condizionamento: le ingerenze dell’aristocrazia internazionale.
Chi conosce i gravi fatti di Bronte e della Ducea inglese siciliana, sa bene in che modo lo stesso Garibaldi, attraverso la mano spietata di Bixio, dovette restituire il feudo agli inglesi, proprio in quei giorni strappato al barone dai contadini in rivolta “con la forza della rivoluzione italiana” (Buttà).

Per smantellare i grandi feudi, non furono sufficienti né le prammatiche borboniche e nemmeno le idee liberali dei napoleonidi. Nonostante le abrogazioni, le minacce e le confische, le grandi terre restarono saldamente in mano ai baroni che di fatto continuarono a gestire vasti territori senza nulla riconoscere né verso l’alto né verso il basso.
La cartina da me prodotta nella risposta a Silverio Lamonica (leggi qui [3]), dà un’idea abbastanza immediata del fenomeno che però va osservato – rispetto al complessivo intervento di riforma – è davvero poco significativo.
Se vogliano, di fatto quei feudi oggi ancora esistono, ma sotto la forma di latifondi (soprattutto in Calabria, Puglia e Sicilia). La differenza è sostanziale e sta nel titolo di proprietà: i latifondi sono beni di esclusiva proprietà dei soggetti possessori, quindi dei privati; tutti gli altri sono di proprietà dello Stato (demanio), così come lo erano i feudi.

Le comunità ‘socialista’ di San Leucio.
Una comunità dove è vietata la proprietà privata, non è ammesso il testamento, è obbligatorio vestire tutti allo stesso modo, dove la giornata è regolata da un calendario delle attività, dove gli utili della produzione, tolte spese e tasse, vengono ripartiti tra i vari livelli di responsabilità degli operai dell’azienda, dove le violazioni vengono punite con un apposito regolamento comunitario, dove si è liberi di andare via in qualsiasi momento, dove le abitazioni degli operai e dei responsabili sono fornite dallo Stato e sono tutte rigorosamente uguali e con mobilio di base uguale, ecc. ecc… come la possiamo chiamare se non “socialista”?

E’ chiaro che il contesto sociale circostante era ben diverso, ma ciò non toglie che è azzardato affermare che non era un esperimento socialista.
Come non è vero che era finalizzato a se stesso: lo provano i documenti ed i fatti.

È parere comune che San Leucio era stato realizzato per testare un qualcosa fino allora solo teorico.

San Leucio, le Isole Ponziane, le case popolari di Battipaglia, l’azienda del Carditello (proprio in questi giorni acquisita dallo Stato), l’Albergo dei poveri, l’acciaieria-villaggio di Mongiana in Calabria, erano esperimenti ben riusciti di un modo alternativo di regolare la società e l’economia in contrapposizione alle politiche mondiali imposte dal nascente capitalismo agrario ed industriale.

Reggia-di-Carditello [4]

Giardino della reggia di Carditello [5]

La Reggia e il giardino di Carditello a San Tammaro (CE)

Mongiana Ingresso [6]

Mongiana. Partic. targa [7]

Immagini dell’acciaieria-villaggio di Mongiana in Calabria

Pietrarsa officine metalmeccaniche [8]

Pietrarsa. Museo [9]

Lo stabilimento di Pietrarsa, località posta sulla riva del mare tra i comuni di Napoli, Portici e San Giorgio a Cremano, era una grande realtà industriale del Sud. Le Officine di Pietrarsa sono state la prima fabbrica italiana di locomotive, rotaie e materiale rotabile. Il loro nome iniziale fu “Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa”. Attualmente i locali delle officine sono stati trasformati in Museo

Il problema è sempre lo stesso: le fonti.
Il richiamato giudizio di Pietro Colletta su San Leucio ha lo stesso valore del giudizio di un monarchico tradizionalista sulla Rivoluzione Francese.
È alquanto inopportuno e travisante, considerate le appartenenze (massoniche) ed i trascorsi politici di tale storico, affidarsi ad un suo punto di vista. Infatti, basterebbe consultare un autore meno di parte, suggerirei straniero, per ottenere una maggiore serenità di giudizio su una vicenda che suscitò una grande ipocrita curiosità internazionale, ma anche notevoli preoccupazioni a chi, proprio in quel periodo, aveva avviato quella rivoluzione politica ed economica liberal-capitalista di cui oggi, noi occidentali, nel bene e nel male, siamo i diretti discendenti.

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Nota (1) – Mi limito a segnalare solo alcuni testi tra le parecchie decine anche di recente pubblicazione:
– Aldo Di Biasio, Economia, società e politica in Terra di Lavoro e in Campania tra Ottocento e Novecento, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Luciano Editore, Scafati (NA); 1998;
– Gennaro De Crescenzo, Le Industrie del Regno di Napoli, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2002).

– Michele Vocino, Primati del Regno di Napoli, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2007.