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Premessa.
E’ sempre un piacere discutere di storia con un personaggio del calibro dell’amico Silverio, e non nascondo di aver utilizzato più volte i suoi lavori quali validi punti di partenza per approfondimenti e ricerche. Ancora ricordo un suo articolo pubblicato anni fa su “Vivere Ponza” dal titolo “Burocrazia d’altri tempi”, riferita a quella borbonica.
Forte di questa sincera stima, è mio desiderio replicare su alcuni punti della recente sua nota dal titolo “L’esperimento borbonico a Ponza e Ventotene. Una goccia nel mare” (leggi qui), riferita al mio elaborato dal titolo “L’esperimento di Ponza e Ventotene nella riforma socio-amministrativa dei Borbone”, pubblicata in tre tempi [ricercare – Romano Alessandro – nell’indice per Autore nell’apposito riquadro del Frontespizio -NdR].
Innanzitutto, noi appassionati “rivisitatori” di una parte della storia italiana tra le più mistificate e manipolate al mondo, quella risorgimentale, abbiamo quale primo impegno mettere al loro posto i nomi.
Carlo di Borbone diventò “terzo” solo quando, lasciato il trono del Regno di Napoli (1759) per sostituire il genitore morto (Filippo V), assunse la numerazione dinastica, appunto, di “terzo” quale re di Spagna. Pertanto, se si vuole parlare del primo re di Napoli dell’era borbonica, occorre citare Carlo di Borbone, omettendo la numerazione. Sembra un inutile cavillo, ma, nella storia, oltre che nel Diritto dinastico ed internazionale, la questione ha avuto un certo rilievo in merito alla legittimazione del regno meridionale. Infatti, come si evince anche dalla documentazione custodita presso gli archivi del Comune di Napoli, la nota Piazza Carlo III non è dedicata a Carlo in quanto sovrano napoletano, ma quale re di Spagna. Come se l’essere stato re di uno Stato indipendente non liberale fosse stato un delitto o un disonore. Diceva il buon Prof. Riccardo Pazzaglia: “Pur di non scrivere Borbone su una lapide (Carlo di Borbone) se non avessero avuto il 3° spagnolo questi asini sarebbero stati capace di mettere lo 00 del cesso”.
Una seconda puntualizzazione è relativa alla casata, al cognome. Come si sa, i cognomi non possono essere declinati, pertanto scrivere Borboni, riferendosi ai Borbone-Napoli, non è esatto. Il cognome Romano non corrisponde alla stessa famiglia del cognome Romani. Un errore questo che, fino a “ieri”, purtroppo anche autorevoli firme hanno grossolanamente commesso, probabilmente per effetto “involontario” del propagarsi di antiche inesattezze nella catena delle citazioni.
I Savoia
Per una mia comodità di esposizione, inizio dalla fine della puntualizzazione di Silverio con il parlare dei Savoia.
Alla base dell’equivoco, malevolmente costruito dagli storiografi di regime (di allora come di adesso) ed in buona fede recepito e diffuso da studiosi intellettualmente onesti come Silverio, vi è la confusione tra “monarchia costituzionale pura” e “monarchia costituzionale parlamentare”. Nella prima, il parlamento ed il governo rispondono solo ed esclusivamente al re che ne determina i ministri, i primi ministri e ne decide la durata e lo scioglimento (Vittorio Emanuele II lo sciolse e lo ricompose svariate volte fin quando non approvarono quanto lui imponeva. Molto peggio di un monarca assoluto!).
Nella seconda, il governo e la monarchia rispondono solo al parlamento. Per avere un’idea più precisa del tanto decantato governo costituzionale in questione, cito il Prof. Marco Meriggi, docente dell’Università Federico II di Napoli: “La cosa non deve stupire, se solo si pensa che lo Statuto (la carta costituzionale che il Regno d’Italia aveva ereditato da quello di Sardegna), era ben lungi dal disegnare una forma di governo fondata sulla centralità del parlamento” [L’Europa dall’Otto al Novecento, Carocci Editore, pag. 60].
Insomma quel sistema costituzionale era peggiore di un qualsiasi dispotismo settecentesco “visto che il Re era sopra il parlamento e non doveva dar conto nemmeno ad un dio in cui non credeva” [Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie].
Se, poi, si considera che la monarchia costituzionale dei Savoia, soprattutto nella fase iniziale, aveva un parlamento (di notabili) eletto non a suffragio universale (censorio) e che, quindi, raccoglieva un elettorato dell’appena il 2% della popolazione [A. Wandruszka, Le riforme elettorali e il loro esito, pag. 103 – 107], si capisce bene di che tipo di stato si sta parlando e perché Antonio Gramsci scrisse in Ordine Nuovo (1920): “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti”.
Antonio Gramsci (1891 – 1937)
Come si capisce anche perché Carlo Pisacane che, ben sappiamo, borbonico non era, nel suo testamento politico dichiarò: “Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II”.
Carlo Pisacane (1818-1857)
E questo giusto per restare tra i personaggi da noi citati nell’argomento ponzese.
Quindi, caro Silverio, nel confronto con i Savoia non è difficile avere qualche simpatia per il Borbone.
Un breve riferimento alla Costituzione dei Borbone cui accenna Silverio.
Come già ho avuto modo di spiegare nell’elaborato sulla colonizzazione, la costituzione dei Borbone era, in pratica, la parte politico-sociale del Vangelo.
Ogni legge dello Stato non poteva entrare in conflitto con quanto stabilito dal Nuovo Testamento: proprio come per una costituzione.
Di esempi ve ne sono tantissimi, basta scorrere anche il solo elenco delle leggi-primati per rendersene conto: la prima legge al mondo contro la tortura per usi giudiziari (…. Chi è senza peccato scagli la prima pietra) – Prammatica del 14 marzo 1738; la prima legge mondiale sulla raccolta differenziata (ferro, vetro e legno) (..non disperderai i doni di Dio) – Legge del 3.5.1832; la prima legge mondiale sull’immigrazione (…accoglierai lo straniero come tuo fratello) – Legge del 17.12.1817; prima legge contro “la tratta dei negri” e la riduzione in schiavitù (…non sottometterai tuo fratello ma lo vestirai e lo sfamerai) – Legge del 14.10.1839, ecc. ecc…
Sta di fatto che per quel po’ che la Costituzione emanata a Napoli dai Borbone ebbe effetto, le leggi liberali scaturite da essa furono in peius per le classi meno abbienti, se confrontate alle leggi formali emesse (prima) in assenza di costituzione, e di maggior “rilievo”, invece, per la borghesia. Come volevasi dimostrare.
Citazioni bibliografiche.
Va necessariamente sottolineato che le citazioni proposte da Silverio fanno riferimento a studi datati e, cioè, a considerazioni ricavate dalla consultazione di “vecchi” testi (1949), oppure a pubblicazioni storiche non imparziali (storiografia giolittiana e dell’era Crispi) che, a parte tutto, non hanno potuto tener conto, perché chiaramente antecedenti, a quanto solo da 20 anni a questa parte sta emergendo dagli archivi. Tra l’altro, va detto che gli “abusi feudali” riportati dalla “Treccani” sono altra cosa rispetto alla riforma demaniale.
La maggior parte degli abusi feudali erano relativi alla errata corrispondenza tra l’effettiva estensione del territorio in concessione ed il relativo pagamento annuo al Governo.
Un altro abuso molto diffuso consisteva nel non pagare la gravosa “fondiaria” prevista per i terreni di esclusiva proprietà, “nascondendoli” tra i beni feudali.
Il grosso del problema si esaurì da solo per due ragioni. La prima per la progressiva assegnazione dei demani al popolo, la seconda per la graduale realizzazione dei catasti onciari (quasi nella totalità descrittivi) che definirono l’esatta estensione e la destinazione colturale dei terreni agricoli censiti.
A dare il colpo di grazia alle ultime sacche della grande feudalità, ci pensarono i francesi tra il 1806 ed il 1816. Peccato che tra i terreni demaniali messi all’asta, oltre ai grossi feudi ancora esistenti, finirono anche i terreni concessi in enfiteusi dai Borbone ai singoli coloni. Nacque in questo contesto il latifondo, generando anche nel Regno di Napoli la classe sociale appartenente all’alta borghesia agraria fino a quel momento esclusa dalla retrograda società meridionale: il latifondista. Cosa interessante è notare che i nuovi latifondisti erano propri i baroni, gli antichi titolari dei feudi. In pratica, a rimetterci, come al solito, fu ancora una volta il contadino che, perduto l’uso della terra demaniale acquistata dal barone latifondista ex feudatario, si trovò costretto a lavorare per lui vendendo la forza delle proprie braccia e generando una nuova classe sociale anche essa fino allora inesistente nel Sud continentale: il proletariato agrario.
L’esperimento borbonico una goccia nel mare (?)
Oltre alle leggi istitutive con i relativi correttivi che hanno via via aggiustato il tiro (tre editti) per la graduale “censuazione” (affitto) dei beni demaniali (i feudi), è impossibile citare in questa sede l’enorme mole di documenti (circa 12.000 nella maggior parte manoscritti) che si trova disseminata nei vari archivi. Pertanto, rimandando chi volesse approfondire l’argomento ai documenti depositati negli archivi citati in coda al mio elaborato sulla colonizzazione, in questa sede mi limiterò a riportare solo alcuni documenti che comprovano la diffusione della riforma su quasi tutto il Regno.
Al fine di rendere più agevole la comprensione dell’argomento, ho prodotto anche una minima documentazione grafica di un lavoro di indagine statistica sviluppata da un’equipe del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Studi sull’Economia del Mezzogiorno nell’Età Moderna. Si tratta di due cartine statistiche dove sono riportati i dati a campione inerenti il numero di richieste, le modifiche e le integrazioni per comune relativi all’uso della terra demaniale appena dopo l’emanazione dell’Editto di assegnazione, nonché l’opposizione giudiziaria promossa da nove (9) feudatari (questa sì una goccia nel mare) contro detto Editto di assegnazione dei feudi ai contadini.
Fonti coeve.
Visti i primi risultati positivi dell’esperimento svolto in Terra di Lavoro (la provincia a cui appartenevano Ponza e Ventotene), il re ordina che la consegna dei beni demaniali tramite censuazione ai contadini avvenga anche in tutte le restanti province del Regno. Dispaccio del 17 luglio 1787 (Secondo Editto di assegnazione) a firma del Segretario Ferdinando Corradini, diretto al Luogotenente della Sommaria, Cavalcanti: “Sa il re che in questa provincia di Terra di Lavoro, ove la coltivazione dei terreni demaniali è giunta al più esteso grado, pochissimo o quasi niente è rimasto di territorio demaniale, locché ha prodotto, che essendo sicuri i coloni, di non essere disturbati nelle loro industrie da veruno, che vi rappresentasse diritto han portata l’agricoltura a tali territori a quel felice segno, che ora vi si scorge.
Che la Camera della Sommaria, facendo le più accurate riflessioni sopra tal importante materia, venga ed esamini se fosse espediente di estendersi immediatamente per le altre provincie del Regno quel sistema medesimo, che con tanta utilità si è adottato in Terra di Lavoro” (ASN RCS Disp., fasc. 444, f.gli 274-275).
A questo punto mi piace citare un autore coevo ai fatti, di stampo liberale e di estrazione borghese, estremamente critico del sistema popolare messo in atto dai Borbone, che, suo malgrado, dimostra come il progetto di censuazione demaniale (enfiteusi) sia stato immediatamente ed abbondantemente recepito ed applicato a pochi anni dal primo Editto: “(Anno 1792). Nel Regno di Napoli invece di vaste tenute feudali non si incontrano per lo più che demani ed Università (comuni). Questo sistema, quantunque meno cattivo del feudale, non è però quello della proprietà (privata ed esclusiva) che sarebbe perfetta. I contadini non hanno altro diritto sopra i terreni che coltivano se non quello di coltivare, il quale si perde subito che non si usa per un dato tempo, che varia secondo le leggi municipali di ciascun paese e che generalmente non permette di tenerli chiusi (recintati) [G. M. Galanti, Descrizione storica e geografica, tomo III].
Al fine di evitare la concentrazione nelle mani di pochi dei terreni demaniali, cosa che accadde puntualmente con l’arrivo dei francesi prima e dei piemontesi poi, il re promosse attraverso la ‘Sommaria’ il seguente dispaccio:
“Che a niuno sia lecito sotto qualunque colore o pretesto vendere donare, o in qualsivoglia modo distrarre la porzione del terreno a lui una volta assegnata, poiché con questo potrebbe, col tempo, cadere l’intiero demanio in mano di un solo potente contro la volontà ed intenzione della M.V. che ha inteso dare con la censuazione predetta ad ogni cittadino un perpetuo soccorso da vivere e non già il vitto per un anno” [ASN, RCS Proc. Pand. II, fasc. 426, fsc.lo 11.458].
Venne fatta una rigorosa distinzione tra proprietari, affittuari (di proprietà privata) e censuari (assegnatari di beni demaniali) e ciò per assegnare i beni demaniali a chi effettivamente ne avesse bisogno (nullatenenti): “Gli affittuari sono poche persone per di più ricche del proprio. Dunque volendosi preferire tali affittatori, i demaniali e molte Università ricadrebbero in poche mani e dei più potenti. Ad oggetto dunque che le popolazioni del Regno possano sentire vantaggio di tali censuazioni non deve darsi alcuna preferenza agli affittatori, ma a tutti li cittadini comprendendo fra essi i non possidenti ai quali per giustizia non meno che per economia si deve assegnare nella egual proporzione che si dà a tutti li altri cittadini”. ( ASN, RCS, Cons, aprile 1790, fsc. 441).
Al fine di lasciare il patrimonio demaniale in possesso dei comuni (Università): “Che morendo qualcuno senza figli maschi o con figli che vivono emancipati e che abbiano avuto la di loro tangente separata in tal caso la quota di costui s’intende ipso tunc devoluta all’istessa Università col carico parimenti di assegnarla ad altro fuoco (capofamiglia), che si acquisirà” [ASN, RCS Proc. Pand. II, fasc. 426, fsc.lo 11.458].
Certamente ci furono sacche di “resistenza” baronali (vedi cartina), con contenziosi spesso strumentali che, in alcuni casi, finirono con il degenerare in vendette trasversali e lunghe faide.
E’ chiaro che il Prof. Pedio, citato quale fonte da Silverio, per la sua pubblicazione non poteva aver tratto spunto da questi importantissimi documenti (oltre 12.000) la cui catalogazione d’archivio risulta essere stata conclusa nel 2000.
Quindi non una goccia nel mare. Tutt’altro. Tuttavia è da dire che diverso fu per la Sicilia.
Infatti il grave errore che commise Carlo di Borbone quando, dopo aver scacciato gli austriaci dalla parte continentale del Regno, si approntava a passare lo stretto di Messina per muover guerra ai principi siciliani, fu quello di accettare un patteggiamento con questi pur di evitare la risoluzione armata.
Questo accordo causò l’applicazione parziale e tardiva sul suolo siciliano della riforma feudale. In più generò una cospirazione interna da parte dell’alta aristocrazia siciliana e della borghesia agraria che si materializzò più volte e non solo in Sicilia, anche grazie all’appoggio segreto del Governo inglese disturbato dal sistema antiliberale napoletano. Non a caso Garibaldi sbarcò proprio in Sicilia, tallone d’Achille del Regno e, guarda caso, scortato da due navi da guerra inglesi: Intrepid e Argus.
Il motto: “Il tutto cambi affinché nulla cambi” – del famoso romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (manoscritto del 1957, edito postumo nel 1963) e quindi film omonimo di Luchino Visconti del 1963 – la dice lunga sulla questione demaniale e nobiliare siciliana.
I beni demaniali di Ponza.
Per quanto riguarda la partenza da Ponza degli isolani per sfuggire ai francesi del 1809, non fu, come accenna Silverio, limitata a poche persone. Senza scomodare la dettagliata (ed in alcuni punti pedissequa) relazione del Principe di Canosa, responsabile della resistenza borbonica antifrancese nelle isole, cito il Tricoli, che a pag. 257 della nota Monografia scrive: “ Bandita la ritirata, nel mezzodì fissato del 24 novembre 1809, suonò la generale ed imbarcarono le truppe, e materiali di guerra, il Governatore civile coi dipendenti, e tutti i funzionari, nonché la maggior parte degli abitanti….”.
Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa (1768 -1838)
L’acquisizione dei terreni abbandonati dai fuggitivi da parte di chi restò alla mercé dei francesi, non si deduce solo dalla comparazione dei beni in possesso delle famiglie prima (1734 – 1772) e dopo la parentesi francese (1816), ma si evince chiaramente dagli atti di acquisizione della proprietà per “estrazione ed incanto” conservati negli Archivi di Stato di Santa Maria Capua Vetere e qualcuno anche in quelli di Latina.
Invece, tutti gli atti depositati negli archivi comunali di Ponza andarono distrutti durante i noti eventi del giugno 1857.
Gli eroi liberali.
In merito ai personaggi citati da Silverio e da lui accreditati come “il fior fiore degli intellettuali del regno: da Settembrini a Carlo Poerio a Silvio Spaventa”, al di là di ogni buona ragione, di fatto essi “lavoravano” per uno stato monoclasse, quello dei notabili (i galantuomini di cui poi fu re galantuomo Vittorio Emanuele II), e non certo per quello pluriclasse di una democrazia a suffragio universale quale espressione diretta del popolo.
I Borbone difendendosi da costoro (tutti rigorosamente affiliati alla massoneria di rito scozzese) in pratica difendevano il popolo che, di lì a qualche anno, sarebbe finito nelle fauci di quella “dittatura feroce” che fu il Regno d’Italia, così efficacemente definita da Gramsci.
E quindi: guerre coloniali, razzismo di conquista, due guerre mondiali, la corruzione di Stato, il fascismo, leggi razziali, l’emigrazione ecc. ecc.
Scrisse Napoleone III: “ I Borbone non hanno commesso in cento anni gli orrori e gli errori che hanno commesso i Savoia in un anno”.
Conclusione.
Riassumendo quanto esaminato finora, è chiaro che ai Borbone la riforma demaniale costò il trono essendosi inimicati da una parte i baroni, spossessati dai feudi e tartassati sui fondi liberi, e dall’altra i notabili, i famosi galantuomini, ai quali fu impedito di acquistare le terre demaniali degli ex feudi. Come sempre era accaduto da Carlo in poi, i Borbone ebbero dalla loro parte solo il popolo rurale (i coloni) che, imbracciando ogni tipo di arma, diede vita per 12 anni ad una disperata resistenza per bande, più comunemente conosciuta con il nome di brigantaggio. Al termine di questa enorme tragedia nazionale di cui solo oggi, ad oltre 150 anni dai fatti, si comincia a conoscere l’entità, ci furono 685 mila morti tra i civili e 84 paesi rasi al suolo o bruciati.
Il brigante Petrelli
Concludo con l’estratto di un’intervista fatta a Luigi Settembrini da alcuni studenti universitari, in merito alla devastazione militare ed economica del Sud causata dall’annessione al Piemonte:
“Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di questo!” – “Professore, come c’entra quello lì?” – “Si, c’entra; se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente, e noi facemmo peggio”.
Luigi Settembrini (1813 – 1876)
Immagine di copertina: Coloni censuari; 1861
Silverio Tomeo
5 Gennaio 2014 at 01:41
E’ riprovevole, e mi riservo di meglio argomentarlo in seguito in un intervento organico con riferimenti bibliografici seri, spacciare per “revisionismo storiografico risorgimentale” la sottocultura neoborbonica, che mai ha ottenuto risultanze storiografiche di qualche rilievo e che è solamente una ideologia retriva, una sorta di macabro meridionalismo reazionario, un negazionismo di valori moderni e progressivi.
La Resistenza venne chiamata, non senza eccessiva retorica, il “Secondo Risorgimento” proprio per rimarcare che in un certo senso completava le mancanze del Risorgimento unitario nei suoi aspetti moderati e non esattamente popolari.
Domenico Musco
5 Gennaio 2014 at 12:14
Ringrazio la Redazione per aver proposto l’affascinante storia del Regno delle due Sicilie riguardante la colonizzazione delle isole. Fate bene ad approfondire questi argomenti e a continuare nella ricerca della verità.
Non demordete perché la storia la scrivono sempre i vincitori e mai i vinti.
É difficile andare contro corrente ma ci sono persone che apprezzano altre visioni e i diversi punti di vista della storia.
Mi piacerebbe sapere di più sulle differenze fra il nord e il sud in quegli anni, ed i particolar modo il tasso di disoccupazione, il reddito dei cittadini, i servizi a disposizione dei cittadini, in breve uno spaccato del tenore di vita tra le due Italie…
Buon lavoro e grazie!
Alessandro Romano
5 Gennaio 2014 at 13:05
Egr. Sig. Tomeo,
credo che ogni dibattito civile, soprattutto quando si parla di storia, debba avvenire all’impronta del rispetto reciproco e, possibilmente, in assenza di aggettivi (è una rigorosa regola degli storici).
A lei può non stare bene ciò che ho articolato, addirittura definendo poco serie le mie fonti (Archivi di Stato!), ma le faccio notare che alla mia nota lei ha risposto solo con frasi colme di livore e di pregiudizi che non le fanno onore (anche perché sono note e preconfezionate). Attendo, invece, una sua nota storica. Giusto per farle comprendere il livello del mio “retrivo pensiero”, le cito Voltaire di cui sono un profondo ammiratore: “Non condivido il tuo pensiero ma sarei pronto a morire per il tuo diritto ad esprimerlo”.
Colgo l’occasione per ringraziare Domenico che, saggiamente, ne vuole sapere di più.
Silverio Tomeo
5 Gennaio 2014 at 13:33
La mia nota storica sul Risorgimento arriverà. Prova intanto a raccontarci la tua amicizia elettiva con Alfredo Mantovano, ad esempio. Ex dirigente di Alleanza Nazionale, già sottosegretario ora tornato in magistratura, ex dirigente di Alleanza Cristiana, nota associazione del fondamentalismo cattolico, co-fondatore con Gianni Alemanno di una fondazione culturale nota per islamofobia e posizioni reazionarie di ogni tipo, protettore sino a poco fa dei neofascisti di Casa Pound. Oppure quella con l’ex senatrice Poli Bortone, già pasionaria dell’MSI e fondatrice del ridicolo movimento “sudista” IO SUD, adesso tesa a resuscitare la fiamma tricolore di Alleanza Nazionale, ma inutilmente. E parlo di questi perché sono salentini e so le circostanze, i fatti e le persone. Oppure prova a raccontare quando un esponente del movimento neo-borbonico cercò con risultati ridicoli e irrilevanti di candidarsi a sindaco di Napoli nell’ultima tornata elettorale. Altro che a-politici e studiosi di storia patria.
Alessandro Romano
5 Gennaio 2014 at 14:02
Egr. Sig. Tomeo,
credo che, in preda a qualche equivoco, lei stia facendo una grande confusione.
vincenzo
5 Gennaio 2014 at 17:34
Certo condannare Sandro per essere ancora filo Borbone e poi accusarlo di essere un ex fascista significa non fargli intendere che senza l’unità d’Italia non ci poteva essere il nazionalismo e quindi il fascismo.
Ma è anche impressionante non capire che le guerre, tutte le guerre sono state fatte contro i popoli e come si fa a difendere Vittorio Emanuele e condannare Ferdinando in nome del popolo, come al contrario come si fa a difendere Ferdinando contro Vittorio Emanuele in nome della autodeterminazione del popolo del Sud?
Quella è stata sicuramente una guerra di aggressione, ma tutte le guerre hanno un aggressore; il povero Garibaldi al fine ha ubbidito al disegno Liberista di Cavour e ha consegnato le chiavi del Sud ad un altro Re. Ma tutto era inevitabile: non si vincono le guerre né si diventa Re D’Italia per fortuna, o perché si è solo dei banditi usurpatori, si vince perché fattori interni ed esterni, politici ed economici ma soprattutto militari consentono la vittoria: ma cosa c’entrano le vittorie con la storia dei fatti che vedono tutti i popoli ancora sfruttati?
Il vecchio Settembrini dice che era meglio Ferdinando? Settembrini è stato nelle galere di Ferdinando e se dice quello è perché ha capito che dalla teoria, dai principi di libertà e giustizia a passare alla pratica è un salto che rimane nel buio e Lui alla fine, onestamente lo rileva, ma i suoi anni di galera stanno a dimostrare che il dispotismo se pur paternalista, era di un solo uomo al comando contro il popolo, sfruttato e corrotto.
Ancora adesso si parla di Nord e Sud, di Mezzogiorno d’Italia, ancora adesso si parla di questo perché l’Unità politica ed economica non si è mai compiuta: ma io anche se dico questo certo non mi ispiro ad un modello legato al Regno delle due Sicilie, ma agli Stati Uniti D’Europa che ancora hanno da venire e pochi ne parlano perché legati ad un passato di Eroi che si vogliono per forza spolverare e mettere di nuovo sui piedistalli.
Biagio Vitiello
5 Gennaio 2014 at 18:26
A riguardo degli articoli storici di Sandro Romano, mi aspettavo un dibattito più civile e corretto, dove le opinioni di tutti venissero rispettate a prescindere della militanza politica.
Sullo spirito dello scritto, posso dire (o ribadire) che la storia la fanno i “vincitori” (e sia chiaro che non ho mai avuto simpatia per i neo-Borbonici).
Noi Ponzesi (indigeni), assidui lettori del sito, a riguardo della “querelle” innescatosi tra Sandro e il sig. Tomeo, sappiamo tutto di Sandro Romano e della sua storia politica, ma… ci piacerebbe altrettanto conoscere il sig. Tomeo e della sua storia, per farci una modesta opinione su quanto si scrive.
Oppure si potrebbero tralasciare le persone e discutere sui fatti (accertati e inoppugnabili): che sarebbe la cosa migliore!
Gennaro Di Fazio
5 Gennaio 2014 at 20:11
L’introduzione del libro di Paolo Mieli “I conti con la storia” così inizia:
“Il secolo delle febbri ideologiche e delle grandi passioni politiche ha inferto colpi esiziali al ruolo degli storici”; e subito dopo: “ragione per cui chi si ripromette oggi di fare i conti con la storia deve misurarsi con libri (spesso eccellenti) quasi sempre intaccati dallo spirito dei tempi, condizionati da calcoli politici e da tabù ideologici, poco inclini all’esplorazione di modi innovativi di guardare al mondi di ieri”.
Sempre dallo stesso libro, c’è una considerazione che trasferisco a Sandro Romano come domanda che io stesso mi sono sempre posto:
“È davvero una stranezza che in Sicilia nel 1860 alcune centinaia di soldati assai anomali guidati da un personaggio oltremodo irregolare, quale erano i Mille di Giuseppe Garibaldi, abbiano sopraffatto il più grande esercito italiano dell’epoca che solo nell’isola, tra fanteria, cavalleria e artiglieria, schierava qualcosa come venticinquemila uomini. E che lo stesso si sia ripetuto sulla via che li portò a Napoli.
“Nessuno più di me stima Garibaldi” – scriveva già allora Massimo d’Azeglio – “ma quando s’è vinta un’armata di 60.000 soldati, conquistando un regno di sei milioni di abitanti, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che c’è sotto qualcosa di non ordinario”
Alessandro Romano
5 Gennaio 2014 at 20:49
Caro Gennaro,
io quelle risposte le vado dicendo in convegni e conferenze in giro per l’Italia da 20 anni. Risposte, naturalmente, tutte corredate da documenti e citazioni che non sono mai, salve qualche inevitabile eccezione, di parte borbonica.
Sinceramente non volevo intervenire in questa sede perché “nemo profeta in patria”, poi Giuseppe, le tue parole mi hanno convinto. Infatti ritengo che anche la gente di Ponza, la nostra gente, abbia il diritto di conoscere “quell’altra” verità, quella che i libri di scuola hanno omesso per 150 anni.
Purtroppo, qualcuno ha ritenuto di screditare il mio lavoro attraverso la delegittimazione della mia persona, usando invettive e calunnie prive di ogni fondamento. Mi disse una volta una persona anziana a me molto cara: “Diffida da chi nemmeno davanti alla verità è disposto a cambiare il suo pensiero”.
Io, grazie all’esperienza e ad una maturazione anche intellettuale, ho mutato il mio pensiero politico, come, credo, bene o male, poco o molto, un po’ tutti voi, miei vecchi compagni di scuola e di gioventù. L’importante è essere coerenti con se stessi e con le persone che si hanno di fronte e rispettare sempre e comunque il pensiero degli altri, in ogni luogo ed in ogni occasione.
Grazie.