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Odisseo. Dal mito alla crisi della modernità

di Silverio Tomeo

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Piuttosto che rincorrere la traiettoria del periplo di Ulisse nel suo avventuroso nostos (ritorno), cosa impossibile per quanto variamente tentata, e dando per scontato semmai che sarà passato anche lui dalle parti di Ponza e del Circeo, almeno nella narrazione del poema omerico, è forse più interessante vedere come il pensiero e la modernità abbiano interrogato il mito greco.

La rotta di Odisseo

La rotta di Odisseo

La figura di Ulisse-Odisseo, eroe dell’astuzia e dell’erranza, attraversa anche la poesia e la narrazione, come Dante Alighieri che lo colloca nell’ottava bolgia del suo Inferno, nel Canto XXVI, o la ispira come nell’Ulisse di James Joyce.

Anonimo fiorentino. 1390. Naufragio di Ulisse

Anonimo fiorentino. Naufragio di Ulisse (1390)

Se per un anomalo conservatore come Ernest Jünger “Odisseo è uno dei prototipi dell’occidentale dalla vocazione mediterranea, uno scopritore e inventore di altissimo livello”, un uomo astuto e tremendo, come scrive nel Nodo di Gordio, per Theodor Adorno “l’astuto pellegrino è già l’homo aeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione. Perciò l’Odissea è già una ‘robinsonata’”.

Per Jünger, Odisseo si contrappone a Sinbad il marinaio come l’Occidente si contrappone all’Oriente, mentre per Adorno è il prototipo del borghese, la sua astuzia ingannevole rappresenta l’emergere della ratio strumentale e del lato oscuro dell’illuminismo.

Theodor Adorno aveva scritto nel 1943 una sua Interpretazione dell’Odissea che in una versione ridotta e rivista apparve poi come un capitolo della Dialettica dell’Illuminismo del 1947, scritto assieme a Max Horkheimer, uno dei testi cardine del pensiero critico.

Appare oggi una forzatura aver voluto vedere il mito e l’epos diventare favola e romanzo dell’individualismo proprietario pre-capitalistico. Quando Adorno accenna alle “robinsonate” allude alle prime pagine del Capitale di Karl Marx – di cui è un originale interprete -, quelle riguardo il personaggio del romanzo di Daniel Defoe, ma nell’esilio americano l’intellettuale di origine ebraica non conosceva ancora i manoscritti di Marx che vanno sotto il nome di Gundrisse, per quanto già pubblicati a Mosca in tedesco in pochissime copie nella prima edizione del 1939-41 e solo successivamente a Berlino nel 1953.
È poi negli anni ’60 e ’70 che quel testo avrà ampia risonanza e diffusione.
Lì Marx – in due memorabili pagine – tratta di come l’arte greca antica e lo stesso Shakespeare non siano riconducibili a espressioni ideologiche tout court di una struttura economica data, ma siano parte costitutiva di un canone e di un immaginario.
La vera difficoltà, scrive Marx, sta nel fatto di capire come l’epos e l’arte greca continuino a suscitare stupore e godimento, per quanto non siano più riproducibili nella società industriale moderna, proprio perché fanno parte della fanciullezza storica dell’umanità.

Nelle sterminate interpretazioni della figura di Ulisse e del suo lungo viaggio di ritorno a Itaca dalla guerra di Troia, appaiono centrali almeno due snodi: l’episodio delle Sirene e il senso stesso del nostos.

Il ritorno a Itaca deve essere apparso deludente se in tanti hanno immaginato una ripartenza.
Per Maria Corti (Il canto delle sirene) “l’isola cominciò a mancare di attrattive, le verità divennero sospette” e Ulisse ancora udiva la voce delle sirene, per cui si rimise in viaggio sino al naufragio al di là delle Colonne d’Ercole, e fu questo il capolavoro e la vendetta delle sirene. È la versione dantesca, per cui l’Ulisse moderno lascia il mare chiuso ed entra nell’Oceano.

“Non Itaca, ma l’ignoto è la sorgente e insieme la meta del viaggio”, scrive Antonio Prete in Nostalgia dove riporta un testo di Vladimir Jankélévich che, così come il filosofo di origine ebraica Emmanuel Lévinas, ritiene il viaggiatore del periplo chiuso un falso viaggiatore, un viaggiatore casalingo, perché viaggia solo per rientrare e parte solo per tornare, “ma rassicuriamoci: non si torna mai! Colui che ritorna è già un altro”.
Per Lèvinas la figura di Ulisse è la figura emblematica della filosofia occidentale, una metafisica del ritorno allo stesso, un misconoscimento dell’Altro. Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, la cui avventura vede come una compiacenza nel Medesimo, Lèvinas (La traccia dell’Altro) contrappone la “storia di Abramo che lascia la sua patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre suo figlio a quel punto di partenza”.

Nel ritorno a Itaca e nell’esercizio della vendetta sui Proci e sulle ancelle traditrici, Eva Cantarella vede piuttosto gli albori della nascente polis e le prime regole che oggi definiamo giuridiche: insomma il ritorno all’isola e a Penelope è anche il ritorno alla sovranità legittima del potere politico (in Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto). La studiosa di diritto greco vede nelle varie figure femminili che rallentano il nostos  dell’astuto eroe il potere della seduzione, ricordando come le Sirene intese come donne per metà pesci sono appannaggio di una tradizione medioevale, mentre nell’antichità l’iconografia le raffigura come donne con ali di uccello e artigli terribili, come le Arpie.

Ulisse e le sirene di John William Waterhouse

Ulisse e le sirene di John William Waterhouse (1891)

Per Theodor Adorno è centrale l’episodio delle Sirene, ed è lì che si concentra il nesso mito, dominio e lavoro, è lì che “il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé” adotta (su consiglio di Circe) l’espediente di ascoltare il canto ammaliatore ma di negarlo ai suoi rematori, senza riportarne danno. Un’allegoria della dialettica dell’illuminismo e del progresso come razionalità calcolante e strumentale, negazione del canto e della spontaneità e costruzione dell’individuo e del suo dominio tecnico sulla natura.

La seduzione mortale della Sirene è nella “forma inafferrabile e proibita della voce che attira, esse non sono che canto” – scriveva Michel Foucault (Il pensiero del di fuori) – “ciò che in loro seduce non è propriamente quello che fanno ascoltare, ma piuttosto quello che brilla nelle loro parole”, come “una scia argentata nel mare, piega dell’onda, grotta aperta tra le rocce, biancheggiare della spiaggia”.
Invitano Odisseo a fermarsi, ad ascoltare il canto ormai compiuto delle sue gesta immortali, così da finire su quegli scogli dove biancheggiano le ossa dei naufraghi.

Anche per Marco Revelli (I demoni del potere) il Canto XII è quello centrale dell’Odissea.

L’interpretazione di Jon Estler  in Ulisse e le Sirene, per cui l’espediente “tecnico” di Ulisse è il paradigma di una razionalità che si districa dal potere fascinoso del mito e dell’indistinto, è diversa ma simile a quella di Adorno. Accettando e vincendo la sfida, Odisseo “dissolve il mito e la sua fascinazione perversa e inaugura l’epoca del racconto storico”.

Per Revelli “il gioco di Ulisse con le Sirene finisce per risolversi, nell’epoca della tecnica dispiegata, in una serie di atti mancati”.
Il «secolo breve», il Novecento, è il secolo del fallimento del «viaggio di Ulisse», il discorso storico ha smesso di produrre senso, conserva zone di indicibilità e di non narrabilità. La frattura di civiltà è ancora Auschwitz.
Il bios (come vita propriamente umana) diviene appannaggio di una bio-politica sempre sul punto di prodursi in thanatos (morte), con forme di spossessamento e deprivazione dell’umano. Siamo Oltre il Novecento (è anche il titolo di un bel libro di Revelli), ma gettati in un paesaggio spaesante e con un linguaggio ancora inadeguato.

Per Franz Kafka, in un raccontino paradossale del 1917, “le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio” e Ulisse, preso dai suoi escamotage, neppure si accorse del loro silenzio. Per Kafka, se qualcuno raramente si salva dal canto delle sirene, nessuno si può mai salvare dal loro silenzio.

Ma ormai sono tutte le sirene del Novecento a non cantare più, continua  Revelli, né quelle dei poeti né quelle di un canto sorgivo da cui nasca la narrazione razionale. Oggi tra i demoni del potere oltre alla visione del volto pietrificante di Medusa, «il volto di Gorgone del Potere», si possono solo ascoltare le Sirene insidiose del potere.

La lunga crisi europea mette in ginocchio anche il luogo originario del “miracolo greco” e la sua stessa simbologia, mentre il potere dei mercati finanziari si mostra impersonale e incarnato in una vera e propria teologia dominante e dogmatica, e la sovranità politica sembra relegata nel bricolage della gestione di un ossimoro: lo stato d’eccezione permanente.

 

Nella canzone di Vinicio Capossela – da YouTube – sono assemblati i versi di Dante Alighieri dedicati a Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno e la famosa poesia di Kostantin Kavafis Itaca (leggi qui):

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2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Russo

    27 Maggio 2013 at 23:12

    Nell’immagine di Ulisse con le Sirene/Arpie (cliccare sulla foto per ingrandirla) si intravede un paesaggio molto simile (identico?) a quello che si può vedere da un’imbarcazione che naviga dalla baia della Parata in direzione Faro della Guardia, dirigendosi nel passaggio tra lo sperone del ‘Tortano’ e i Faraglioni del Calzone Muto.
    Era una ‘somiglianza’, nei dipinti di Waterhouse, che aveva notato già Luisa Guarino in un precedente articolo di Silverio Tomeo (leggi qui).
    Non risulta che Waterhouse sia mai stato a Ponza, ma non cominciano a diventare troppe le coincidenze?
    Chi ha più informazioni?

  2. Silverio Tomeo

    28 Maggio 2013 at 07:22

    Quel pittore ha dipinto quadri su Roma, Pompei e Capri, quindi non è per nulla impossibile che abbia utilizzato per sfondo scorci di Ponza, anche se magari solo tramite stampe dell’epoca. Se a Roma c’è un “cimitero inglese” (adesso “cimitero acattolico”, vicino la Piramide, al Testaccio) con le tombe di poeti come John Keats e Percy Bysse Shelley, è perchè tra artisti e letterati inglesi e Roma ci fu mescolanza e frequentazione. Lo stesso Waterhouse nacque a Roma da genitori inglesi lì residenti, per quanto si formò e operò in Inghilterra. Quel Dante Gabriel Rossetti che fondò quella scuola iconografica detta preraffaelita era figlio di emigrati italiani. Altri quadri e stampe di Waterhouse (ad esempio “Danae”) andrebbero indagati per analizzare lo sfondo di faraglioni e spiagge utilizzati.

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