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Cadetti venezuelani. Da Carla, un racconto anni ’50 che comincia in un porto e finisce con un gatto. . Quel giorno aveva una data unica e precisa: 27 agosto 1955, tre giorni alla fine delle vacanze, ma il pomeriggio era simile a tutti gli altri passati al porto a passeggiare insieme alla zia. Il porto è pieno di gente, il pomeriggio, a quell’ora. Tanto per cominciare ci sono gli abitanti del porto: alcuni in divisa estiva, con prevalenza di un bianco abbagliante, si aggirano con passo svelto da e verso i pochi edifici, oppure verso e dalle navi militari: finanzieri, marinai, poliziotti, altri, invece, mezzi nudi, in pantaloncini e canottiera, abbronzatissimi, si danno da fare intorno a navi o barche con corde, secchi, pennelli. Le voci sono forti e le comunicazioni tra gli abitanti del porto sembrano trattare invariabilmente qualcosa di estrema urgenza. Poi ci sono i visitatori. Per esempio loro due, la zia e lei che passeggiano avanti e indietro, possono fermarsi per comprare il gelato, oppure per salutare dei conoscenti, come loro a passeggio nel fresco del pomeriggio. Proprio così, perché gran parte del porto il pomeriggio è all’ombra e si può godere un fresco delizioso a passeggiarvi. A lei del fresco importa poco, non ha quasi mai caldo. Se potesse uscirebbe molto prima di casa, subito, dopo pranzo. Ma invece, d’estate è segregata in camera sua mentre tutti gli altri dormono. Sono anni che va avanti questa storia: ormai fa le medie e ha l’aspetto di una donna grande come mamma e zia, ma ancora la costringono. A lei piacerebbe invece incontrarsi con Annalisa, in casa, ma anche fuori all’ombra, ce n’è da qualche parte, anche alle due del pomeriggio. Annalisa è l’amichetta del piano di sotto e parlano sempre degli attori del cinema dei quali sono innamorate e dei ragazzi veri che a loro piacciono. Ma anche da Annalisa vige il coprifuoco del sonnellino pomeridiano ed è segregata come lei. Insomma, fino alle quattro e mezzo si vive in isolamento. Per fortuna ci sono i libri e anche Topolino, quando non glielo prende suo fratello. Poi, prima di uscire la zia ci mette tre ore a prepararsi: e scegli il vestito e truccati, insomma, sono quasi le sei quando si riesce a mettere il naso fuori di casa. Uffa, ecco qua, come al solito la zia ha rimorchiato. Lei abbassa gli occhi, si chiude a riccio e affretta il passo. Si aspetta che la zia faccia altrettanto, e invece no, chissà perché questa volta la zia risponde al saluto con voce cordiale e anzi, rallenta il passo, mentre due giovanotti in divisa le affiancano, decisi di unirsi a loro nella passeggiata, non senza aver chiesto educatamente il permesso. Lei neanche li guarda, li sente parlare con un tono molto educato e un accento straniero. Un’ occhiatina rapida e furtiva: sembrano due ragazzi molto giovani, ma che brutte divise, un colore verde ancor più cacarella e una foggia molto più a fagotto di tutte le altre, sì decisamente poco eleganti. Ora che fa la zia, fa le domande? Sì, con voce decisamente diversa da quella da rimorchio chiede: – “Di dove siete?”. I due le invitano a sedersi al bar. Seduti al bar, mentre la zia conversa ormai come quando è in salotto con le sue amiche, lei, rassegnata apre un quadernetto e comincia a scrivere con una penna che stava tra le pagine a tenere il segno. È una specie di diario segreto, ma anche un utile strumento anti-noia quando è in visita con la mamma o la zia in situazioni simili a questa. Insieme a tre persone che parlano di cose per lei assolutamente prive di ogni interesse, una mezz’ora o forse anche un’ora da passare seduta, il suo quaderno è prezioso. Cominciarono a parlare e a ridere e lei gli faceva vedere il suo quaderno e lui le foto che teneva nel portafoglio. – “Che ragazzi carini, così giovani in giro per il mondo” – La zia era entusiasta e caracollava sui tacchi verso casa. Per tre giorni di seguito andò al porto per incontrarsi con lui. Andò sola, non si fece accompagnare da Annalisa, perché era sicura che si sarebbe messa a ridere in faccia a lui, come usavano fare quando incrociavano un ragazzo che piaceva a una delle due. Diceva di uscire con un’altra amica che non abitava nel palazzo e le credevano, al massimo potevano pensare che avrebbe mangiato due gelati invece che uno solo. E temeva molto di essere scoperta, ma per fortuna non accadde. Poi la fine delle vacanze e la partenza per la sua città. Il cuore spezzato, si capisce. Era impensabile lasciare recapiti e indirizzi. La storia finì li, con il terzo incontro e un saluto triste: – “Pensami… pensami”. La scuola ricominciò, la terza media, una classe da grandi; infatti le compagne sembravano donne fatte. I compagni no, anche se un po’ più irsuti dell’anno prima , sembravano ancora bambocci, non come il suo uomo di diciotto anni e marinaio. Ci pensava… eccome se ci pensava; tutto a un tratto gli attori del cinema erano diventati scipite apparizioni. E non era più divertente andare con le amiche, tutte in gruppo e ridere in faccia ai ragazzi per i quali qualcuna aveva preso una cotta. “Mannaggia” – pensava – “che faccio oggi” . E per qualche mese andò avanti così: pomeriggi da sola con la musica e il diario segreto, ma sempre in compagnia dei pensieri per lui. Tornava da scuola a piedi, un bel giorno e trovò un gattino. Si chinò a raccoglierlo e quello fece subito le fusa. Decise di portarlo a casa per tenerlo con sé e di lottare per far cadere il divieto della mamma. Cominciò a pensare che cosa doveva dire, le promesse da fare sullo studio, la collaborazione in casa e a cosa poteva rinunciare pur di tenere il gattino. E intanto lo portava con sè nell’incavo del collo e sentiva quanto era liscio e quanto erano sonore le fusa di quel batuffolo così piccino. Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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