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Si vis pacem, para… pacem. Che cosa resterà del 2 giugno

La parata del 2 giugno [1]

di Tano Pirrone

 

Il 2 giugno ricorre la Festa della Repubblica Italiana a ricordo della sua nascita. In quel giorno e nel successivo, dell’anno 1946, infatti, ebbe luogo il referendum a suffragio universale.

Poco meno di tre mesi prima, il 10 marzo, le donne avevano espresso il loro primo voto in occasione della prima tornata di elezioni amministrative.
Uomini e donne, ora cittadini repubblicani, avevano decretato a maggioranza la nascita della Repubblica, dopo 85 anni di monarchia e dopo le infauste parentesi del fascismo e della guerra mondiale.

Si celebra, quindi la nascita della Repubblica, come il 14 luglio in Francia (anniversario della presa della Bastiglia, nel 1789) e il 4 luglio in Usa (firma della dichiarazione d’indipendenza, nel 1776).

Già il 2 giugno del 1948 è caratterizzato dalla parata militare in Via dei Fori Imperiali a Roma. L’anno seguente se ne svolsero dieci, di parate, in dieci città diverse, a festeggiare l’ingresso dell’Italia nella Nato.
Dal 1950 la sfilata militare è inserita nel protocollo delle celebrazioni ufficiali, creando un’impropria identificazione fra la Repubblica e le sue Forze armate, definendo, così, il contestabile assioma Repubblica Italiana – Forze Armate.

Fra il 2 giugno del 1946 e lo stesso giorno del 1948 (in cui sfila per la prima volta il nuovo esercito della nuova Repubblica), appena cinque mesi prima, il 27 dicembre del 1947 è pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 298 la legge fondamentale dello Stato: la Costituzione della nuova Italia, uscita dal fascismo e dalla guerra, anche attraverso la vittoriosa lotta partigiana, culmine altissimo del Risorgimento Italiano. L’articolo 11 dei Principi fondamentali della Carta così recita:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

L’articolo è direttamente collegato con il 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”) e con la XII Disposizione transitoria e finale (“E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”).

Questa articolazione ci dà la misura della grande convergenza dei costituendi nel ripudiare la guerra, una decisa posizione antifascista, considerando il binomio “fascismo-guerra” come simbiosi ineliminabile.
L’uso del verbo “ripudia” a posto di “rifiuta” definisce la ripugnanza morale verso gli orrori della guerra e della violenza, che feriscono ed offendono lo spirito democratico, che sta a fondamento della Costituzione; sono rifiutate ab origine le propagande bellicistiche, le dottrine che esaltino o giustifichino la guerra, ed è chiaramente espressa la condanna di questa, ovunque essa avvenga.

A distanza di 66 anni dalla sua istituzione siamo ancora qui a identificare la Festa della Repubblica non come festa civile, in cui anche le Forze armate sono chiamate a presentare il loro saluto al Capo dello Stato, ma come festa soprattutto delle Forze armate. Ciò a causa del persistere della sfilata militare, che è divenuto il clou delle celebrazioni.
Proprio l’istituzione che fagocita una parte importante del bilancio statale.

A mio avviso, è intollerabile che l’apparato militare costi ai contribuenti quanto il welfare! Intollerabile che ci siano delle iniziative incomprensibili come l’acquisto dei caccia che costano decine di milioni di euro, nel cuore della crisi, imprenditori che chiudono e falliscono, con lavoratori a casa, senza lavoro, senza disoccupazione, senza Cig.
È profondamente immorale che l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi traffichi per avere altre dieci navi; che ci siano più marescialli e generali che operativi; che sia stata abolita la leva obbligatoria senza il passaggio – “obbligatorio” in una democrazia occidentale matura – alla difesa civile non armata e non violenta; che la leva militare non sia stata sostituita da una moderna leva civile obbligatoria per entrambi i generi, di breve durata e ripetuta nel tempo.
Sono incomprensibili i ritardi e le protezioni che il sistema militare ha avuto ed ha fra tutte le forze politiche.

L’uscita del nostro Paese dalla crisi è, prioritariamente, scompaginamento dell’esistente e applicazione coerente del dettato costituzionale, innovazione, riforma, creazioni di nuovi obbiettivi e di nuovi stili di vita. Non già avviandosi sotto ricatto ad un semipresidenzialismo inadeguato e contrario nei fatti al volere dei padri costituenti.

Le speranze sono volate via dai cassetti che puzzano di vecchio, di stantìo, di carte infracidite e di promesse putrefatte. Fiducia nelle istituzioni e nel futuro dell’Italia fioriranno non più grazie a giochini governativi, fatti con ricatti e mezze misure, ma con l’assunzione di tutte le responsabilità necessarie da parte di tutte le componenti la società nazionale.

Il tempo sta per scadere e non saranno le sfilate militari a fermarlo.

Parata militare 2 giugno [2]

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Io ho sempre sognato un 2 giugno in cui a sfilare siano le componenti civili del nostro Paese: vorrei vedere battaglioni ordinati di maestre e di scolari, seguiti dai netturbini, poi, dietro, i ragionieri dei Centri di Assistenza Fiscale, i portieri degli stabili, le infermiere e gli infermieri dei Policlinici delle grandi università; i medici che combattono in prima linea in Italia e nel mondo; le rappresentanze delle popolazioni martoriate dai terremoti e dai dissesti idrogeologici; vorrei vedere una rappresentanza di carcerati, sfilare per la riappropriazione di dignità e di riscatto; e gli studenti, delle scuole medie, dei licei, delle università accompagnati dai loro professori; e i cassa-integrati, i disoccupati (magari pagando loro la giornata!), gli “esodati” con i ritratti della Fornero a cavallo; vorrei vedere battaglioni di diciottenni nati in Italia da genitori non italiani, i famosi battaglioni “Jus Soli”, e poi le pensionate e  i pensionati, i volontari, i cittadini di buona volontà, i giornalisti e gli attori, i cantanti, gli “intellettuali”, gli sportivi, avanti i dilettanti e dietro i professionisti; i pescatori di Mazara del Vallo e i minatori del Sulcis.

Tutti a sfilare così, per ore, a impressionare la loro – e la nostra – anima come un lastra fotografica, per imprimervi l’immagine forte di una comunità nazionale ancora unita e decisa a determinare il proprio destino e quello dei loro figli e dei figli dei loro figli.

Riusciremo mai a vedere qualcosa di simile, di così naturale, moderno e giusto?

 

In condivisione con sinistrasenile [3]

 

 

E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun) è un film del 1971 scritto e diretto da Dalton Trumbo.

Insieme ad un libro di guerra contro tutte le guerre: “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Eric Maria Remarque del 1929, ha segnato una generazione la potente chiusa di “E Johnny prese in fucile”, con la testa di Johnny in sovrimpressione che batte in alfabeto Morse il suo messaggio pacifista, mentre il suo catafalco viene portato per spiagge e città seguito da una folla sempre più numerosa.

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Sinossi [notizie sintetizzate da Wikipedia, a cura della Redazione]

Joe, un giovane americano, viene chiamato alla leva dal suo paese e spedito a combattere sul fronte francese durante la Prima Guerra Mondiale.
Durante l’ultimo giorno di guerra viene colpito in pieno da una granata, ma viene salvato per miracolo dagli Alleati, che lo curano in un ospedale militare.
Joe è ormai ridotto a un tronco umano (“un pezzo di carne che vive”): ha perso gli arti superiori e inferiori, la vista, l’udito e vive attaccato a un respiratore. Dopo un paio di anni in questa condizione impara a comunicare muovendo la testa secondo l’alfabeto Morse.
All’inizio questi movimenti vengono scambiati per segni di follia, poi grazie all’attenzione di un’infermiera, riesce farsi ascoltare dai medici e dai militari. Chiede loro di essere esposto al mondo, per far vedere a tutti gli orrori e la follia della guerra. O di essere ucciso.
Ma le sue richieste non verranno accolte.