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Intervista a Ruggiero Di Lollo

di Enzo Di Giovanni
4.2.1 [1]

 .

Siamo a Gaeta, davanti la casa-studio del professor Di Lollo, che in buona misura possiamo definire il pittore delle nostre isole perchè la sua produzione artistica è incentrata in gran parte sullo studio del colore e delle forme di Ponza e Palmarola.

 

Caro Ruggiero, noi ci conosciamo da “qualche” anno. Comincerei col dire, prendendola alla lontana, che tu sei originario di Agnone, la patria delle campane. Un montanaro, insomma.
Un montanaro, è vero, ma che non ha tradito la montagna: diciamo piuttosto rubato dal mare. Venni a Gaeta nel ’69 inviato dal Ministero per l’istruzione (al liceo scientifico E. Fermi) pensando di tornare presto a Roma. Decisi poi di rimanere un po’, e poi un altro po’: sono 40 anni che sono qui, io, i mei gatti ed i miei quadri.
Quando arrivai a Gaeta dipingevo su pannelli d’acciaio, con colori al nitro.
Poi conobbi dell’esistenza di Ponza e Palmarola, ma pensavo di non rimanerne influenzato: un bel posto per fare dei bagni e prendere un po’ di sole, nulla più. Al liceo dove insegnavo ebbi come alunno Tommasino Vitiello che mi disse: “Tdevi conoscere Ponza e Palmarola”.
Da allora, dal ’70, è come una sorta di pellegrinaggio: tutti gli anni devo andare a Ponza e Palmarola. E non è certo per prendere sole e fare bagni: ho scoperto una miriade di colori che mi hanno stregato.

Pannello al Nitro. 1971 [2]

Pannello al Nitro. 1971

Ed infatti questa è la prima cosa che balza agli occhi osservando la tua produzione: il passaggio dai pannelli al nitro ai colori di Palmarola. Sembrerebbe di essere di fronte ad una sorta di fulminazione.

C’è un episodio significativo, che io racconto sempre: dopo aver nel ’69 abbandonato la pittura tradizionale, quella ad olio di ispirazione quattrocentesca, ho iniziato a dipingere pannelli su metallo che erano all’avanguardia.
C’erano i più grandi critici italiani, come Argan, che mi tenevano in considerazione per quella pittura. Nel 1979 però mi tornò il desiderio di sentire l’odore dei colori ad olio: un odore antico, che sa di artigianalità, di solitudine.
Tornai a Roma, in via del Corso, in un antico negozio ottocentesco: mi tuffai in scaffalature alte otto metri con tutti i colori del mondo. Comprai l’attrezzatura
necessaria e dipinsi una piccola tela, 50 per 70 circa, che ho poi chiamato “Palmarolino”.

Che è stato un lungo parto…

Sì, ci ho lavorato 2 anni: una specie di appuntamento quotidiano, per aggiungere particolari, ma soprattutto per sentire l’odore dei colori. Pensavo fosse un unico
esempio, una sorta di tributo all’antica arte della pittura tradizionale. Ed invece dal Palmarolino, come sotto il flusso di un rubinetto aperto, sono nati migliaia di quadri. Ed ancora continuano a nascere: sono stati quella luce e quei colori a decidere il mio
destino di artista, e non solo. E questo lo si deve a Palmarola, a quella grotta magnifica sul monte di Tramontana dove andavo, dove si sentono solo i gabbiani, dove non c’è nulla a parte l’acqua piovana raccolta nel pozzo, e le “zoccole”: tante, a centinaia! I primi tempi che dormivo in quella grotta c’era un bidone pieno di
bossoli, non mi ricordo di chi fossero, ed un vecchio fucile che funzionava con la molla delle mutande: il cane non aveva più la sua molla ed era tenuto appunto da una molla di quel genere. Verso mezzanotte io sparavo due-tre colpi rasoterra: moriva qualche zoccola, le altre poi si avventavano sui cadaveri e non venivano a grattare la porta, altrimenti tutta la notte non si dormiva.
Gli altri che erano in spiaggia, i Martusciello, non mi ricordo se c’era già Gaetano Mazzella, sentivano sparare e dicevano: “E’ u professor cà spar a mezzanotte, chill’ è nù poc’ pazz’!” Mica potevo dire che sparavo alle zoccole!…
Eravamo nel 1980/81.

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I gabbiani strepitano perchè il sole porta con sè l’immagine di Palmarola. 1981

Il fascino primordiale dell’isola…

…E devi rispettare quei ritmi che Palmarola ti impone. Ma il fascino era proprio quello. Un giorno entrò un caprone, che aveva tredici anni: la puzza è rimasta per
tutto il periodo che sono rimasto lì. Tempo dopo domandai a Gaetano:
Ma il caprone che fine ha fatto che non lo vedo più?
– Aah, ma chill è caduto, è muort!
”- –
E poi?”
– E poi c’avimm mangiat’, ch’avevan’ fa?”-
E’ un riciclo continuo…

Torniamo alla tua pittura. Di solito quando si osserva un’opera, si guarda al gioco di luci e colori che l’artista trasferisce su tela. Giochi di ombre, profondità di campo, prospettiva. Nei tuoi dipinti di Palmarola c’è qualcosa di diverso. Siamo in presenza di un flusso continuo, non prospettico.

Perché non rappresento un’immagine stantia. Piuttosto, dici bene, un flusso.
Un movimento che io rendo attraverso la mobilità dei colori.
Pensa che non li firmo i miei dipinti: lo faccio sul retro. Questo proprio per non creare un confine visivo, una sorta di punto che blocchi la fluidità. Non solo. C’è un segreto che non dovrei dire: per rendere il dipinto più brillante, non uso certi colori, in modo da rendere questa vivacità, questa quasi “inesistenza” della forma, in una
presenza fortissima del colore “che si muove”. E’ una sorta di navigazione, come quando si prende una barca per andare a Palmarola ed alla fine si fa una somma di emozioni.

E’ questo il motivo per cui tu dai spesso dei titoli “generosi” ai tuoi quadri, quasi come degli haiku giapponesi, ad evidenziare ulteriormente questa vivacità.

In effetti il ‘Palmarolino’ è l’unico dal titolo corto, simbolico: non è il mio quadro più bello ma rappresenta senz’altro un punto di svolta. Non è il più bello ma piace a tutti. Forse proprio perché non è il più bello, ma è facile a capirsi.
Ti ricordi che feci una mostra a Ponza nell”80, un’altra nell”87? Nella prima mostra, che si chiamava “Le acque di Palmarola”, le scuole medie, dove esponevo, erano state in parte appena restaurate e mancavano ancora delle finestre. Esposi circa 150 quadri. Ricordo che il giorno dell’inaugurazione c’erano ancora calcinacci, polvere, e con alcuni amici un’ora prima dell’apertura eravamo impegnati a buttare secchiate d’acqua per pulire. Non facemmo in tempo ad asciugare. Quando entrarono le prime persone : – “Che bella idea, le acque di Palmarola! Si cammina sull’acqua!”-

…A proposito di fluidi…

A proposito di fluidi! Ma va bene così: l’arte è fatta anche di imprevisti!

Tornando alla tua pittura: tu hai scoperto il mare quando per lavoro ti sei trasferito a Gaeta. Ma hai continuato per anni a trattare pannelli al nitro. Possiamo dire allora che decisivo, più che il mare, è stato l’impatto con Ponza e Palmarola?

Si, è vero. Gaeta mi aveva già ammaliato, ma ho cominciato a dipingere il mare da Palmarola. Altrimenti avrei continuato su quella strada. Tra l’altro quei pannelli mi avevano portato sulla cresta dell’onda: ho esposto al Palazzo della Secessione di Vienna e in altre sedi prestigiose. Solo che poi Palmarola mi ha messo su un altro binario: non era più pittura d’avanguardia, ma di meraviglie cromatiche. Non decidiamo tutto noi. Per fortuna…

Analizziamo altri aspetti: tu credi che le isole influenzino, oltre che l’espressione di un’artista, anche il carattere delle persone che vi abitano? Cioè: credi che questo fluido che tu manifesti possa contagiare anche l’uomo?

Prendila come una battuta, ma io sono sicuro che molti a Gaeta non se ne accorgano nemmeno di avere il mare. Si sono accorti della fruibilità del mare dagli anni sessanta, quando è nata l’attività turistica. I gaetani sono un popolo di lavoratori della terra, a cui il mare non appartiene visceralmente: non era nemmeno un popolo di pescatori nei secoli passati. I ponzesi invece se ne sono accorti di sicuro. Certo, chi ci deve lavorare non ha tutto il tempo di andarci a trovare la poesia, sul mare. A volte ci trova sofferenza, fatica.
Chi ci trova la poesia è fortunatissimo: vuol dire che è in uno stato d’animo rilassato, sereno; ma è un “lusso sfrenato”, e non bisogna dirlo troppo in giro: chi ci lavora, la sera deve solo andare a riposare!

Eppure io credo che l’essere in mezzo al mare riesca a compenetrare l’animo anche di chi ci vive in maniera, come giustamente dici,  faticosa.
Anche se magari questo magari si manifesta a volte attraverso una sorta di “anarchia comportamentale…”

Sicuro! Sentirsi fuori dal mondo o sentirsi almeno con orizzonti diversi… Io penso che nessuno come un isolano possa soffrire del mar di terra, quando è costretto, anche per periodi lunghi, ad allontanarsi. Tornando poi al parallelismo tra contadini e pescatori, credo che siano due modi diversi di concepire la vita: il contadino ha una sorta di rapporto mistico con la sua terra, che deve nutrire giorno per giorno. Il pescatore invece non nutre il mare: ne fa uso.

Bé, non dimenticare che noi storicamente siamo stati l’uno e l’altro, spesso contemporaneamente… e a proposito di storia, un’ultima domanda: come vedi il futuro di Ponza?

Io un futuro lo vedo solo se le persone che la amano veramente pensano che questo amore deve continuare nei decenni e nei secoli prossimi. Nessuno deve divorare nulla: ci si deve vivere, ci si deve campare, ci mancherebbe… però queste isole vanno valorizzate, fatte conoscere, non date in preda alle mandrie. Le cose belle bisogna mostrarle, renderle fruibili e proteggerle! Bisogna saldare il rapporto con gli ospiti, che devono sentire quasi l’affetto, la generosità da parte dell’ospitante, non sentirsi “sopportati”.
Temo che a Ponza questo si stia un po’ perdendo negli anni… pensa che a Positano c’è persino il cimitero degli stranieri: perchè ci sono posti talmente belli che capita di pensare: “io in questo posto vorrei morirci!”

Anche a Ponza ci sono persone che hanno fatto questa scelta.

Perché questi sono posti unici, fantastici, e come tali vanno appunto valorizzati!
Ti racconto un episodio: sempre a Positano, raccontava Goliarda Sapienza, una mia amica scrittrice (autrice del best seller “L’Arte della gioia”, NdR), già settant’anni fa c’erano sarti che confezionavano un abito nell’arco di una giornata. I più facoltosi arrivavano in yacht, il sarto veniva a prendere le misure, e la sera prima della partenza il vestito era pronto. Questa era una magia. Alta sartoria. Alta cucina. I dolci di Giacomino a Positano: adesso non c’è più, ci sono i figli, ma la gente continua ad andare lì per i dolci di Giacomino, ed oltre ai dolci prende tutto il resto.
Parlo di Positano, ma io amo e frequento molto di più Ponza. Il punto che è che la gente non deve lamentarsi di un posto, ma deve andare via con l’animo pieno e l’idea di tornarci ancora per tanti altri anni…

Di Lollo. Skira Editrice [4]


Con Ruggiero Di Lollo parliamo ancora della sua pittura, del libro
antologico appena edito da Skira. La sua  passione, l’emozione ancora intatta dopo tanti anni di fronte ai colori magici delle nostre isole. Lasciando la sua casa, l’odore dei colori ad olio, la presenza discreta ma dominante dei suoi gatti, ripenso a quanto detto da
Ruggiero a proposito della fatica che ti stravolge e non ti fa cogliere la pienezza del bello. Su questo aspetto non sono del tutto d’accordo. Anche chi con la terra e con il mare ci “fatica” può cogliere l’essenza di questo luogo, se non altro perchè “costretto” ad adattarsi al suo ritmo, al suo respiro.
Invece spesso, sulle
valutazioni di Ponza sui portali turistici, leggiamo cose simili: – Ponza è bella, ma 3-4 giorni bastano per vederla.
– No, non è così. Il turismo mordi e fuggi, cannibale, a cui siamo costretti da
mode ed esigenze dei nostri tempi, mal si adatta alle Ponziane.
E se
c’è una
“mission” a cui votarci, è quella di rendere questa misura ai nostri ospiti estivi.
Per dirla con Proust, viaggiare non
significa vedere nuovi posti, ma avere nuovi occhi. Gli stessi che un “montanaro” molisano, tanti anni fa, ha scoperto di avere a
Palmarola.

 

Immagine di copertina. Ruggiero di Lollo: Trasparenze a Palmarola detto ‘Palmarolino’. 1977
Immagine in alto nell’articolo. Ruggiero di Lollo: Dal Trittico della luna. 1982