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Il ritorno (1)

di Tina Mazzella

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 .

Non la ricordava così la vecchia casa paterna, l’angusta casa nella quale era nata cinquant’anni prima ed aveva poi trascorso l’infanzia ed un breve periodo della prima adolescenza.
Nel varcarne la soglia, Diana si fermò ad osservarla tentando di registrare stupefatta i numerosi cambiamenti che la rendevano pressoché irriconoscibile.

La trovò più accogliente, confortevole ed ordinata, poiché non vi regnavano più il caos e la miseria del passato.
La cucina, che fungeva anche da ingresso, era piastrellata finemente sino al soffitto ed arredata con gusto da mobili moderni e da elettrodomestici funzionali. Su uno dei lati corti situato a destra dell’entrata, lo sgangherato lavandino di legno munito di brocca e catino di smalto era stato sostituito da una graziosa credenza di noce corredata da tre vetrinette di cristallo.
Sul lato lungo della stanza, come ai vecchi tempi, troneggiava un robusto tavolo con quattro sedie. L’ingombrante focolare posto sul fondo della cucina era stato demolito, sicché lo spazio ricavato, insieme con quello occupato dall’attiguo sgabuzzino, era stato trasformato in un comodo bagno.
Anche la camera aveva mutato aspetto: i muri erano imbiancati a calce; i pavimenti apparivano lucidi come specchi; i mobili di legno chiaro erano essenziali e vivaci.
Il monumentale letto dei genitori dalle pesanti spalliere di metallo e la brandina in cui aveva dormito da bambina non esistevano più. Non c’era più traccia dell’armadio cigolante e tarlato né della rumorosa macchina da cucire presso la quale la madre sedeva per parecchie ore della giornata per dedicarsi ai lavori di sartoria con i quali contribuiva a sbarcare meno faticosamente il lunario.

Spalancò il balconcino e fu presa da una viva emozione all’idea di ritrovarsi finalmente nel minuscolo spazio dal quale un giorno i suoi occhi innocenti avevano contemplato il mondo circostante. Lo sguardo percorse la via sottostante che, partendo dal ponte, risaliva diritta sino alla piazzetta della Chiesa di Santa Maria; si posò sullo stretto sentiero che conduceva più rapidamente alla spiaggia e, più a destra, sul breve tratto di strada provinciale che riusciva a scorgere e che attraversava tutta l’isola da nord a sud. Di là si poteva ancora respirare il profumo del mare pregno anche degli aromi dei fiori, dei frutti maturi e degli ortaggi provenienti dai piccoli appezzamenti di terreno poco discosti.

L'abitato di Santa Maria [2]

Ritornò nello stretto  cortile di accesso all’abitazione e si guardò intorno. Il pozzo, dal quale la famiglia da tempi immemorabili aveva attinto acqua sorgiva trasportandola su con capaci secchi di rame tirati a mano con corde robuste lasciate scorrere mediante una carrucola gracidante, era stato chiuso da grosse lastre di marmo.
Il muretto sul quale nonostante la giovane età, Diana aveva sistemato i catini per lavare e risciacquare i piatti, era rimasto intatto. I lavatoi ed il gabinetto comune in fondo al cortile erano stati abbattuti per dar luogo ad un ripostiglio.
Sulla strada sovrastante denominata un tempo ‘La Ginestra’, al posto degli orti erano sorte nuove costruzioni ed il vecchio gelso prodigo di frutti neri e dolcissimi non esisteva più.

In quel luogo familiare ed al tempo stesso estraneo, la donna si sentì disorientata. Con la mente confusa si diresse in camera e si gettò sul letto.

Avvertiva soltanto un grande bisogno di dormire e di non pensare per tenere a freno le emozioni ed il flusso dei ricordi.
Si disse che il mattino seguente avrebbe sbrigato le incombenze che l’attendevano: si sarebbe messa in contatto con le vecchie zie e con gli altri parenti residenti nell’isola, avrebbe saldato i conti con l’agenzia per la ristrutturazione e per l’arredamento della casa e dato notizie di sé ai figli oltre oceano.

Tuttavia frenare l’onda dei ricordi le risultò impossibile e, nel silenzio ovattato della sera imminente, alcuni scorci dell’infanzia le si spalancarono innanzi.

Spiaggia di Santa Maria. Antica foto. Small [3]

Si rivide seduta sul grande baule di legno posto tra l’armadio e la macchina da cucire, intenta a sperimentare anzitempo l’arte della massaia con le bambole di pezza, con le pentole ed  il fornelletto ricevuto in dono dalla zia Lucia in occasione di uno dei compleanni; si ritrovò  incatenata  al tavolo della cucina ad eseguire in tutta fretta i compiti per la scuola, per poi precipitarsi a giocare con i compagni per le strade o nei cortili.

Riudì la voce accorata della madre richiamarla ai suoi doveri, brontolare, rimproverare, tuonare minacce ed infine insinuare: “Sei una peste, una bambina sconsiderata e disobbediente! Certo che se avessi una matrigna, non ti sopporterebbe neppure per mezz’ora!”.

Lei allora, per ingraziarsela placandone l’ira, le saltava al collo per sussurrarle con voce suadente: “Ma io ho una mamma, non ho bisogno di una matrigna! Io ho te che mi vuoi bene, non è vero mamma?”.
Così la furia materna si scioglieva in un abbraccio ed in un ampio sorriso.

Si riscoprì la sera immobile nel lettino attenta ai discorsi dei genitori. Costoro si lamentavano costantemente del carovita e della difficoltà di trovare un lavoro.

Il padre si affannava quotidianamente nella vana ricerca di un imbarco anche se temporaneo che gli consentisse di ricostituire le magre risorse familiari, ma assai di rado vedeva premiati i propri sforzi. Se ciò accadeva, si assentava da casa per qualche mese riportando al suo ritorno quei pochi spiccioli a malapena sufficienti a pagare i debiti contratti con  i negozianti e a fare la spesa per periodi piuttosto brevi.
Mamma e papà centellinavano lira su lira e risparmiavano su tutto senza mai concedersi beni superflui. A volte si domandavano sconsolati come avrebbero potuto barcamenarsi così per tutta la vita.
Sempre più spesso prendevano in considerazione l’idea di espatriare per tentare altrove la fortuna. L’avevano fatto in tanti, perché non provarci? I genitori e ben sette sorelle della madre di Diana erano emigrati da anni negli Stati Uniti d’America e si dichiaravano soddisfatti di quella scelta.
La stessa sorte era toccata a due fratelli e ad una sorella del padre. Questa constatazione li rendeva più audaci e suggeriva loro di seguire l’esempio dei familiari per lasciarsi alle spalle quell’esistenza stentata e priva di sbocchi.
Diana li udiva confabulare mentre scrivevano lettere ai parenti lontani in cui esponevano le loro difficoltà, peroravano la loro causa ed indagavano circa la possibilità di essere richiamati in quelle terre.

Per anni quegli appelli accorati parvero inascoltati, finché nel 1956 un’improvvisa svolta degli avvenimenti accese la speranza. Fu una lettera di nonna Lina la quale prometteva di farsi carico anche del costo dei biglietti  ad annunciare che, al termine di quell’anno, tutti e tre sarebbero entrati in quota per partire per l’America.

Alla notizia come aveva preso a galoppare la fantasia della ragazzina!

Diana immaginava cose incredibili; costruiva castelli, città e palazzi; sognava vestiti, profumi e gioielli e già ne parlava con le amiche per suscitarne l’invidia, come se possedesse davvero tutte quelle ricchezze.

Provava con entusiasmo la gonna di panno lenci verde ed il maglione di lana dello stesso colore che la mamma le stava preparando per il viaggio della durata di 14 giorni sulla Saturnia.

Partì però con il cuore colmo di tristezza per il divieto dei genitori di portare con sé  il bambolotto di celluloide dalla testa rotta dal quale sino ad allora non si era mai separata.

Altro scorcio di Santa Maria [4]

 

[Il ritorno. (1) – Continua]