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L’intenditore, il piazzista, il meccanico tuttofare e il piccolo… manovale

di Pasquale Scarpati
La miscela speciale di caffè tostato [1]

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Pasquale Scarpati ci segue con interesse e affetto; spesso le cose che legge sul sito gli innescano ricordi e pensieri; qualche volta le sue elucubrazioni prendono forma scritta, come nell’articolo di qualche giorno fa (leggi qui [2]) e nel presente, tirato in causa dalle “Storielle ponzesi in pillole” di Michele Rispoli…
la Redazione 

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…Miche’!
Fresche, per me, come la dolce brezza marina che spira sul “ Lanternino” in un’estiva notte afosa e, nel silenzio e nella solitudine, rinfresca la pelle e lenisce gli affanni o come spuma del mare, dai mille riccioli bianchi, che, sciabordando, accarezza e modella vieppiù i ben levigati e variopinti ciottoli, così assaporo le tue ‘pillole’.
Lascio pertanto che l’onda rinfreschi gli arti, a me seduto là dove l’umido incontra l’asciutto, mentre scavo inutili buche tra i ciottoli più piccoli che corrono tutti insieme, ma a velocità differenti, or di qua or di là, a seconda dell’umore dell’acqua.

L’onda stessa, poi, li stimola a cantare all’unisono mentre trasporta innumerevoli oggetti che or si depositano, or si disperdono risucchiati dal gorgo.
Ma, a volte, l’onda procellosa, resa torbida dal nero, gravido e violento libeccio, si abbatte con enorme fragore sulla battigia disperdendo, in un baleno, tutti i granelli più piccoli. La stessa onda riesce talvolta a raggiungere i ciottoli più grandi che solitamente si trovano più distanti o più in alto e, o ci passa sopra, modellandoli, oppure riesce a lambirli oppure, ma di rado, riesce a spostarli, loro che sembravano abbarbicati tenacemente al loro posto.

Di solito il cupo e assordante frastuono dura poco. Venti contrari spingono lontano il tumultuoso libeccio, ritorna il sereno ed anche l’onda si acquieta dopo l’estenuante fatica. Come quando il micio gioca, gioia per gli occhi e per l’animo, facendo rotolare, con veloci e brevi colpi della  zampetta, or di qua or di là un oggetto, o palla o gomitolo,  così l’onda ritorna a giocare, senza fatica, eternamente e placidamente con i granellini che tornano a correre e a cantare come prima.
Ma la tempesta non è passata invano: ha lasciato sulla spiaggia alcune vestigia, sparse alla rinfusa: corpi di pesci morti, a volte sminuzzati e quasi putrefatti, a volte neri, a volte bianchi, frammisti ad alghe brune, bottiglie di varie forme e colori, contenitori di latta, oggetti di plastica di diverse grandezze, pezzi di corde, frammenti di reti, tronchi di alberi biancastri perché morti da tempo, a volte diritti a volte dalle strane forme bizzarre, tavole e tavolette da cui possono spuntare velenosi chiodi, ferri arrugginiti, qualche vecchio salvagente o qualche parabordo, la viscida medusa, oramai informe, e, nascosto, l’infido catrame.

Ma su tutto e su tutti il Signore fa di nuovo splendere il sole che dà forza e dà la vita, disintegra il marciume e induce ad andare avanti anche se a fatica e copiosamente sudando. Accaldato, quindi, mi tuffo e ritrovo antiche sensazioni ma sempre nuove, come ogni volta che si ripete il primo impatto con l’acqua fresca e limpida del mare cristallino.

“Fuoriuscito” in tenera età, non ho potuto partecipare agli eventi dell’isola per cui non ho potuto vivere a pieno la sua realtà quotidiana fatta anche e, a mio parere, soprattutto di “pillole” – rispecchiano il loro tempo – che producono in me l’antico e giocoso sferragliare dei cerchioni che correvano, quasi senza meta, prima sul basolato poi sul cemento poi sull’asfalto, spinti da ferri uncinati o bastoncini e dalla corsa dei bambini.
Il cerchione, nel gioco della corsa, spesso rifiutava di seguire la direzione agognata. A volte ondeggiava, puledro selvaggio, o per imperizia di colui che lo guidava, oppure per gli ostacoli frapposti dalla strada, piegando verso altre direzioni . A volte cadeva, ma subito la piccola mano lo sollevava e lo costringeva di nuovo a correre e a rotolare fino alla meta prefissata.
Raggiunta la meta, il bimbo si sentiva spossato per l’enorme fatica, ma era sicuramente felice e già con il pensiero si proiettava verso altre mete perché sapeva che, solo con il continuo movimento, il cerchione sarebbe stato preservato dalla ruggine e dalla conseguente dissoluzione. Il bimbo sapeva, altresì, che ad un certo punto, giocoforza, non ce l’avrebbe fatta più e che avrebbe dovuto cedere il posto ad un altro a cui, se previdente, avrebbe insegnato, prima di lasciare, i segreti della corsa del cerchione e di come mantenerlo in efficienza.
Ma bando alle ciance ed ai vecchi ed obsoleti ricordi che non servono a niente e a nessuno; voglio aggiungere un corollario (appendice) ad una tua pillola, una delle prime (leggi qui [3])

Al sottoscritto, ancora piccolo, ancor prima di “ espatriare” o quando ritornava dalle “sudate carte” (come dice il Leopardi), toccava “ l’onore” e l’onere, tra le altre incombenze, di abbrustolire il caffè.
Era il tempo in cui si tirava “la suola con i denti”: si doveva risparmiare su tutto. Risparmiava chi comprava, risparmiava chi vendeva, come dire il risparmio era nell’aria (a scuola si leggeva e si commentava la favola della “cicala e della formica”, stigmatizzando l’atteggiamento dell’insetto dell’aria, lodando, viceversa, quello dell’insetto terrestre e pertanto si giustificava anche il suo comportamento finale, non privo di cattiveria). Ma quelli erano altri tempi: oggi, sicuramente, questo non succede più!

Pertanto, per risparmiare nell’acquisto della merce e, di conseguenza, per tenere il prezzo più basso rispetto agli altri esercenti, mio padre comprava il caffè ‘crudo’ (non torrefatto) di diverse qualità, per poi tostarlo e miscelarlo.

Negli anni ’50 arrivava da Napoli (il “famoso” martedì pomeriggio alle cinque) e poi, in seguito, da Formia (trasportato da “Sigarett’”) in sacchi di iuta da un quintale.
Quando il caffè torrefatto era esaurito, si procedeva in questo modo: per prima cosa si tirava fuori da un piccolo ripostiglio un cestello scuro (simile a quello che si usa/usava per estrarre le palline nei sorteggi) e lo si poneva, ben fissato a terra, nel retrobottega in uno spazio all’aperto tra il negozio vero e proprio ed una grotta umida (oggi, mi hanno detto, questo spazio vuoto non esiste più).
Questo cestello poteva contenere fino a 5 Kg di caffè dello stesso tipo. Bombola di gas e lungo tubo di collegamento.
Io, manovale, già ero pronto, con la mano appoggiata sul manovella scura, per dare il via alle “giravolte”; zio Peppe, meccanico tuttofare, dopo aver verificato che tutto fosse integro e funzionasse alla perfezione, si accingeva ad aprire la manopola della bombola e dare fiamma al bruciatore.
Una volta acceso,  regolava la fiamma agendo su un’altra piccola manopola situata dalla parte opposta della manovella. Cominciavo a girare, sempre dallo stesso verso ed a velocità costante per circa 20 minuti. Sciabordio costante, odore acre, volute di fumo denso che sicuramente “inebriavano” casa di zia Maria che aveva il balcone sovrastante e rendevano “felici” Civitina e Rosalba, mie cugine.
Finita la cottura, zio Peppe versava il contenuto in un contenitore, a forma quadra, scuro, che aveva il bordo interno foderato di lamiera e velocemente smuoveva il tutto con una “cucchiara” di legno. Quando si era del tutto raffreddato spruzzava sul caffè  olio di vasellina per dargli  lucentezza. Il caffè, infatti, doveva essere rigorosamente lucido. Penso che, non esistendo ancora il “ sottovuoto”, l’aggiunta di questo prodotto, probabilmente, servisse per mantenere intatta la fibra del chicco di caffè e quindi si tentava, in questo modo, di conservarlo croccante quanto più a lungo possibile (ingegnoso espediente!).
Nel frattempo io abbrustolivo altro caffè di altro tipo. Finito il tutto, era compito di mio padre, l’intenditore, miscelare il caffè in base al prezzo. Veniva, poi, riposto in grandi “buccacci” dalla bocca larga posti, dietro il bancone, non molto in alto ma bene in vista. Su di questi era posta una targhetta con il prezzo ed il nome che si era dato alla miscela . La preziosa merce veniva letteralmente centellinata, in base alle richieste dei clienti, nei “cuòppi” di varia grandezza (da quello che poteva contenere fino a 50 gr, il più usato, a quello da un Kg, polveroso e abbandonato).
Questi ultimi, dal momento che rimanevano per lo più inutilizzati, avevano, per me, una diversa funzione: li portavo alla bocca (quelli più malandati ma non bucati), li gonfiavo e poi li facevo scoppiare alle spalle di persone, soprattutto adulte, che in quel momento mi sembravano distratte. Il botto faceva sobbalzare il malcapitato che, quando non mi rincorreva, saettava “jastemm’” nei miei confronti accompagnate da minacce per il futuro. U’ cuòpp’, riempito, veniva chiuso con una spillatrice o con lo scotch.
Non si possedeva ancora il macina caffè elettrico (anche perché l’energia elettrica non era erogata per tutta la giornata) ma, anche quando lo si ebbe in dotazione, molte persone preferivano macinare il caffè con il vecchio, scuro macinino. Asserivano, infatti, che con la macinatura elettrica si perdeva buona parte dell’“a – roma” (sic!). Secondo me, attraverso la macinazione “ casalinga”, non solo non  veniva perso neppure un decimo di grammo del prezioso prodotto ma, volendo, lo si poteva “ miscelare” con altro prodotto diciamo “ simile”.
A zio Pasquale, il piazzista, il compito di mettere sul mercato il prodotto dall’inconfondibile ed inebriante “a roma”.
Il bar del “Pittore” ne faceva gran uso.
A casa per “gustare” il prezioso alimento, come ho già scritto, ci si “arrangiava”, si aguzzava l’ingegno. Altri tempi!
Ciao Pasquale