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Come ho conosciuto l’italiano (1). Un racconto di Predrag Metvejevic’proposto dalla Redazione
Predrag Matvejević (Mostar, 1932) è diventato, per i cultori del campo e ai nostri occhi una sorta di nume tutelare del Mediterraneo, per la sua opera e i suoi scritti, per la figura di vecchio saggio ancorché coltissimo, per la sua testimonianza di una cultura transnazionale del mare non da tutti riconosciuta come tale. . Come ho conosciuto l’italiano Cercherò di raccontare alcuni episodi di un tempo lontano, che influirono sul mio rapporto con l’Italia. Senza di loro, forse, non mi sarei deciso a stabilirmi in questo Paese. Era primavera, primi giorni di aprile. Allora cominciò la guerra nel nostro paese. Ricordo uno strano contrasto: da una parte le giornate luminose e serene, dall’altra i volti scuri e preoccupati. Nel cielo volavano aerei e sganciavano bombe sulla città dove vivevo con mia madre e una sorellina. La nostra città fu occupata dalle truppe italiane. Guardavo quei soldati con sospetto e timore. Il primo che incontrai aveva in testa un elmetto dal quale scendeva un ciuffo di penne: sentii che quei soldati con svolazzanti piume di gallo erano chiamati bersaglieri. Ne fui spaventato, avevo appena compiuto otto anni. Mi parve che fosse mio dovere proteggere la famiglia, essendo «l’unico maschio di casa». Soprattutto difendere mia sorella, di alcuni anni più piccola di me. Mio padre non ci dava notizie, presto venimmo a sapere che era finito in un campo di lavori forzati, in qualche parte della lontana Germania. Avevano scoperto che era nato ad Odessa e questo bastò per sbatterlo nel lager. Cominciai a scrivergli lettere, le spedivo a un indirizzo che, accanto al nome e al cognome, comprendeva soltanto due parole: «lager» e «Deutschland». Nella mia innocenza pensavo che i postini sapessero certamente dove si trovava mio padre. Fu così che cominciai a scrivere. Talvolta, ripensandoci, ho l’impressione di non aver fatto altro che scrivere lettere per tutta la vita. Spesso spedite a indirizzi sbagliati… Il dottor Jungwiert – così si chiamava, ricordo bene il suo nome – pronunciò un giorno una parola che al solo sentirla mi gelò il sangue nelle vene: «tubercolosi». C’era un solo rimedio, spiegò: «Bisogna nutrirla bene». E con cosa, dottore? Nelle vicinanze della nostra abitazione si trovava una caserma nella quale si sistemarono i soldati italiani. Cercavo di non badarci. Giravo alla larga per non incontrarli, la loro presenza mi era sgradita. Ma un giorno mia madre m’incoraggiò: «E’ gente che canta, alcuni anche pregano, certamente ci sono delle brave persone anche fra di loro». Mi suggerì di avvicinarmi a quei soldati per pregare qualcuno di loro di darci un po’ di riso per la mia piccola sorella. Imparai alcune parole italiane: dare, riso, sorellina, malata. Passai accanto a un soldato, poi a un secondo e a un terzo, farfugliando quelle parole, ma nessuno alzò gli occhi su di me. Probabilmente pensarono che fossi un mendicante. Il primo suonava l’armonica a bocca, il secondo guardava delle fotografie, il terzo era semplicemente immerso nei suoi pensieri. Fermatomi davanti al terzo, pronunciai per la seconda volta le quattro parole imparate a memoria, stavolta spiccicando meglio le sillabe. Mancavano le preposizioni, il verbo non era coniugato. La grammatica era assente ma speravo d’essere capito. Il soldato, infatti, trasalì, mi guardò, mi accarezzò i capelli, disse qualcosa che non capivo. Compresi però di essere di fronte a un uomo mite. Mi fece segno di aspettare, mi avrebbe portato qualcosa. Nell’autunno del ’43 l’esercito italiano in Erzegovina e negli altri territori occupati cessò di combattere. I soldati fuggirono da varie parti, si dispersero. Alcuni passarono nelle file partigiane, altri si arresero ai tedeschi e finirono nello Stalag. Oppure furono trasferiti forzosamente sul fronte orientale, verso l’inverno russo che i giovani mediterranei non sopportavano; altri ancora vagarono qua e là per sfuggire alla cattura, decisi a raggiungere la costa adriatica, mettere le mani su qualche trabaccolo e passare sulla sponda opposta. Tornare a casa. Mi sentivo triste, abbattuto. Perché non mi aveva avvertito? Come ha potuto? Gli scrissi una lettera piena di rimproveri, ma non sapevo a quale indirizzo spedirla. Mia madre mi disse che dovevo gettarla nel fuoco, distruggerla, «per non farla trovare», per evitare guai. Perché, aggiunse, «Mario ha raggiunto il bosco».
[Tratto dalla Lectio doctoralis, tenuta in occasione della consegna di Laurea honoris causa all’Università di Trieste (28 giugno 2002). Traduzione di Giacomo Scotti]
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