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A dorso d’asino, di Eduardo Ferri. Prefazione (terza parte)

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L’emigrazione è un fenomeno che è certamente legato allo spopolamento dei piccoli centri e delle campagne, alla ricerca di nuovi posti di lavoro, ma che altrettanto certamente affonda le sue radici in altri ambiti: desiderio di evasione, volontà di rottura con un mondo e una cultura che, in parte, non si accetta più, rifiuto di valori standardizzati o sclerotizzati in tradizioni non più sentite.

Un protagonista de “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli commentava così la partenza dei giovani verso la grande città: “Oggi qui non viviamo mica male, ma siamo in pochi, quattro famiglie piccole. Quando noi moriamo ci sarà più nessuno… Sicuro che fa pena… pensando a tutti i sacrifici, accudire la terra come un tesoro, una spiga di grano per la strada la raccoglievamo, l’erba la tagliavamo anche nei cespugli, adesso ci sono ortiche dappertutto, e rovi e tante serpi grosse, e tutti sono scomparsi. Qui va a perdere tutto!”.

E aggiunge, quasi presagendo quanto accade o potrà accadere ai giorni nostri: “…Se dura sempre così per i giovani, va bene. Ma non dura. Perché tutte le nazioni sono già ben motorizzate e mancherà il lavoro. Noi non lo vediamo più, ma cambierà. Qui tornerà popolato come una volta”.

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La parola tedesca Heimat è di difficile traduzione. Di origine antica, il termine significa patria, piccola patria, dimora e, sino all’Ottocento, era usato soprattutto da giuristi e notai per indicare in primo luogo la casa natale e, in un mondo ancora prevalentemente agricolo, la casa paterna e il podere ereditati dagli avi e trasmessi da una generazione all’altra. Da questo mondo chiuso e sicuro, delimitato da confini che lasciano fuori tutto ciò che è estraneo, – spiega Paola Berzetti di Buronzo, docente di lingua e letteratura tedesca, – in Germania è nato nell’Ottocento un genere letterario di grande popolarità, la Heimatliteratur: racconti che celebravano l’angolo appartato di provincia e la vita contadina scandita dalla ripetizione di stagioni e consuetudini e dalla perennità di valori, in una immobilità che sembra assorbire la storia nel ciclo della natura. Questo mondo chiuso conferisce sicurezza, ma anche inquiete paure del nuovo e dell’ignoto che iniziano alle porte del villaggio o del borgo; viene vagheggiato come idillico e ha spesso il calore accogliente della casa natale, ma è altrettanto spesso pure feroce nel punire qualsiasi comportamento che si discosti dai modelli secolari ed astiosamente chiuso al resto dell’umanità, allo straniero che magari abita poco lontano.

I racconti raccolti in questo libro non hanno la pretesa di mettere in luce la complessità della Heimat, vogliono comunque evocare un ambiente paesano che, con ampi spunti autobiografici, fa assaporare la dolcezza della casa d’infanzia evitando ogni nostalgico abbandono e ogni gelosa chiusura tribale.

“Varrebbe la pena analizzare attentamente – sostiene Manuel Cruz nel libro “I brutti scherzi del passato” se sono davvero così diverse le persone che stanno da una parte e dall’altra della memoria, quando questa viene utilizzata a mo’ di frontiera tra coloro che rimangono fedeli al proprio passato e coloro che vogliono assolutamente operare con esso una frattura. Perché gli uni e gli altri hanno un rapporto in fondo molto simile con ciò che li precede, considerato davvero importante. Un rapporto quasi sacro, in cui il passato opera come un vero e proprio valore in sé – come un riferimento normativo ultimo – di modo che rimanergli fedele o, al contrario, perdere ogni illusione in esso (che è la variante più frequente per voler giustificare la rottura) sostituisce l’esplicitazione e la discussione sul significato delle proprie condotte”.

“Forse scegliamo solo quello che non possiamo evitare”, diceva Arthur Schopenhauer e nel grande ventaglio di disillusioni e disincanti della memoria si va, allora, dal lontano “noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi”, di Pablo Neruda, alla più recente poesia di un unico verso “siamo esattamente tutto quello contro cui abbiamo lottato quando avevamo vent’anni”, del messicano José Emilio Pacheco.

“Uno dei nostri maggiori problemi – aggiunge Manuel Cruzè forse che alcuni antiquati linguaggi di futuro sono ancora in grado di risvegliare in noi risonanze che credevamo dimenticate, echi di orizzonti e illusioni definitivamente distrutti. Brutti scherzi della memoria, potrebbe essere il nome della figura… Ciò che crediamo di scorgere, ciò che brilla in lontananza, nella lontananza del passato, sono i nostri sogni spenti, senza luce né calore, che sopravvivono, come fantasmi, grazie alla nostra ostinata tendenza all’evocazione. O magari è la memoria che, a sua volta, rivela, senza saperlo, l’intensità della nostra carenza, il profondo dolore degli uomini per quello che hanno perso. Chi ha sofferto dice che il peggior dolore, il dolore più insopportabile, è il dolore fantasma, quello che lascia come unica traccia della sua esistenza quel membro strappato dal resto del corpo che lo ha abbandonato per sempre. È da considerare un vero e proprio sintomo della nostra condizione il fatto che non esista dolore più intenso della memoria del dolore”.

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Il tempo passa e trasforma persone e cose in maniera così radicale da renderle talvolta irriconoscibili. E’ successo anche per le piccole realtà rurali dove, con la fine della civiltà contadina, è prevalsa, spietata, la società tecnologica. Molte consuetudini, alcune feste e particolari usanze sono andate via via scomparendo negli anni e oggi i giovani hanno perso, purtroppo, il senso della tradizione e il patrimonio culturale delle origini. Il ricordo è rimasto vivo, ormai, solo nella memoria degli anziani.

Sento di poter condividere ancora la riflessione conclusiva di “Strade in salita”. “Una volta – scrivevo – l’attaccamento alla propria terra era così forte che in certe occasioni commuoveva perfino gli animi duri: oggi non più, diventa sempre più difficile versare una lacrima per il proprio paese e per la gente che ci vive! Erano i tempi in cui la gente sorrideva di più, nella sua semplicità, e per questo sapeva anche piangere”.

 

[A dorso d’asino, di Eduardo Ferri. Prefazione (3) – Fine]