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Sul dialetto ponzese (5). Scrivere il dialetto

Da Totò a colori 1952 [1]

di Sandro Russo

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Sempre più spesso, nella conduzione del sito, ci si scontra con i diversi modi di intendere e scrivere il dialetto.
Le posizioni delle diverse persone al riguardo sono variegate e molteplici quante le persone stesse.

E va bbuo’ …comme vena vene…

Ma che vuo’? …Mò se scrive a’ccussì… mo’ se scrive a’cculì!

No! …S’adda  scrive accussì, e basta!

Totò pazzariello [2]

Gli apostrofi e i troncamenti
Preliminare per intendersi nel campo del dialetto è definire una volta per tutte le modalità grafiche con cui alcune cadenze e suoni  – non codificati nella lingua italiana – sono resi.
In attesa che la nostra dialettologa ufficiale si faccia avanti, azzardiamo teorie (ardite? deliranti?)…

Tipica del dialetto ponzese – e del napoletano, da cui strettamente deriva – è la frequenza di parole tronche.
Può sembrare un’eresia linguistica – e sicuramente siamo fuori dall’ortodossia – ma può succedere che alcune parole hanno una specie di accento che non cade sulla vocale; potremmo definirlo ‘trascrizione fonetica’.

Per capirci devo raccontare un aneddoto. Alcuni anni fa, in Sri-Lanka con amici ponzesi, trovammo un problema simile con la lingua locale (lontanamente derivata dal sanscrito e dal pali). Anche qui parole tronche, con un accento inconsueto.
Per fare un esempio, ‘chiodo’ si dice ‘en’, ma l’accento non cade sulla ‘e’; la parola si pronuncia con un trascinamento e una pausa sulla ‘n’.

Fu lì che l’amico presente (Domenico Musco, per fare nome e cognome) propose, ammaestrato della sua frequentazione col dialetto ponzese, una teoria utile per intendersi.

– …E certo, – disse – …è chiarissimo! …l’accento cade sulla ‘n’… Sulla consonante! Sembrava una battuta, invece era una chiave esportabile anche per la nostra situazione. Così potevamo scrivere en’, e pronunciare nel modo in cui correttamente lo pronunciavano i locali, per rendere al meglio il troncamento.

Ma torniamo al nostro dialetto ponzese, e immaginiamo la parola puort (porto).
Qui l’accento non cade sulla prima vocale, la ‘u’quindi non è pùort; sembrerebbe cadere sulla seconda vocale: infatti si potrebbe scrivere correttamente puòrt – ma la parola scorre veloce e si tronca di colpo sulla t. La scriveremmo perciò puort’, e il porto’ sarà ’u puort’.

Ma potremmo anche scrivere ’u puorte…
Infatti un’altra linea di pensiero, sostenuta con forza da Franco De Luca, introduce il concetto della “e muta”: ovvero, quando la ‘e’ si trova in fondo alla parola, non si pronuncia.

Condivisibile questa tesi – dice Luisa Guarino – (puort’ oppure puorte), ma essendo una convenzione grafica, si tratta di fare una scelta e poi seguirla. Non credo – sostiene ancora Luisa – come dice Domenico, che l’accento cada sulle consonanti, tant’è vero che nella parola suddetta esso cade comunque sulla o.

La regola della “e muta”, ripresa dal francese e apparentemente più ortodossa, dà luogo però a delle mostruosità lessicali, a cui pensavo recentemente per una espressione ‘rispolverata’ da Silverio Lamonica dal linguaggio dei ponzesi d’America:
’a fatica ’i picc’ e sciabule (il lavoro di piccone e pala).

Qui, mentre con l’accento-troncamento picc’ appare immediatamente evidente il corrispettivo grafico-fonetico, applicando la regola della “e muta”. bisognerebbe scrivere “picche e sciabule” che, converrete, non è troppo bello da leggere.

Allora, prendiamo una decisione? Per intendere ‘piccone’ in dialetto (come anche parole simili, ricco, secco, vecchio…), vogliamo scrivere picc’ o picche? (e… ricc’, sicc’, ma per la presenza della i: viecchie suona bene).
In altre circostanze invece, la “e muta” fa gioco e funziona; infatti non avrei problemi a scrivere: abbascie ’u puort’…

Totò. Tre fessi [3]

 

Dedichiamoci ora agli articoli determinativi
– La, le – Il, lo – I gli

’A Caletta, ’a Draunara, ’a mamma, quando sottintendono l’articolo singolare femminile “la”

Mentre se volessimo intendere la preposizione “a”: “alla Caletta”, “alla Dragonara”, “alla mamma”, dovremmo apporre il segno grafico < ’ > laddove è avvenuta l’elisione; quindi a’ Caletta, a’ Draunara, a’ mamma.

E visto che parliamo di preposizioni, anche “di”, nel senso di appartenenza, viene reso con il segno del relativo troncamento. La cantina di Giustino: ’a cantina ’i Giustine

Stesso discorso per ’o e ’u. Se facciamo risalire la trascrizione dialettale al corrispettivo articolo troncato, “lo” si rende con ’o’o pate (il padre); ’o vapore. Anche se, rispetto al dialetto napoletano, il ponzese preferisce l’articolo ’u : ’u pate ; ’u vapore (sempre inteso come derivato da “lu”, perciò si mostra l’elisione)

Con gli articoli determinativi plurali: es. i conigli, le barche… nel dialetto ponzese si usa sempre i invariabile che, sempre intendendo la derivazione dall’articolo completo “li” dovrebbe essere marcato dal segno dell’elisione: ’i cuniglie… ’i barche
E altri plurali ancora, giusto per farci l’orecchio:
’a pezza, ’i ppezze; ’u pizz’, ’i pizz’; ’a pizza, ’i ppizze…

E come la mettiamo con gli articoli indeterminativi: uno, una?
Applicando la stessa regola dell’elisione avremo (da unu e una) ’nu e ’na: …’nu sturnell’ e ’na canzona.

Tutto chiaro, no?

 

Totò. Signori si nasce [4]

Infine, l’uso della ‘j’ come prolungamento fonetico della ‘i’, come in jamme ja. Lo sostiene e lo applica il compianto Ernesto Prudente e lo si trova spesso usato nel napoletano arcaico. Addirittura il Mattei, pittore formiano che ritrasse la Ponza dell’Ottocento (1813 – 1879) lo include per vezzo nel suo cognome ‘Mattej’ (ma si trova riportato anche come Mattei).
Ebbene, siccome in altre lingue la “j” ha un altro suono, diverso dalla “i”, non sono dell’opinione di usarla nella trascrizione del ponzese dialettale, per cui può bastare la “i”

In conclusione. Queste sono brevi note, quasi appunti messi da parte in situazioni in cui si sono create confusioni o discordanze tra i vari collaboratori di Ponza racconta riguardo alla scrittura del dialetto. Mi farebbe piacere, in attesa di altri contributi più specialistici, avere l’opinione dei Lettori e degli Autori del sito.

 

Totò e Fabrizi in Guardie e ladri. 1951 [5]

 

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Nota (NdA) – Questo articolo costituisce un’ulteriore elaborazione e completamento di chiacchiere tra amici avvenute in un’occasione conviviale – sul dialetto e l’anatomia ponzese – già riportate nel sito il 4 febbraio 2011 (leggi qui [6])

 

[Sul dialetto ponzese (5) – Continua]