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Responsabilità, comunicazione e politica

di Francesco Ferraiuolo
Auschwitz. L'ingresso al campo [1]

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Un argomento con considerazioni di interesse generale proposto da Franco Ferraiuolo, che si chiedeva se potesse interessare i lettori di Ponza racconta. Lo sottoponiamo alla loro attenzione
La Redazione

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Nei giorni scorsi, su questo sito, si è scritto della responsabilità individuale (leggi l’articolo e i commenti ad esso: qui [2]), scaduta nell’indifferenza rispetto alla tragedia dell’Olocausto, mentre questa si compiva, come conseguenza di una estesa abdicazione di quei valori inclusivi posti alla base della convivenza democratica e civile nonché esaltanti la dignità dell’uomo.

Nonostante le denunce, i giorni della memoria, le testimonianze, per esecrare quello e tanti altri fatti orribili, a quanto pare i misfatti e gli orrori umani non accennano non dico ad estinguersi ma almeno a ridursi se ancora oggi annoveriamo le stragi dei migranti, le continue e dissennate guerre nelle diverse parti del mondo, le persecuzioni cruenti ad opera dei regimi dittatoriali, i crimini delle mafie, le varie forme di oppressione, ecc.

Recentemente mi sono imbattuto in ciò che scriveva il sociologo Lewis Mumford nel 1944: “Quello che stiamo vivendo si presenta come un periodo di grande confusione e disintegrazione; un periodo di crisi economiche paralizzanti, di sfrenati massacri e tirannie, e di guerre devastanti nel mondo; un periodo in cui tristi frutti hanno tradito le rosee promesse. Ma al di là di questi fenomeni di distruzione materiale, possiamo scorgere una serie di cambiamenti precedente e forse più importante: una perdita di comunione fra classi e popoli, una frattura nella stabilità della condotta, una perdita di forma e di scopo in molte arti, mentre sempre maggiore importanza viene attribuita a ciò che è comune e casuale”.

Questo è stato scritto nel 1944 da un sociologo statunitense rispetto al quadro internazionale che gli si presentava un anno prima della fine della seconda guerra mondiale e delle tragiche dittature presenti in Italia e in Germania; eppure, per certi versi e con i dovuti adattamenti, sembra, ancora oggi, che si possa sottoscrivere quella riflessione.

A distanza di quasi settanta anni, se ci soffermiamo a questo periodo storico in cui pure tante conquiste di civiltà sono state fatte, la malvagità umana e la violenza da essa scaturente sono ancora imperanti: c’è molto di vero e, purtroppo, ancora attuale nella locuzione latina “homo homini lupus” (l’uomo è un lupo per l’uomo) nella concezione declinata dal filosofo inglese Thomas Hobbes.

Eppure, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, riducendo drasticamente le distanze temporali e spaziali al punto che in qualsiasi parte del globo terracqueo vengono capillarmente scaricate quantità ingenti di notizie, contemporaneamente ed in tempo reale, talché il sociologo canadese Marshall Mac Luhan definisce il mondo: “villaggio globale”, avrebbe dovuto avere un ruolo importante nella divulgazione e nell’affermazione dei valori quali la democrazia, la giustizia, la solidarietà, l’aiuto per i più deboli, l’accettazione del diverso, ecc.

Ma non sembra che sia accaduto così e, a ben riflettere, se ci riferiamo a ciò che capita ed ai comportamenti attuali dominanti nella nostra società, dobbiamo ammettere l’esistenza di un malessere esistenziale riconoscibile nella mancanza di capacità delle persone di porsi in proficua relazione con il mondo della spiritualità e dei valori, con il creato e con il prossimo.

E, paradossalmente, nella nostra società della comunicazione l’uomo è solo; solo con il suo televisore e con il suo computer.
Le persone, oggi, sono immerse in un mondo di messaggi non solo umani e verbali ma provenienti dai più svariati ambiti.
Le immagini incessanti della propaganda e della pubblicità, ricche di battute, motti ed impositive di tendenze ‘alla moda’, soggiogano la parola ed inducono a scelte individuali e collettive manipolate.
Il condizionamento di quel particolare quanto invadente “ambiente” dei media è tale che le parole sono sempre meno l’espressione del nostro pensiero genuino e sempre più ripetizioni  di battute da esso riprese, a cui ci si adegua più o meno passivamente come fossimo una cassa di risonanza.

In pratica, oggi, noi consumiamo parole (in quanto espressione di pensiero manipolato) che i media asserviti a svariati centri di interesse e di potere ci inoculano in modo subdolo e continuo nella mente poiché il sistema giunge ad affrancarci dal confronto tra di noi, ciò comportando un grave attentato alla comunicazione sociale, al valore esistenziale che essa rappresenta.

Condividendo l’opinione di diversi autorevoli autori, anch’io sono dell’avviso che l’odierna “Comunicazione” è unidirezionale ed esige soltanto modi di fare e di agire; non vi è né scambio né feed-back: solo proclami, annunci ed imposizioni.

Quello che manca drammaticamente è il luogo sociale della rielaborazione e della riflessione critica dei messaggi; la mancanza della metabolizzazione che faccia sintesi e scinda la parola vera da quella “drogata”, talché l’uomo possa agire liberamente e consapevolmente in un contesto di onestà intellettuale, consente storture e forzature “ad usum delphini” da cui, se la buttiamo in politica, originano i drammi sociali e le aberrazioni cui quotidianamente assistiamo ad opera dei tanti arroganti “bellimbusti” al “potere” in giro, indotti da quell’ambiente della comunicazione manipolata, spesso con competenze pressoché modeste se non nulle, che dichiarano un interessamento di facciata per i problemi esistenziali della gente ma solo per mascherare la loro sottomissione funzionale (questa è l’amara verità) a chi ha interesse per il profitto smodato ed il consumismo sfrenato.

E qui arriviamo al rapporto tra comunicazione e politica ed alla implicita responsabilità per l’esercizio del potere.
Una “Comunicazione” unidirezionale postula un rapporto verticale di comando-ubbidienza; il potere esplicato in tal modo non può che essere basato sulla coercizione.
La forza sarebbe, quindi, in questo caso, il mezzo specifico della politica, la cui grandezza sembrerebbe risiedere proprio nella capacità di usare la forza stessa.
Al riguardo, Simone Weil, che è vissuta nel tempo delle dittature europee essendo morta nell’agosto del 1943, ci mette in guardia quando dice che con l’esaltazione della potenza, per cui nella storia contano solo i “grandi” condottieri e le “grandi” gesta, si corre il rischio che si sviluppino germi pericolosi che, sfuggendo alla razionalità ed alla moralità, potrebbero farci ricadere in uno stadio dove solo la forza finirebbe per contare.

Si dirà che oggi il concetto di democrazia si è largamente affermato nelle nostre coscienze per cui non corriamo più il rischio della dittatura e dello stato di polizia ma, come sappiamo, ciò non è vero, intanto, per alcuni popoli sparsi nel mondo, nonostante i tristi esempi della storia.

Tuttavia, credo che il pericolo, anche da noi, sia sempre in agguato e che, anzi, esso possa essere favorito, laddove si operi per far desiderare il ritorno dell’uomo forte, proprio attraverso il potere persuasivo della comunicazione mediale, tenuto conto che, oggi, già siamo “inquinati” dalla politica che dalle nuove tecnologie multimediali è e sarà sempre più spinta a trarre al suo asservimento la producente logica della pubblicità commerciale, dove il tutto è condensato in battute e spot, naturalmente come quest’ultima permeata da una sottile dose di argomentazioni ingannevoli.

Certo è che dobbiamo stare attenti a non farci spingere dalle istituzioni e dalle strutture della nostra società, sempre più social-tecnologica, verso il dispotismo “morbido” adombrato da De Tocqueville.
Bisogna ritrovare il fine autentico della politica che la tradizione aristotelica definisce come “forma di vita buona”: questa è la nostra grande responsabilità.

In tale ottica, mi sembra di poter dire che la politica fondata sul consenso non debba essere soltanto un semplice strumento per raggiungere determinati risultati attraverso la misurazione dell’efficienza, dell’efficacia e della produttività, ma dovrebbe essere anche un modo di vivere da uomini liberi che decidono sulle proprie questioni in modo sensato e con raziocinio, talché il metro della funzionalità non sarebbe più l’unico con il quale valutare un sistema organizzativo (come nelle strutture meramente economiche), ma andrebbe valutato anche quando essa consente all’uomo di dispiegarsi pienamente nella sua intrinseca natura.
Quindi, una comunità politica vista piuttosto come estrinsecazione della ragione senza condizionamenti e finalizzata al bene della persona umana, considerata come un fine nella sua specifica unicità.

Hannah Arendt considerava il potere politico autentico come “agire di concerto”, che rifugge dal dominio di un individuo su altri; nella “res pubblica”, come derivata dalla isonomia ateniese o dalla civitas romana,  la politica è determinata dall’agire del popolo come unità.
Ecco, allora, che in questo modello il potere e la forza sono antitetici: la forza (o la violenza che dir si voglia) si impone quando viene a mancare il potere autentico, che deriva dal pacifico e genuino consenso popolare.

La domanda, a questo punto, è: il consenso popolare, formatosi attraverso il condizionamento operato dalla travolgente forza persuasiva dei media, attualmente, dà luogo ad un potere politico autentico o no?
La risposta che mi do io è negativa e non mi rincuora affatto.
Così come non mi rincuora affatto, nel contesto in cui ci troviamo a vivere, quale angosciosa conseguenza di ciò che si è indotto in divenire, l’attualità del pensiero del Mahatma Ghandi quando dice che ci sono sette cose che ci distruggeranno:

“…la ricchezza senza lavoro;
il piacere senza coscienza;
la conoscenza senza carattere;
la religione senza sacrificio;
la politica senza principi;
la scienza senza umanità;
gli affari senza à ETICA”
Come si vede, la materia per meditare non manca; il difficile è che essa diventi riflessione collettiva.