- Ponza Racconta - https://www.ponzaracconta.it -

L’antica cultura contadina isolana. Le colture tradizionali e i cambiamenti successivi. (1)

[1]

di Mimma Califano

.

Iniziamo con questo articolo un serie ‘in progress’ di approfondimenti di Mimma Califano sulla cultura contadina: nei suoi risvolti passati, nell’attualità e nelle proiezioni future.

Così come altre certezze e conoscenze al cambio dei tempi, anche le tecniche agricole e lo stesso modo di intendere la “Madre Terra” sono cambiati; dai criteri di sopravvivenza, attraverso quelli produttivistici, ad una rinnovata attenzione ‘olistica’; all’unità complessa costituita oltre che dall’uomo e dal terreno, dagli altri esseri viventi (piante e animali) e dagli eventi climatici (in una parola da tutti i componenti della troposfera).

Questi temi e le più recenti conoscenze sull’argomento – cimentati con le specificità della nostra isola, il particolare ecosistema e la sapienza degli ‘antichi’ sviluppata in centinaia di anni di osservazione attenta della Natura – non mancheranno di stimolarci al confronto, e di stupirci…

[2]


È  stato verso la metà degli anni ’80 che mio zio Gennaro, contadino da sempre e a tempo pieno, incominciò a sostituire i propri semi con piantine e/o semi comprati.  Lui diceva: – È da troppo tempo che utilizziamo solo i semi nostri o di qualche vicino; dobbiamo migliorare la qualità!

L’idea in quel momento sembrava buona, ma né lui e neppure la maggior parte degli altri contadini del mondo potevano immaginare quante e quali conseguenze questa scelta avrebbe comportato.
Ma andiamo per ordine.

La maggiore coltivazione agricola ponzese è sempre stata l’uva da vino, prodotta principalmente dal vitigno Biancolella d’Ischia – uva bianca – a cui si aggiungono, il vitigno Piedirosso (per’ ’i palumme) – uva nera;  la Malvasia – uva bianca dolce da spumante – ed altre uva da tavola, identificate solo con nomi dialettali: uva a zezzell’, muschegn’, curnicell’ e uva cugliunàr’ (quest’ultima con acini bianchi molti grossi e tondi).

Forse non tutti sanno che agli inizi del novecento Ponza produceva tanta uva che non solo bastava alle necessità isolane, ma durante il periodo delle vendemmie  arrivavano navi cisterna dalla Liguria per comprare il nostro mosto – di buona gradazione – da aggiungere al loro di gradazione minore.
Come era possibile tale produzione?

L’isola all’epoca era coltivata si potrebbe dire in ogni centimetro; i terrazzamenti arrivavano fino a pochi metri dal mare. Con un po’ di attenzione ancora oggi si possono vedere le catene in posti improbabili come nella parte della scarrupata tra il Fieno e Punta della Guardia o a Punta d’Incenso. Senza dimenticare la parte dei terreni che sono andati perduti, portati via dal mare, come nella parte a mare della Guardia che affaccia su Chiaia di Luna, poco prima di punta del Fieno; o in altre zone  – come nella valletta sotto l’attuale eliporto – dove la mancanza di manutenzione ha fatto crollare ‘i parracine, e il poco terreno che vi era contenuto è stato dilavato a valle.

A tutti i terreni coltivati di Ponza bisognava aggiungere, in altri tempi, la produzione di Palmarola (leggi qui [3]).

Il terreno era messo a coltura d’u puoie a’ mern’ – (dall’appoggio al margine) cioè da vicino alle parracine, dove c’era il filare di viti fino, al bordo del terrazzamento dove, se l’esposizione ai venti lo consentiva, c’era un altro filare di viti.

[4]

Nel mezzo si coltivava di tutto: orzo, frumento, granturco, piselli, lenticchie, fave, cicerchie, culetuòt’n’ (leggi qui [5]), patate, aglio, cipolle, fagioli, ceci, lupini, lino.

Questo nelle zone dove l’acqua era solo quella piovana o quella poca che si poteva mantenere nei piccoli pozzi all’uopo scavati: la maggior parte dell’isola quindi. Detto per inciso, ogni piccolo appezzamento di terra era sempre fornito di una piccola grotta per ripararsi, e di un pozzo. In un’economia ‘al risparmio’, con le pietre ricavate dallo scavo dei pozzi e/o delle grotte, si costruivano le parracine.

Nelle altre zone, dove l’acqua era un po’ più disponibile e il terreno più pianeggiante, come ’nd’a padura, a mare ’e copp’, a ’u chian’i Scuott (sopra gli Scotti), a Piana d’Incenso, o nelle vicinanze delle abitazioni, la produzione diventava orticola.

Diverse qualità di pomodori (per sugo, insalata, da mantenere per l’inverno a piénnule), zucchine, cucuzzell’ (una varietà di zucchine), melanzane, scarola, fagiolini rampicanti e fagiolini bassi, cappucce ’i maggie, insalata, finocchi, verze, cavolfiori, broccoletti, rape, peperoncini (sia del tipo dolce che piccanti), schiuppature (una varietà di broccolo quasi perenne), cetrioli e cetrioli pelosi che noi chiamiamo carote, ravanelli, carciofi di diverso tipo, bietina e cicoria spontanea, rucola, peperoni. Senza dimenticare una quantità di piante aromatiche: camomilla, menta, salvia, rosmarino, origano, prezzemolo, basilico, sedano, alloro.

[6]

‘A cucuzzella

[7]

 Vruòccl’ (broccolo) ‘a schiuppatura’

[8]

La ‘carota’ di Ponza. Ovvero il tortarello barese

Limitata invece la produzione di alberi da frutta; troppo ventosa l’isola, si diceva, o forse a Ponza non c’è mai stata una vera tradizione per la frutta.
Comunque non mancavano i fichi: fichi bianchi (paradise, triane) e nere (prucessotte), fichi d’india (prima coltivati e in funzione di barriera; poi inselvatichiti); e poi… mele cotogne, pere di piccole dimensione (carmusine) (leggi qui [9]), albicocche di più qualità, prugne (nere, bianche, ’a pappagone (bianca, allungata), gelsi neri, carubbe (’i sciuscèll’), mandorle, nespole, amarene, sorbe e sorve pelose (corbezzoli), ’i percoche (a polpa dura e gialla, che si usava mettere nel vino); e ’i pèrseche a polpa bianca e succosa (leggi qui [10]).

Anche da ricordare gli agrumi: mandarini, arance, limoni. Però solo a pochi fortunati era ed è data la possibilità di gustare una produzione di questi frutti profumati e saporiti. I fiori delicati di questi alberi infatti, più che per le altre specie, non vanno troppo d’accordo con la ventosità diffusa dell’isola; perciò solo chi possiede un terreno in una zona un po’ meno esposta o comunque con almeno un lato protetto ed aiutandosi con alte siepi di canne, riesce a produrne limitate quantità.

Non mancavano gli olivi; ma le olive venivano consumate come tali, dopo averle ‘curate’; la scarsa produzione non permetteva infatti di produrre olio.

Questo lungo elenco per ricordare quanto varia e perfettamente adattata alle condizioni geo-climatiche isolane fosse la produzione agricola.
Ma come si riusciva anno dopo anno, e per centinaia di anni, a mantenere la produzione utilizzando sempre lo stesso limitato terreno?

L’esperienza aveva insegnato ai nostri contadini come utilizzare al meglio le risorse disponibili senza sprecare nulla; ogni cosa veniva riciclata in quel processo che, in termini moderni, viene definito “chiudere il ciclo produttivo in azienda”.

Il terreno per mantenere la fertilità ha bisogno di acqua, concime, compostaggio, rotazione delle colture, sovescio e, se possibile, periodi di riposo.

Andremo ora a considerare in modo più approfondito ciascuno di questi componenti.

.

[L’antica cultura contadina isolana. (1)Continua qui [11]]