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Il ritorno (2)di Tina Mazzella . Si alzò prima dell’alba ed uscì sul balcone. Voleva vedere il cielo sbiancarsi ad oriente, mentre un pallido chiarore rosato si accendeva lentamente disperdendo l’oscurità della notte. Per niente al mondo avrebbe rinunciato ad assistere a quello spettacolo divino che si rinnovava ogni mattina donando alla terra luce e calore. Verso le otto, prima di passare dall’agenzia e dalle zie, si recò al bar della spiaggia a far colazione. Nel pomeriggio fece visita ad alcuni parenti con i quali s’intrattenne sino a sera. Solo più tardi passeggiando per il Corso Pisacane, osservando l’ambiente circostante e gettando un’occhiata alla merce esposta, ne comprese la ragione. I negozi offrivano prodotti firmati o di buona qualità a prezzi elevati; nelle tabaccherie si trovavano sigarette di ogni tipo ed articoli da regalo; le profumerie erano piene di cosmetici di marca e di profumi costosi. Le persone in genere vestivano alla moda e curavano oltremodo il proprio aspetto; possedevano automobili di grossa cilindrata, si concedevano viaggi in paesi lontani e cene nei ristoranti e nelle pizzerie. In tutte le case gli elettrodomestici abbondavano sostituendo validamente la manodopera femminile. Nel porto ed in prossimità delle spiagge erano ancorate barche magnifiche, segno inequivocabile di un’innegabile ricchezza. I ragazzi frequentavano le scuole trasferendosi anche in terraferma ed inseguendo il sogno di costruirsi un avvenire migliore di quello toccato in sorte ai loro padri.
Così la miseria di un tempo si riduceva soltanto ad un amaro ricordo per le persone più anziane che in qualche modo l’avevano sperimentata e ben povere cose erano parse ai parenti quei regalucci d’oltremare. Non aveva dimenticato l’eccitazione che la coglieva le rare volte in cui la madre la mandava alla bottega di Satore e di Cummarella a comperare a credito un etto di mortadella, con la quale tutti e tre si sarebbero imbottiti un colurcio di pane per la cena, o quando la spediva da Sabettella ’ncoppa a prendere tre uova da cuocere al tegamino. Non aveva dimenticato neppure il vento che ululava all’improvviso facendola rabbrividire di paura e di freddo, quando entrava in casa attraverso le finestre e le porte rendendo le stanze più gelide ed inospitali né la carbonella appesantita dall’umidità ed incapace di produrre un po’ di calore. Del resto, quelle condizioni di estrema precarietà non riguardavano esclusivamente la sua famiglia, bensì l’intera popolazione dell’isola, salvo poche eccezioni. Il cibo scarseggiava ed era poco nutriente. Si utilizzava ogni cosa senza nulla sprecare. Gli indumenti, dopo aver subito le necessarie modifiche, venivano tramandati di padre in figlio e di fratello in fratello, sino alla loro definitiva usura. Se il tempo lo consentiva, un solo piroscafo al giorno collegava l’isola con la terraferma ed una corriera sgangherata effettuava rare corse quotidiane tra Le Forna ed il Porto. Il trasporto delle merci era affidato a qualche furgone e ad un discreto numero di asini. La pesca, praticata per lo più con strumenti antiquati, serviva al sostentamento giornaliero dei pescatori e non procurava guadagni, così l’agricoltura effettuata con mezzi inadeguati su terreni magri e perennemente assetati. Era stata la miseria diffusa che non lasciava intravedere spiragli di luce per il domani a spingere intere famiglie ad abbandonare la terra d’origine per emigrare altrove. Tuttavia la sorte dell’emigrante era stata assai dura, lo sapeva bene Diana, poiché al suo arrivo in America la vita le aveva riservato difficoltà, umiliazioni e sofferenze. Poco più che bambina, aveva conosciuto il dolore di chi era stato costretto a lasciare i volti amati, i giochi e le cose più care, lo sconforto di camminare in un paese sconosciuto, straniera molesta guardata con diffidenza e con sospetto, un essere inferiore con il quale non s’intendeva condividere nemmeno l’aria. Si portava ancora dentro quel sentimento d’inesplicabile scoramento avvertito ogni anno in occasione della festa di San Silverio, quando si ritrovava con tutti i compaesani ivi emigrati per celebrare anche là il Santo Patrono dell’isola natia, una recita sotto tono, una rappresentazione triste, incapace di ricreare l’atmosfera calda e gioiosa del passato. Una cocente delusione le aveva lacerato l’anima alla scoperta di quanto l’America, la terra promessa, il paradiso terrestre, fosse ostile ai nuovi arrivati riservando loro un’esistenza marginale, anonima e faticosa. Non appena i genitori trovarono un’occupazione, Diana poté iscriversi ad una scuola per immigrati dove conobbe coetanei con cui condividere problemi e speranze. Di lì a qualche anno, conseguì il diploma di parrucchiera che le assicurò un impiego presso uno dei centri estetici del quartiere degli italiani. Amò quel lavoro dal quale trasse gratificazioni sia professionali che economiche. Con i risparmi mensili riuscì ad acquistare una casa tutta per sé, una casa circondata da un piccolo giardino come quella che aveva sempre sognato. Più tardi sposò Antonio. Da questa unione nacquero due figli che, in seguito al divorzio dal marito, allevò da sola occupandosi di loro con responsabilità e dedizione, finché non divennero adulti ed acquisirono la piena indipendenza. Anche quegli anni duri di sacrificio e di costante impegno, resi tuttavia più accettabili dal sostegno affettuoso dei genitori e ravvivati dalla presenza dei ragazzi, si consumarono in fretta lasciandola inerme e smarrita. Fu il silenzio della casa vuota ad alimentare i sentimenti di abbandono e di solitudine che da tempo Diana si covava dentro. Soprattutto la sera un’acuta nostalgia per le cose perdute le trafiggeva l’anima riconducendola sempre più spesso con la memoria all’isola dorata dell’infanzia, alla sua cordialità ed alle sue magie ed accendendo in lei una crescente curiosità di sapere se ed in quale misura il mondo che si era lasciato alle spalle fosse cambiato. Avvertiva il bisogno di rivedere i luoghi che le erano appartenuti, la casa che le aveva offerto protezione e sicurezza, le strade piene di sole risuonanti delle grida gioiose dei bambini, le spiagge accoglienti, ricche di conchiglie e di sassi colorati e le colline spruzzate di giallo dalle ginestre in fiore. Voleva ritrovare le persone che da bambina aveva frequentato ed amato: zia Lucia, zia Assunta, zio Alfredo ed i cugini suoi coetanei. Così, si mise in contatto con un’agenzia locale operante sul posto e le affidò il compito di provvedere alla ristrutturazione del vecchio bilocale paterno da lei ereditato. Quando l’abitazione fu sistemata, partì per l’Italia con molte aspettative e con altrettante domande. Seguitava a chiedersi con insistenza quale fosse l’attuale tenore di vita degli isolani e se la miseria di un tempo si fosse attenuata. Dal canto suo, stava facendo ritorno all’isola natia da vera signora, un’americana a tutti gli effetti. L’avrebbe acclarato in ogni occasione infarcendo il proprio lessico con frequenti o yes, okay ed altre espressioni appartenenti alla lingua acquisita. Aveva portato con sé vestiti alla moda con cui non le sarebbe stato difficile suscitare nei parenti meraviglia ed invidia. Nessuno doveva ravvisare nella turista fortunata arrivata dalla lontana America e pronta a magnificare in ogni occasione le proprie ricchezze vere o immaginarie che fossero, la piccola pezzente mangiapatate di tanti anni prima.
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