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Intervista al Grande Vecchio. “L’orizzonte” (1)

a cura di Vincenzo Ambrosino

 

Questo articolo faceva parte di un giornale che stilavamo a scuola.
Fu un numero unico in occasione del Concorso ‘Carlo Pisacane’ organizzato dalla Associazione omonima, presieduta dalla Garavini, da Lamonica ed altri.
Siccome ho letto il pezzo di Carmine Pagano (vedi qui [1]
), che terminava proprio dalle parti di Pisacane, mi sono ricordato di quest’articolo che tenta di analizzare i fatti da una prospettiva di un “grande Vecchio”.
Buona lettura
Vincenzo Ambrosino

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Alla fine mi sono deciso di andarlo a trovare nel suo “eremo”. L’ho trovato intento a scrivere, sommerso da libri. L’ho chiamato, è rimasto sorpreso, mi ha guardato e mi ha detto: “….che ci fai da queste parti?”.
“Ovviamente non sono di passaggio”- ho risposto- “ho bisogno del tuo aiuto, delle tue profonde conoscenze di queste isole, in particolare  dell’Ottocento, quando c’è stato anche lo sbarco di Pisacane, voglio partecipare ad un concorso”. “Beh, per documentarsi ci sono i libri” – mi ha detto – “…è vero ci sono i libri” -rispondo io – “ma ci vuole anche la capacità di sintesi, il quadro d’insieme che un pivello come me, al di là della sua buona volontà non può permettersi di ottenere. Tu sei una biblioteca vivente per quanto riguarda l’evoluzione di questo microcosmo e io penso tra l’altro, che hai l’età per non essere più di parte.”

L’espressione “hai l’età”, gli è piaciuta, infatti i suoi occhi sono diventati lucenti, un sorriso gli ha illuminato  il viso.
“Allora, resti a mangiare con me, così potremo anche parlare!”
Ho avuto subito modo di notare la sua antica cortesia e così abbiamo apparecchiato la tavola, abbiamo cominciato a mangiare ed io sono partito con le domande:

Che ne pensi di Pisacane?

La vita a volte ti porta dove vuole, ti innamori e ti fai prendere dalle passioni. Pisacane si è fatto prendere dalle passioni e non si è fermato più, percorrendo pericolosamente la sua strada fino in fondo.

Sai che ci sono ancora oggi, simpatizzanti borbonici, questi hanno detto che Pisacane ha sconvolto la vita della nostra comunità nella sua famosa impresa.

Se Pisacane è venuto in quest’isola è perché aveva un interesse; se non c’erano i carcerati da liberare, non avrebbe mai pensato a Ponza. La cosa importante è chiedersi: perché il Borbone utilizzava l’isola come carcere invece di utilizzarla come sua riserva di caccia o di pesca? E poi ci troviamo in un momento storico in cui in tutti i paesi d’Italia si moriva di fame, di stenti. C’erano dappertutto rivolte, barricate. C’era un’enorme massa di gente che chiedeva giustizia e libertà e s’incamminava verso l’Indipendenza e l’Unità.

Nel nostro egocentrismo, consideriamo la storia dei ponzesi unica e questa storia deve tutto al Borbone, per cui guai a chi ce li tocca!

E allora affrontiamola questa storia, tenendo in considerazione un fatto: c’è stato il tempo dei Borbone ed è finito, come è finito quello di Vittorio Emanuele, di Mussolini ecc. Questi “nostalgici” dovrebbero essere più positivi nel dire per esempio: “A Ponza i Borbone sono stati capaci di costruire un porto… noi moderni non siamo stati capaci di fare altrettanto”.

Qual è il misterioso motivo di questa devozione alla famiglia Borbone?

Devi sapere che la vita fuori dalla corte del re non era facile, i baroni, i nuovi feudatari del regno, governavano i propri territori e i propri sudditi spremendoli fino all’osso. A Ischia, per esempio, da dove noi proveniamo, la vita contadina e dei pescatori era da schiavi. Nel 1735, isolati pescatori ischitani si avventurarono verso il nostro arcipelago, lo trovarono un paradiso: un mare pescoso, una terra ricca di boschi, di frutti selvatici, abbondante di capre e conigli. Vennero sempre più spesso dalle nostre parti e cominciarono a portarsi le famiglie. Trovarono abitazioni di fortuna, grotte scavate dai Volsci nel 1500 a.C., grotte naturali, antichi eremi. Si resero subito conto che la semplice raccolta dei frutti del bosco, la cacciagione di passaggio e quella stanziale, non bastava alla loro sopravvivenza, dovevano trasformarsi in agricoltori. Cominciarono, a disboscare e questa operazione durò circa un secolo, fu un lavoro massacrante trasformare un terreno collinare in agricolo. Dovunque si disboscò, si costruirono gradoni e per mantenere il terreno si alzarono “le parracine”. Dall’alba al tramonto era un continuo spaccare pietre, sistemarle l’una sull’altra e poi zappare, dissodare, sudare, faticare e mangiare pane e acqua, accompagnata con una cipolla o una carota.

Quindi rispetto alle condizione sociale di Ischia, trovarono un vero paradiso?

Tutto è relativo, giovane amico, ma alla classe dei proletari anche a Ponza il destino era quello di procurarsi il cibo con il sudore della fronte.

Si viveva comunque tranquillamente?

In quelle campagne brulicanti di vita e di fatica, l’occhio cadeva sempre all’orizzonte, e l’apparizione delle navi barbaresche li richiamò ad una realtà che già avevano conosciuta come peggiore, infatti la pirateria nei mari e sulle coste la faceva ancora da padrone e dove passavano quei dannati, non lasciavano dei bei ricordi.

Come si potevano difendere?

Si decisero a chiedere aiuto al re Carlo VII, a questo scopo mandarono una delegazione alla capitale. Il re ignorava che il Suo privato dominio fosse abitato, inviò subito armati e cannoni ed ordinò che si ricostruissero le fortificazioni fra cui la Torre all’entrata del porto. Da quel momento il re cominciò a concentrarsi su quelle isole sperdute infatti una delle sue prime iniziative per rendere le isole più appetibile alla colonizzazione, oltre alla protezione militare, fu quella di riconfermare i privilegi concessi da Carlo V con diploma del 17 febbraio 1537: “come gli abitanti della contea di Ponza non potevano da chicchessia essere ricercati o giudicati, perché le isole godono del diritto di asilo e immunità per qualsiasi debitore, malfattore, inquisito, forgiudicato, ecc…”.

Da qui nacque il detto “vorrei essere giudicato dalla legge di Ponza?” …ma al di là degli interessi del re, tutto sommato, i nostri coloni avevano deciso di scommettere sul futuro in quest’isola, attraverso la fatica, il sudore, la pazienza, l’unità familiare?

E in questo furono aiutati molto dai Borbone! Nel 1759 Carlo VII lasciò Napoli per salire sul trono di Spagna con il nome di Carlo III, egli rinunciava alla corona di Napoli a favore del figlio Ferdinando IV. Ferdinando coadiuvato dal saggio Tanucci continuò l’opera  di sviluppo delle isole. Si costruirono la parrocchia progettata da Antonio Winspeare, consacrata nel 1779. Si pensò anche ai morti con la costruzione del cimitero. C’era una fossa esterna per gli impenitenti e gli appestati, ed altre quattro distinte: la prima per i sacerdoti, ufficiali e notabili; la seconda per i soldati e i condannati; la terza per gli uomini e la quarta per le donne e i ragazzi. In basso in un terrazzo, rivolto verso i “Faraglioni della Madonna” venne allestita la “batteria Leopoldo”, con due cannoni puntati sul mare. Ferdinando IV mandò a Ponza nel 1771, galeotti che furono destinati alla produzione di pietre di costruzione, ma anche una sessantina di artigiani: muratori, falegnami, scalpellini e qualche fabbro.

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