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’Mmaculata. (5). Verso l’uscita dallo stato di minorità

di Rita Bosso
Punta Bianca [1]

 .

Qui a Ponza, invece, si parte da zero: baroni  non ce ne stanno e il clero si riduce al prete e a un convento di cappuccini, ’na maniata ’e fetienti. 
Ci hanno dato qualche privilegio: terre in proprietà, niente gabella sul sale, niente dazi, qualche provvidenza per chi non tiene nemmeno gli occhi per piangere, ma sono aiuti temporanei, poi cammineremo sulle nostre gambe e cominceremo a produrre: non saremo più un peso morto per il Regno, porteremo ricchezza, pagheremo tasse.
Nobili e clero, invece, le tasse non le pagano perché mai le hanno pagate: loro sono casta, noi siamo una cucciolata da svezzare.

Io, grazie a chi mi ha spiegato le cose per filo e per segno, capisco perché a noi, morti di fame, hanno destinato settantamila ducati e manodopera e materiali per costruire un paese civile; capisco perché ci danno sale senza gabelle, ci danno sementi da piantare, calce per imbiancare e disinfettare; capisco perché qua ci hanno mandato il medico e la mammana.
Noi siamo la pianta nuova da nutrire e far crescere in attesa che faccia frutti; preti e baroni sono piante improduttive, che succhiano linfa da altre piante, tronchi secchi.
Noi siamo il futuro, preti e baroni sono il passato; chiaro che il re e Tanucci i rami li debbano potare uno a uno, con cautela, perché corrono il rischio di tagliare pure l’albero sul quale si trovano: non puoi dire che sei Sua Maestà  per volere divino e nel mentre fai piazza pulita di vescovi e di conventi.
E noi siamo pianticelle in germoglio, non ancora alberelli capaci di sostituire i vecchi fusti, morenti ma saldamente radicati nel terreno.

A Napoli si dovrebbero fare le leggi per abolire i privilegi; qua da noi, invece, non c’è niente da abolire, basta tenere la nobiltà lontana, con le buone maniere, senza fare proclami e dichiarazioni; sai come ha risposto il ministro Tanucci a chi chiedeva di affittare le isole dell’arcipelago? Sì, prego, accomodatevi, però ci sarebbero un porto da costruire, torri da riparare, lavoretti vari, e comunque tra vent’anni dovete sloggiare; così, elegantemente, quelli hanno girato i tacchi e la questione si è risolta.

Ora capisci, Amalia cara, perché la sera devo scendere sul corso Farnese? Non importa se tira  vento o scende acqua di cielo, non importano i dolori alle ossa, io quando fa sera devo vincere ’a ’pecundrìa e scendere, appoggiarmi al muretto, accarezzare il bordo curvo del basalto guardando il mare, e convincermi che è tutto vero.
Sto qua, tiro una fumata di tabacco, guardo la sera scendere…

Ponza-blu-su-blu [2]

Aspetta che Federigo si allontani e riprende:
 – Ama’, tenevo sedici anni quando sono arrivata qua. Sola. Perché sono arrivata qua, vuoi sapere… Sempre per le solite ragioni uno lascia la sua terra: per fame o perché sta scappando da qualcosa. Nel mio caso non fu la fame, nella casa in cui vivevo c’era da mangiare e da bere, pure troppo. Mia madre faceva la serva là dentro, forse non solo la serva.
Lui era un porco; avevo dodici anni, la prima volta. Un lurido porco, convinto di potersi permettere tutto perché era il padrone; su tutto allungava le mani, su tutto lasciava la sua impronta sudicia.
Gli feci fare la fine che tocca ai porci: scannato, senza pietà.
Un attimo dopo pensai a scappare, ché se mi avessero acchiappata non avrei avuto scampo; prima che scoprissero il porco scannato, io stavo già alla marina a cercare una barca in partenza, senza neanche domandare dov’era diretta e quanto durava il viaggio.
Non è che stavo partendo per la villeggiatura, stavo solo cercando di scampare alla forca, perciò qualunque posto mi andava bene.
Quando fummo al largo, il padrone della barca disse: 
- Un paio di giorni di navigazione e arriveremo a Ponza. In autunno e in primavera gli uccelli di passo si posano su quegli scogli, recuperano le forze e riprendono il viaggio. Ma gli uccelli, a differenza dei cristiani, sanno dove andare.

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[’Mmaculata. (5). Fine]