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Intervista al Grande Vecchio. “L’orizzonte” (3)

a cura di Vincenzo Ambrosino 

Per la puntata precedente, leggi qui [1]

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Voglio sottolineare, se me lo permetti, che c’è stata una costante nel destino di Ponza nei vari regimi che si sono succeduti nel corso del tempo: quello di trasformarsi in un carcere nei momenti di repressione politica. I ponzesi non erano i carcerieri per cui diventavano anch’essi penalizzati da leggi di controllo sempre più severe e rigide.

Ci sono stati anche momenti di giubilo quando per esempio, Ferdinando I venne a Ponza il 5 agosto 1823 ed in tale occasione regalò denaro ai fedeli sudditi. Ferdinando morì l’1 gennaio 1825.  Gli successe al trono il figlioFrancesco I che nel tornare dalla Spagna passò per Ponza ma non ebbe il tempo di lasciare un segno, morì nel 1830. Salì poi al trono il figlio Ferdinando II, che governò per circa un decennio con saggezza, sviluppando i traffici e l’economia, ma il suo regno si andava ad infilare in un periodo storico che vedeva la monarchia assoluta andare in crisi in tutta Europa; oltre alla Costituzione si chiedeva la libertà e questa in Italia si andava ad incrociare con i desideri di Unità, Indipendenza e Giustizia.

Come si mosse il re in questo frangente?

Ferdinando II soffocò nel sangue e nelle galere i moti di libertà che erano scoppiati a Napoli ed a Messina che aveva fatto bombardare dalla sua flotta: per questo si guadagnò l’appellativo di “Re Bomba”.

E finalmente siamo arrivati alla meta del nostro percorso storico! Nel 1857 arrivò a Ponza anche don Carlo Pisacane. Sbarcò a terra, disarmò la guarnigione borbonica, liberò i detenuti i quali si diedero a bruciare il Comune e fare razzie?

Questa volta i ponzesi dovettero sorbirsi i comizi in nome dell’Unità d’Italia, in nome della Libertà e i ponzesi ancora una volta, restarono ad assistere questi “nuovi invasati” che come gli altri, arrivavano dall’orizzonte, sbarcavano, riempivano le strade di uomini e parole, scassinavano qua e là e poi ripartivano.
Niente di nuovo sotto il cielo ponzese!

Fu un’esperienza disastrosa per i ponzesi?

Ormai lo abbiamo affermato con forza: i ponzesi erano rassegnati a queste scorribande di uomini, soldati, carcerati tra le loro proprietà. Era successo altre volte e come tutte le altre volte, i ponzesi rimasero poi soli a domandarsi “riusciremo un giorno a liberarci dalla fatica della zappa e di questo continuo pericolo, ignoto, che viene da fuori, da oltre l’orizzonte?”

Quali furono le responsabilità personali di Pisacane in questo frangente?

Pisacane, secondo me, era ormai in “trance”, non controllava più gli eventi, era preso dalla sua missione. Troppe cose dovevano ancora succedere che lui non aveva chiare; per esempio: a Sapri ci sarebbero stati gli aiuti previsti? La tappa di Ponza era andata troppo liscia e questo creava dei dubbi, delle apprensioni. Per Lui i ponzesi erano italiani che aspettavano la liberazione non coloni in pericolo di essere rapiti da “malviventi impazziti”. Come pure i “malviventi impazziti” non erano per Lui tali ma erano, dei patrioti pronti ad immolarsi per la libertà del Sud. Lui vedeva la realtà in modo completamente diversa perché era un rivoluzionario vedeva  “Napoli liberata da un Napoletano”, un romantico che stava seguendo un suo disegno, un sogno che doveva portarlo alla gloria.

Oltre ad essere un romantico, come lo hai definito, chi ha rappresentato veramente Pisacane nel Risorgimento?

Pisacane aveva capito che si stava costruendo un Italia senza Italiani, per questo pensò che doveva forzare gli eventi. Provocare la rivoluzione di popolo e il “punto” di partenza doveva essere la sua Napoli. Provocare una rivoluzione nel Sud che doveva incendiare l’intera nazione e costringere i vari Cavour e Sabaudi a fare i conti con un popolo ormai deciso a contare per determinare il proprio destino.
I ponzesi comunque non erano italiani che aspettavano la liberazione erano isolani che in anni si erano costruiti una filosofia di vita: contare solo sulla forza delle proprie braccia, contare sulla propria famiglia, rispettare chi ti fa mangiare, osservare i sacramenti, diffidare dei “pennaruli”, ma essere consapevoli che la “carta scritta è quella che conta”.
Vedi il mondo per i ponzesi, terminava “all’orizzonte”: dietro quella linea c’erano i pirati o i francesi o gli inglesi o i briganti, o i piemontesi o i patrioti: tutti nemici.

E mentre dall’esterno potevano arrivare i nemici, fuori di casa c’erano uomini armati, a volte ubriachi, a volte con strane intenzioni; ma non basta c’erano coatti, truffatori che ti guardavano con “malocchio” pronti a rubarti tutti i sacrifici di una vita?

Hai perfettamente capito tutto! In queste condizioni a chi credere? Al prete che ingrandisce i poteri della chiesa e dei suoi parenti? A chi credere, agli avvocati che si mettono d’accordo tra loro e diventano sempre più ricchi? In queste condizioni psicologicamente precarie è cresciuta la comunità dei ponzesi.
Le cose non migliorarono con l’Unità d’Italia, l’isola fu più isolata e i sussidi statali diminuirono. Ma i ponzesi erano ormai abituati all’embargo economico commerciale, erano di fatto una fattoria e cominciavano ad occupare con molta determinazione le attività della pesca e quella mercantile. Ponza è rimasta l’isola dei galeotti, l’isola in cui si viveva con la paura dell’orizzonte, da cui potevano apparire solo nemici, che ti potevano togliere quello che ti era stato regalato dal destino.
Infatti i galeotti, i coatti, i carbonari, i libici, i confinati politici sono stati una costante nella vita sociale dei ponzesi e questa convivenza basata sulla paura, sulla diffidenza a volte anche solidarietà umana, ha segnato lo sviluppo economico dell’isola moderna.

Tu dici che questa cultura viziata dalla diffidenza, dalla paura, dall’individualismo ha bloccato il nostro sviluppo sociale, culturale e forse economico?

Penso proprio di sì! Vedi, il lavoro della terra ha bisogno solo di braccia, di acqua, di sole, di clemenza del tempo. Una famiglia molto unita può ottenere dei buoni raccolti. Anche la pesca ha bisogno di un capo e di un gruppo di pescatori che sanno ubbidire e lavorare. Il turismo non si può fare da soli. Noi facciamo turismo con la stessa mentalità colonica. Vi sono ottimi imprenditori che da soli sanno farsi valere, ma l’immagine generale dell’isola “sta andando alla malora”.

Vorrei concludere questa chiacchierata che è stata per me meravigliosa, chiedendoti: tu da che parte stai?

Ho smesso di parteggiare. Ho cominciato da tempo a ricordare che la storia è fatta dai cannoni e mi commuovo quando in questo posto osservo solitario la natura e comprendo gli equilibri che da milioni di anni lottano per mantenersi vitali. Gli uomini che vengono appresso, erigono monumenti, attaccano lapidi, ma non si accorgono che un attimo dopo cominciano di nuovo ad affilare le armi e continuano a distruggere.

E allora che si deve fare?

Vedi anche io ho il mio “orizzonte”, il mio confine culturale; il confine morale che mi sono imposto di non superare e passivamente lo difendo dalle invasioni dei nuovi “barbareschi”.

 

Ci siamo detti tante altre cose a proposito di passato e futuro mi ha salutato dicendomi questa frase: “Largo ai giovani, ma ricordati che la gioventù è difficile apprezzarla, quando si è giovani!”.

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[Intervista al Grande Vecchio. “L’orizzonte” (3) – Fine]