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L’appriezzo. (3). La ‘dote’ delle figlie femmine

Particolare del ricamo 'a rete' [1]

di Rita Bosso

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Si coglie, nella cerimonia dell’appriezzo descritta da Irma Zecca (leggi qui [2]), il clima intimo e piacevole da vigilia della festa, lo sforzo di consolidare le relazioni con la famiglia dello sposo coinvolgendo tutto il clan di zii, cugini e parentado più o meno stretto; la madre, descrivendo il corredo, decanta le qualità della figlia, sicché l’oggetto mostrato assume valenza metaforica.
Il valore venale degli oggetti è appena accennato o addirittura sottinteso, con eleganza; l’elenco che, a fine cerimonia, viene inserito nel baule, sembra la lettera di un padre amorevole e pignolo alla figlia, quando questa lascia la casa, anziché un documento avente valore legale, redatto da mano estranea ed imparziale, in presenza di periti e di testimoni.
Così è accaduto, negli anni tra le due guerre e sino a quando si sono estinti prima il rito dell’appriezzo, poi quello della preparazione del corredo.

Scrive il Tricoli [Monografia per le isole del gruppo Ponziano, pag 384]: “Per costume feudale adottato col regolamento della colonia, è rimasto radicale l’uso che la donna ritira dalla sua famiglia il solo corredo, ed in questo modo. In un fissato giorno praticasi l’apprezzo dalle madri dei rispettivi sposi e due apprezzatrici scelte di consenso, ed un amico nota gli oggetti di biancherie ed oro lavorato, e si autentica il tutto con complimenti di frittelle, zeppole e vino. Nell’atto stesso il giovane conduce nella sua dimora questo dotato, e dopo anni ne stipula la ricezione per notaro”.

Il costume feudale è finalizzato al mantenimento del patrimonio familiare, la cui quota più consistente sarà ereditata dal maschio primogenito; la femmina riceve il solo corredo, e più nulla dovrà pretendere; vige tra i nobili il diritto di ‘maggiorasco’, secondo cui beni e titolo passano in successione al primogenito, che non può alienarli ma è obbligato a conservarne l’integrità e trasmetterli, a sua volta, al proprio erede maschio (fedecommesso).

Nel romanzo “I Vicerè” di De Roberto la zia Ferdinanda, che di questo sistema successorio è stata vittima, difende a spada tratta l’istituto del maggiorasco e rivendica l’applicazione alle sole famiglie di antico blasone:
«Perché?… Perché pretendevano il consenso reale all’istituzione del majorasco! E non avendolo ottenuto si sono buttati coi sanculotti!… Il consenso reale!… Come se non ci fosse un certo articolo 948 nel Codice civile che canta chiaro!» E sempre rivolta al ragazzo, il quale la guardava con gli occhi sgranati, recitò, gestendo con un dito e cantilenando: «Potrà domandarsene l’istituzione (del majorasco) da quegl’individui i di cui nomi trovansi inscritti sia nel Libro d’oro sia negli altri registri di nobiltà, da tutti coloro che sono nell’attuale legittimo possesso di titoli per concessione in qualunque tempo avvenuta, e finalmente da quelle persone che appartengono a famiglie di conosciuta NO-BIL-TÀ nel Regno delle Due Sicilie…»

Il maggiorasco, essendo in contrasto con l’esigenza di libera circolazione delle ricchezze, viene abolito quasi ovunque dopo la Rivoluzione Francese, ripristinato con l’abolizione del Codice Napoleonico e definitivamente soppresso con l’Unità d’Italia; l’istituto a cui fa riferimento il Tricoli non è, evidentemente, il maggiorasco in vigore tra i nobili, ma ha le stessa finalità: il mantenimento e la trasmissione integrale del patrimonio familiare al maschio primogenito; dote e corredo costituiscono una sorta di liquidazione per le femmine, che nulla potranno rivendicare in sede di successione; da ciò, l’importanza di un documento che attesti quantità e valore dei beni dotali.

I passaggi fondamentali dell’Appriezzo ottocentesco sono chiaramente elencati dal Tricoli: la stima dei beni, eseguita da due esperte super partes, la compilazione di una lista, la successiva registrazione notarile.
I beni dotali non apparterranno allo sposo, non potranno essere ceduti né venduti, dovranno essere restituiti alla famiglia d’origine se la sposa morirà senza lasciare figli o se il matrimonio dovesse essere sciolto.

Camicia da notte in lino [3]

Il copertino a uncinetto di zia Olga.1 [4]

Maria Scarpati, novantanovenne, degli ‘appriezzi’ a cui ha partecipato da bambina e da signorinella ricorda, prima di tutto, il momento in cui “si autentica il tutto con complimenti di frittelle, zeppole e vino”.
Racconta che un giovane, messaggero della sposa, andava ad invitare parenti ed amici intimi recando un vassoio di zeppole; tacitamente, gli invitati si ritenevano impegnati a preparare ‘la guantiera’, cioè il vassoio con confetti e monetine che venivano lanciati sugli sposi, il giorno del matrimonio.

L’appriezzo aveva luogo in casa della sposa: si liberava una stanza dai mobili e, lungo le pareti, si disponevano le sedie, se necessario in più file; in prima fila prendevano posto i protagonisti della cerimonia: l’apprezzatrice, donna esperta di ricami e dalla buona favella, che doveva decantare i pezzi, via via che venivano esposti; un segretario, che redigeva la lista dei beni; un parente dello sposo, che avrebbe apposto la propria firma in calce alla lista.
Al centro della stanza, sul pavimento, si spiegava un lenzuolo; i beni erano annunciati, come descritto da Irma, registrati e deposti sul lenzuolo.
La consistenza e la qualità del corredo dipendevano dalle disponibilità della famiglia della sposa e dalle richieste dello sposo ma, in ogni caso, i pezzi dovevano essere in numero pari. Era considerato dignitoso un “Corredo a venti”, cioè comprendente venti capi per ciascuna “categoria”; erano immancabili le quattro coperte: di picchè, di lana, imbottita, di seta di San Leucio, da esporre al balcone al passaggio della processione.
Ultimata la sfilata della biancheria, si consegnavano  i soldi costituenti la dote e lo scatolino degli ori; gli invitati, a loro volta, offrivano i regali alla sposa.

La tovaglia di zia Olga.1 [5]

Il fierzo di A.2 [6]

Ricamo su federa di cuscino.1 [7]

Maria e la sorella Filomena, di qualche anno più giovane, raccontano una cerimonia ancora piuttosto formale, in cui assumono rilievo le figure dell’apprezzatrice e del segretario-parente dello sposo, figure quasi super partes, citabili in caso di necessità come testimoni.
Filomena ricorda che, qualche anno più tardi, prese piede l’uso di presentare la biancheria già disposta nel baule, tenuto aperto in modo che gli invitati potessero guardare; zeppole e frittelle, passate di moda, furono sostituite da pizza rustica e vino rosso.

 

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[Appriezzo (3) –  Continua]