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La “villeggiatura” di Pietro Secchia

di Silverio Tomeo

 

Quello che sappiamo della “villeggiatura” di Pietro Secchia – a Ponza dalla metà del 1936 e a Ventotene dal luglio del  1939 sino al fatidico 1943 – lo sappiamo più direttamente dalle sue 48 pagine incluse in Il PCI e la guerra di liberazione 1943-1945, in Annali dell’Istituto G. Feltrinelli, 1971.
Non che la sua figura e il suo ruolo non compaiano spesso anche in altre autobiografie sul confino di polizia del Regime, giacchè Secchia era già un dirigente prestigioso del PCI clandestino per poi trovarsi a capo del “collettivo” dei comunisti (che erano la maggioranza dei confinati) costretti all’esilio nelle isole del gruppo delle ponziane.

Pietro Secchia negli anni '30 [1]

Una foto di Pietro Secchia negli anni ’30

Il suo nome di battaglia più conosciuto nella clandestinità era Botte, abbreviazione di Bottecchia, altri pseudonimi erano Vineis e Piotr.
Il ruolo politico di Secchia fu enorme nella Resistenza del Nord Italia: commissario politico generale delle Brigate Garibaldi in tandem con quello militare di Luigi Longo che ne era il comandante generale.
Fu vicesegretario del PCI di Palmiro Togliatti, sino alla sua emarginazione dall’attività di direzione nel 1956.
Si dedicò per anni a fornire documentazione, memorialistica e interpretazione storica della lotta di Liberazione.
Nel 1972, di ritorno da un viaggio nel Cile di Salvator Allende, accusò problemi di salute che lo portarono alla dipartita nel 1973.
Si arrivò a sospettare un’intossicazione per causa di un avvelenamento della CIA che preparava il golpe di Pinochet, ma si disse con maggior insistenza per i postumi di un’infezione tropicale contratta in uno dei suoi numerosi viaggi in Africa.

Pietro Secchia era di famiglia operaia, operaio lui stesso, di padre socialista. Nella temperie di quegli anni la figura dei “rivoluzionari di professione” era qualcosa di serio, pur essendo venata di contraddizioni rispetto al ruolo dello “Stato-guida” e alla sua intima consistenza.
Nelle riflessioni di Hannah Arendt compare più volte la figura degli hommes de lettres che in situazioni storiche eccezionali diventano volentieri “rivoluzionari di professione”.
Non è il caso di Secchia, che solo dopo anni di militanza, clandestinità, arresti e confino diventerà anche uomo di penna, parlamentare, narratore storico oltre che dirigente politico e continuerà a chiedersi come si potesse conciliare la vocazione rivoluzionaria con la burocrazia d’apparato dei funzionari.

Nel mondo della Guerra Fredda, per quanto attento ai nuovi movimenti del ‘68, alle lotte di liberazione anticoloniali e al movimento dei Paesi non allineati, Secchia fece la scelta di campo di stare nonostante tutti i distinguo con il blocco “socialista”.

A chi nel PCI volle liquidarlo semplicisticamente come “stalinista” fece la battuta – anni dopo, nelle sue memorie – che non era certo lui la “botte” di vino che invecchiò a lungo nelle cantine moscovite, alludendo a Togliatti (Ercoli) che risiedeva a Mosca nel palazzo Lubjanka come dirigente della III Internazionale in quegli anni di ferro e di fuoco e che non subì mai arresti seri (solo tre mesi a San Vittore di carcere preventivo) né confino e neppure partecipò direttamente alla Resistenza combattente.

Genova 25 aprile 1947 [2]

La foto di una sfilata del 25 aprile 1947 a Genova: l’ultimo a destra è appunto Pietro Secchia (Botte), prima c’è Palmiro Togliatti (Ercoli), prima ancora Luigi Longo (Gallo), mentre il primo a sinistra è Paolo Castagnino (Saetta)

Quello che Secchia documenta con una scrittura asciutta, senza sentimentalismi e retoriche, è un’attività culturale, politica e organizzativa incredibile.
A Ponza e Ventotene  passavano i militanti più “pericolosi” per il Regime, non solo quanti saranno classe dirigente nel dopoguerra, ma anche alcuni di quelli che furono la spina dorsale della Resistenza combattente, oltre che molti martiri della Liberazione.

È nota la preoccupazione che Secchia aveva per le questioni militari e che poi da dirigente comunista e senatore (oltre che padre costituente) ebbe per gli apparati di Stato.
Dopo il 1936, spesso fatti incautamente tornare in Italia dal centro estero del PCI, finiscono al confino anche valorosi dirigenti partigiani della guerra di Spagna, come ad esempio Giuseppe Alberganti (Cristallo), Giovanni Pesce (Visone), Luigi Longo (Gallo).
La maggior parte dei confinati veniva dal popolo lavoratore e troverà modo di crescere nelle attività di studio e di formazione.

I comunisti saranno coinvolti nel dibattito politico internazionale nonostante le difficoltà, con i collegamenti comunque garantiti anche grazie agli isolani, soprattutto a Ponza.
“I confinati disponevano di una biblioteca pubblica, da essi costituita, di alcune migliaia di volumi, per la quale la direzione aveva concesso un apposito locale.
I comunisti avevano anche una biblioteca clandestina costituita dalla letteratura marxista”, scrive Secchia, e questa biblioteca, su suggerimento di Giorgio Amendola, si arricchirà dei testi della letteratura classica dell’800.

Corsi di cultura generale, vere e proprie scuole-quadri, gruppi di studio tematici, scuola di arte militare, erano consuetudine.
Ne dà conto anche Pietro Grifone, che tra Ponza e Ventotene scrive Il capitale finanziario in Italia (Einaudi, 1971), nelle pagine prefattive dal titolo Come si studiava al confino, da cui apprendiamo come si arrivò alla “compilazione di una vera e propria rivista politico-culturale, scritta a mano, a volte riprodotta in più copie da abili, pazienti copisti”. Il tutto avveniva nella più stretta clandestinità e compartimentazione.

Altiero Spinelli e Ernesto Rossi scrivono Il manifesto di Ventotene, come i giornalisti viennesi chiamarono il documento Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto.

Le memorie di Mario Magri (martire delle fosse Ardeatine), di Giorgio Amendola, Camilla Ravera, Altiero Spinelli, Walter Audisio (colonnello Valerio), restano assieme ad altre a dare tuttora il senso della strana “villeggiatura” che Mussolini offriva ai suoi oppositori nelle isole pontine.

È ben documentato il clima di oppressione e  di prepotenza, anche verso gli isolani con stupri e rapine, gli arresti e i pestaggi e la mancanza di cure mediche per i confinati, un ragazzo ponzese sparato a freddo, un confinato ucciso con il calcio dei fucili.

La resistenza anche esistenziale e la tempra morale dei comunisti confinati fecero da premessa al loro ruolo nella Resistenza italiana che appartiene alla migliore memoria d’Europa. Per decenni le vicende del confino fascista andarono soggette a rimozioni e  banalizzazioni.

Grazie poi anche all’elezione di un illustre confinato a presidente della Repubblica la memoria riaffiorò con più forza.
Silverio Corvisieri col suo libro All’isola di Ponza del 1985 fu senz’altro pioneristico nel darne conto, limitatamente a Ponza e a Ventotene, per poi sistematizzare l’insieme nel 2004 con La villeggiatura di Mussolini (Baldini Castoldi Dalai), uno studio già versus il revisionismo storico che ancora oggi agisce.

La biografia di Miriam Mafai, facilmente reperibile in rete, pubblicata dalla Rizzoli nel 1984, con il titolo ambiguo L’uomo che sognava la lotta armata. Storia di Pietro Secchia, è comunque interessante e ricca di notizie.
Secchia fu tra i primi sostenitori di una risposta armata di massa all’inarrestabile ascesa del fascismo, si oppose contro l’attendismo durante la Resistenza, si attestò sulla vigilanza rispetto ai tentativi reazionari e golpisti, ma non teorizzò né sognò mai “la lotta armata” in quanto tale, tantomeno nel senso che assunse negli anni successivi alla sua morte.
Già intanto in Italia agiva da anni una sorta di partito informale del golpe e dello stragismo, in parte riassunto nella Gladio e nei servizi deviati, cioè da quello che è stato poi definito il “doppio Stato”, certo non estraneo ad importanti dirigenti politici dei partiti al governo, con l’utilizzo delle formazioni neofasciste e il ruolo in ombra della loggia segreta P2.

A Roma per la morte di Secchia ci fu solo una sobria commemorazione con il discorso ufficiale di Giancarlo Pajetta. A Milano davanti alla Università Statale migliaia e migliaia di giovani con le bandiere rosse ricordarono il partigiano Botte e Mario Capanna vi tenne un discorso commosso tra slogan e canti internazionalisti.