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Fari e ricordi (8) – Quando mi rifugiavo nella torre del farodi Vincenzo (Enzo) Di Fazio La torre di un faro e la sua lanterna rappresentano, da sempre, le parti più affascinanti di queste sentinelle del mare. Si, proprio così: togliersi le scarpe. Il primo scalino, quello più grande, posto all’ingresso della torre era di marmo ma tutti gli altri che formavano la spirale erano di cemento, abbelliti da uno spesso strato di pittura grigia. I primi tempi quando percorrevo quegli scalini sentivo il cuore arrancare, lo sentivo pulsare forte fino a percepirne i battiti in gola. Non tanto per la fatica quanto per l’emozione che mi prendeva per quello che mi apprestavo a vedere. Prima di arrivare alla lanterna si passava per una saletta circolare che un po’ intimidiva per le attenzioni che i fanalisti le dedicavano. Al centro, protetta tra quattro colonne, c’era la teca con la strumentazione tutta di ottone costituita da cilindri dentellati tenuti tra loro in una maniera così armonica da ricordare la cassa di un orologio ed il meccanismo di un carillon. La teca aveva una porticina per consentire l’ispezione e la pulizia. Sotto le colonne, in corrispondenza con il pavimento della saletta c’era un foro circolare del diametro di circa mezzo metro. Vi passava una corda di acciaio flessibile spessa un centimetro che, avvolta attorno al tamburo-motore contenuto nella teca, faceva ruotare le lenti man mano che andava a srotolarsi nella torre sottostante grazie al peso del disco di ghisa, largo quasi quanto il foro, posto alla sua estremità. I fanalisti a turno, durante la notte, utilizzando una manovella che veniva infilata dall’esterno della teca nell’asse del tamburo-motore, dovevano darvi la “carica” ogni 3 ore per assicurare che il peso non toccasse mai il fondo della torre, scongiurando così l’arresto della rotazione delle lenti. Ero affascinato da quel cuore meccanico che vedevo incredibilmente piccolo rispetto alla grandezza di tutto il resto ed alla mole della piattaforma sovrastante ove era collocato l’apparato delle ottiche. Quella saletta aveva le pareti abbellite da pannelli di legno con appesi in punti diversi un barometro, un termometro a muro ed una piccola mensola con due robuste lanterne, il che la faceva somigliare alla cabina del comandante di una nave. C’era poi una scala di ferro che ti portava alla gabbia della lanterna, grande quanto la saletta sottostante ma apparentemente molto più ampia per via degli enormi vetri che, in un avvolgente abbraccio, ne costituivano le pareti. Al centro di questo ambiente c’era la piattaforma rotante con l’apparato delle ottiche e la gigantesca lampadina che mio padre, ancor prima che la vedessi, mi aveva descritto essere tanto grande da non poterla contenere in un abbraccio. Tutt’intorno un calpestio di ferro che ti consentiva spaziare lo sguardo dai faraglioni del Calzone Muto alla punta Capobianco, dalla montagna della Scarrupata alla sagoma di Palmarola passando per l’orizzonte infinito che incontravi in direzione di mezzogiorno.
Stare lassù era come stare sulla plancia di una nave; girandoti intorno avevi la percezione immediata di come stesse cambiando il tempo; così le increspature sempre più evidenti dal lato di Palmarola erano il preludio ad un ponente fresco, come l’addensamento minaccioso di nuvole dal lato di Zannone rappresentavano l’annuncio di una tempesta di levante. Levante e ponente, ponente e levante: questi i venti che ho imparato a conoscere per primi proprio stando al faro. Ed era bello, dopo essersi fatto ammaliare dall’incedere dei cavalloni, volgere lo sguardo verso la pacificazione del lato di levante dove le acque piatte si increspavano appena, sotto l’azione delle “refole” di vento, solo verso l’estrema punta del faraglione là dove la roccia arpiona il mare. Durante le burrasche, di giorno, mi piaceva osservare la tempesta da vicino per cui correvo su in cima nella grande gabbia di vetro e lo facevo nonostante, salendo per la scala a chiocciola, avvertissi la paura dilatarsi. Sentivo il vento ululare attraverso le feritoie, lo sentivo spingere al portone d’ingresso, sentivo la pioggia schiaffeggiare i vetri delle finestre quasi a volerne saggiare la resistenza, sentivo i filari di ghisa dei parafulmini bacchettare i cornicioni del terrazzo ma mi fidavo della forza e della protezione del faro. Rimanevo ore seduto sul calpestio di ferro ad ammirare i giochi della pioggia tagliente contro le vetrate e le rincorse dei cavalloni fino all’infrangersi sui macigni della Scarrupata dove alzavano enormi colonne di schiuma. Per me era una sfida stare lassù; grazie alla fiducia che traevo dalla protezione del faro potevo godermi, vincendo la paura, uno spettacolo straordinario della natura.
Ma era bello andare lassù anche nelle notti estive quando il cielo stellato sembrava un grande luna-park illuminato e potevo mettere in pratica i primi insegnamenti di mio padre nell’individuare la stella polare e l’orsa minore, l’orsa maggiore e la luminosa Sirio.
O per ammirare il volo e le acrobazie dei gabbiani nelle giornate di vento fresco. Vi andavo spesso anche quando, di notte d’estate, sentivo avvicinarsi i lamenti delle berte , che volgarmente chiamavamo “parlanti” per quello strano modo di vociare tanto simile al grugnito di un maiale o al pianto di un bambino, lamenti strazianti che mettevano i brividi. L’ho imparato negli anni successivi quando, d’estate di giorno, mi è capitato di vederli, simili a dei piccoli albatros, volare a pelo d’acqua alla ricerca di pesci minuti di cui abitualmente si nutrono. Quanti dualismi nella vita di un faro. Il ponente ed il levante, la tempesta e la calma piatta, il buio e la luce, la paura ed il coraggio. Nei fari stessi c’è una doppia natura. Ancora oggi mi capita ogni tanto di rifugiarmi nella torre del faro… come è accaduto nel raccontare questi ricordi. 4 commenti per Fari e ricordi (8) – Quando mi rifugiavo nella torre del faroDevi essere collegato per poter inserire un commento. |
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Ho letto con molto piacere l’articolo di Enzo. Mi ha evocato il ricordo di una notte di tempesta, con fulmini che, attirati dal parafulmine, disperdevano la loro immensa energia nella gabbia faradica del faro.
Quei fulmini mi mettevano grande paura, sembravano tuoni di un grande cannone, e i lampi simili a un flash sparato negli occhi…
Mio padre correva a staccare i “coltelli” (l’interruttore generale di corrente) e una volta, mentre faceva questa operazione, fu quasi tramortito da una scarica.
Ricordo anche che nella saletta sotto la lanterna c’era un registro, nel quale venivano appuntati dal fanalista di guardia il giorno, l’ora e la temperatura.
Caro Enzo,
ora capisco perché il Faro della Guardia è veramente il tuo “luogo del cuore”. Ho seguito quel bambino e sono salito anch’io sulla grande vetrata del faro che dal “Calzone Muto, abbracciando la linea dell’orizzonte, arrivava a Palmarola e alla Piana Bianca. Ho sentito con te l’odore della salsedine che il vento forte di ponente portava fin su; ma oltre alla natura ho percepito l’enorme orgoglio di quel bambino di avere un padre fanalista. Mi sono anch’io tolto le scarpe prima di salire con te.
“Quanti dualismi nella vita di un faro. Il ponente ed il levante, la tempesta e la calma piatta, il buio e la luce, la paura ed il coraggio”.
Quanti dualismi nella vita, caro Enzo: la gioventù e la vecchiaia e quando da uomini maturi capiamo la gioventù e ricordiamo oltre a cose e fatti, i nostri padri, i nostri eroi di tanti Natali fa.
Forse l’ultima volta ci siamo lasciati male; voglio dirti che mi hai commosso per questi ricordi e proprio per questo ti voglio augurare un Buon Natale di cuore.
L’importante è non farsi del male, caro Vincenzo. Ti ringrazio per le belle parole e auguro anche a te un Sereno Natale.
Caro Enzo, mi son letto tutto di un fiato il racconto dettagliato della tua infanzia nel Faro della Guardia. Per te deve essere stata un’esperienza unica al punto di aver appreso ogni cosa di esso sia nella funzionalità dei suoi componenti che nella loro pronta e ordinata disposizione. Raccontandomi del Faro hai dato modo ai tuoi ricordi di un tempo di venire fuori dal guscio della memoria e riaccenderli non già con la candela o con una lampadina di basso voltaggio ma con il faro del tempo che sempre ci rapporta all’oggi. Lo spettacolo della natura che dalle finestre del Faro tu ammiravi e sempre con grande stupore per la grandiosità delle forze (sia le stelle in una calda notte di estate che il mare tempestoso e spumeggiante contro le rocce) è un ricordo talmente unico e personale che forse neanche la tua perfetta descrizione può mettere alla luce quelle meraviglie, quelle emozioni e perchè no quel piccolo-grande timore che esse suscitavano in te come in qualsiasi altro ragazzo. Un tempo la Natura era Sacra e l’Uomo da essa ha ricevuto le primissime Leggi per sopravvivere. Oggi Essa è stata offesa, oltraggiata ed impoverita; praticamente ce la siamo quasi giocata. Oggi è contro l’Uomo perchè offesa proprio nella elargizione dei suoi frutti. Caro amico Buon Anno e con te tutta la tua famiglia. Speriamo in un modo migliore!