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Quando Silverio scoprì l’ America. 2^ parte

[1]

di Adriano Madonna

Per la 1^ parte leggi qui. [2]

Quella sera Lasagna se ne stava accucciato sopra la falchetta di poppa della paranza, con gli occhi chiusi e le orecchie attente a ogni più piccolo rumore: quello del motore di un peschereccio che partiva nel buio o il gemito di un cavo di manilla stretto attorno a una bitta. Poi, forse un rumore particolare o un odore o chissà che fecero sì che Lasagna aprisse gli occhi e saltasse a terra. Era la prima volta che si sentiva l’America sotto le zampe ed evidentemente l’impressione che ne ebbe fu tale da fargli
decidere di esplorare il mondo nuovo che gli girava intorno. Prese la direzione di una straducola sporca con insegne sbiadite sulle porte delle bottegucce, poi, un odore inequivocabile gli percosse il naso come una frecciata: era lo stesso odore che in quel giorno nefasto di qualche mese prima lo aveva portato pari pari nella teglia della “lasagna di nozze” dell’Avvocato.
Lasagna, con tutti i sensi all’erta, si diresse da quella parte, come a seguire l’ago di una bussola immaginaria.
Silverio Mazzella, che s’era sistemato anche lui a poppa a godersi il mezzo Toscano della sera ancora con il sapore del minestrone in bocca, aveva seguito tutta la scena e nella consapevolezza che avrebbero perso il gatto, mise da parte timori e preconcetti, saltò a terra e si mise alle costole di Lasagna, ma la vicenda, di lì a poco, si sarebbe presentata più complicata di quanto Silverio avrebbe potuto credere.
Lasagna seguì la scia profumata come uno squalo seguirebbe la traccia di una preda che perde un filo di sangue e si ritrovò davanti a una porta con un’insegna dov’era dipinto un gran viso sorridente con un paio di baffi, un cappello da cuoco e una chitarra. Se Lasagna avesse saputo leggere, avrebbe letto “Il sorriso d’Italia, spaghetti e canzoni”.
Di inequivocabile, in quel momento, c’erano gli spaghetti, anzi, il profumo della lasagna che evocava il pranzo di nozze dell’Avvocato. Lasagna s’infilò in uno spiraglio della porta e scomparve nell’ombra per organizzare le mosse.
Di lì a poco giunse trafelato Silverio Mazzella, spalancò la porta ed entrò con un grido, come se invece di essere approdato a New York si fosse trovato a Cala Caparra:
“Avite visto na iatta? E’ trasuta accaddent!”
Gli rispose una voce:
“Iatte nun n’aggio viste. Aggio visto solo nu paesano ca è trasuto proprio mò.”
La voce apparteneva all’uomo sorridente dipinto sopra la porta. Il cappello da cuoco lo portava sulla zucca e la chitarra era appesa al muro. Silverio restò perplesso: questa America, in fondo, assomigliava tanto al suo mondo. Si doveva passare l’Oceano per trovare un cuoco, una chitarra e il profumo della pizza con il pomodoro e il basilico?
Silverio si guardò intorno: tutto, laggiù, in quella trattoria del porto, sapeva d’Italia, ma di un’Italia antica che forse nemmeno c’era più, un’Italia di canzoni e cartoline, un’Italia felice, con pochi soldi e tanto sole: proprio come immagina che sia l’Italia chi in Italia non vive. Sembrava impossibile che dopo un mese di mare si potesse approdare all’altro capo del mondo e trovare la fodera di cartone di un disco di Beniamino Gigli attaccata al muro e sentire il profumo dell’origano e della pizza.
“Puoi arrivare pure sulla luna, ma c’è sempre qualche cosa che ti riporta a casa tua.” aveva detto una volta Zi’ Arcangelo, di ritorno da uno dei suoi viaggi in Brasile con la barca carica di pappagalli.
Il cuoco dai lunghi baffi sollevò due bicchieri, ne osservò con soddisfazione la trasparenza contro luce e li depose sul tavolo, poi cavò una bottiglia da sotto il banco e disse:
“Per un’occasione speciale ci vuole una bottiglia speciale: Chianti! Alla salute, compà!”.
Silverio si ritrovò il bicchiere tra le mani: il vino era limpido e scuro, ne bevve un piccolo sorso, che tenne a lungo in bocca per carpirne i sapori più nascosti. Il vino era buono… A Silverio sembrò di essere tornato indietro di una vita: ricordò il vino della messa che rubava di nascosto nella sacrestia di Don Luigi; poi gli venne in mente il vino dolce con i biscotti all’anice che donna Brigida offriva all’Avvocato nelle serate d’inverno, durante le ripetizioni d’Italiano di Bonaria, e poi il fiume di vino quando l’Avvocato s’era sposato, con il barile inghirlandato di fiori appoggiato sul tavolo della trattoria di Zi’ Arcangelo. Com’era d’uso, poi, l’Avvocato, dopo la cerimonia in chiesa, aveva percorso la via lunga con la sua sposa sotto braccio e tutta la gente, fino a Cala Incenso, era uscita sulla porta di casa a battere le mani e a fare gli auguri.
E ancora… i pomeriggi afosi d’agosto, il vino fresco sotto la pergola di Zi’ Arcangelo e i rari turisti che sonnecchiavano afflosciati sulle sedie e sui tavoli della trattoria.
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“Sto qua da trent’anni.” La voce del cuoco lo cavò fuori dal sogno in cui era piombato. Silverio vuotò il bicchiere d’un fiato, poi guardò quello strano tipo con il cappellone bianco in testa.
“Sto qua da trent’anni”, questi riprese, “sono emigrato ch’ero ancora guaglione, poi mio padre è morto e mi ha lasciato la trattoria. L’ho lasciata come la voleva lui: un pezzo d’Italia in America. Quello stipo è pieno di dischi di Caruso e di Beniamino Gigli. A mio padre piaceva la lirica e piace anche a me. Almeno due volte all’anno mi devo andare a sentire l’Aida: mi metto la sciammerica e la camicia bianca con il colletto tosto e vado al Metropolitan. Vedi, compà, l’America è una bella terra, ma ti accorgi che è bella se ci vieni con le cose tue, perché certe abitudini io non avrei potuto mai prenderle. Per esempio, io la mattina mi devo fare il caffè e solo l’odore delle cose fritte che questi qua, gli americani, si mettono nel piatto, mi fa girare lo stomaco. Come pure gli spaghetti, che piacciono anche a loro, ma li fanno scotti e qualcuno ci mette pure la marmellata sopra. Ti pare possibile che Gesù Cristo può permettere una cosa del genere? Ma poi vengono qua, da Gennaro Scognamiglio, per mangiarsi gli spaghetti come Dio comanda, con la pummarola, e pure la pizza con l’arecheta e con la mozzarella.”
Silverio, che stava ad ascoltare a bocca aperta ma con il cuore in apprensione per non aver ancora capito dove si fosse cacciato Lasagna, d’un colpo si rasserenò: aveva finalmente visto il gatto, che s’era acciambellato sotto il forno, beato, al calduccio, accanto a un mucchietto di cenere. Silverio, dunque, si accomodò sulla sedia di legno e paglia, guardò negli occhi Gennaro Scognamiglio e disse:
“Ma qua, in America, dove stanno gli americani?”
Avrebbe voluto aggiungere che giù, al porto, dov’era ormeggiata la paranza, c’erano italiani, portoricani, portoghesi, gente di ogni colore, addirittura cinesi… Ma dov’erano gli americani?
Gennaro Scognamiglio mise il bicchiere sul tavolo, allargò le braccia, assunse un’espressione di grande serietà e disse:
“Qua ci sta l’America, gli americani stanno da un’altra parte!”
Silverio lo guardò perplesso, allora Gennaro aggiunse:
“Gli americani vivono a Manhattan, nei grattacieli, lavorano negli uffici delle grandi avenue, hanno le automobili con la coda e di domenica vanno in campagna ad arrostire i polli sul barbecue. Gli americani hanno tutti le mogli bionde, tanti figli, biondi pure loro, e le case bianche con il giardino davanti. Non si vedono mai, lavorano sempre e di domenica cantano in chiesa. Qualche volta qualcuno viene qua, al porto, a mangiare la pizza e gli spaghetti, ma mai di sera, perché dicono che qua ci stanno i mariuoli. Quindi, se tu volevi vedere non solo l’America, ma pure gli americani, dovevi andare da un’altra parte. Compà, questa, dove tu stai, è come una fetta d’America che gli americani hanno dato al resto del mondo. Qua vengono i camion con il frigorifero dentro per portare il pesce alle botteghe, qua viene la povera gente a gelarsi le mani per tritare sul pesce le barre di ghiaccio. Qua americani non ce ne stanno!”
Quest’ultima frase, a chiusura del discorso, Gennaro Scognamiglio l’aveva pronunciata con sanguigna veemenza. Poi zittì e guardo fisso Silverio, come ad aspettarsi una risposta.
Questi, da parte sua, era davvero perplesso: aveva scoperto l’America ma non gli americani! Ma com’era possibile?
Lasagna si era addormentato nel caldo tepore del forno, due omoni neri come la notte erano immersi in una zuppa fumosa in un angolo della trattoria, Silverio era assorto nei suoi pensieri e guardava nel fumo della sigaretta. L’unico che desse segno di vita era Gennaro Scognamiglio, che stava preparando la pasta della pizza e fischiettava ‘O sole mio. Poi, dopo aver riposto la pasta sotto il banco con lo straccio a quadri sopra per farla lievitare, si tolse il cappellone e il grembiule, si ravviò i capelli e disse:
“Compà, vogliamo andare? La vuoi vedere o no l’America?”
La notte di quel giorno di dicembre era umida e appiccicosa e il mondo intorno al porto era pieno di silenzio e di malinconia. Nella piccola vetrina di una botteguccia modesta occhieggiavano due lucine rosse e illuminavano il viso di terracotta del Santo Bambino nella mangiatoia. Accanto c’erano Giuseppe e Maria, il bue e l’asinello. A Silverio, nella sua semplicità, venne da pensare che il Bambinello nella notte di Natale nasceva anche in America, proprio come agli “Scotti di sotto”: nasceva nella stessa paglia e nella stessa povertà…
C’era aria di Natale in quel pezzetto d’America. Ecco, sì, proprio Natale… Natale, pensava Silverio, è una “cosa” che non ha patria: quando arriva, arriva dappertutto e tu senti dentro le stesse cose, anche se casa tua è lontana come la luna. Silverio se ne stava accorgendo in quel momento, davanti alla vetrinetta della botteguccia, dove il Bambinello gli tendeva le braccia dal suo minuscolo canestro di paglia. Silverio pensò che se avesse avuto la cultura e l’arte dello scrivere di Don Luigi, su questa cosa del Natale che non ha patria avrebbe potuto scriverci un libro grosso così, anche se non è facile trasformare in parole una cosa strana che ti si allarga dentro come un polpo e ti stringe un nodo in gola.
Il furgone di Gennaro Scognamiglio passò le case basse, imboccò una strada stretta e infine sbucò in una via enorme. In lontananza si vedeva una giungla di luci.
“Ecco, laggiù c’è l’America degli americani!” esclamò Gennaro Scognamiglio, e tese il braccio in avanti con l’indice dritto. “E’ laggiù che vuoi andare?”
Silverio non rispose, allora Gennaro Scognamiglio ripeté la domanda:
“Compà, vuoi andare laggiù, dove ci sono tutte quelle luci? Vuoi andare a vedere l’America degli americani?”
Silverio si sentì come quando la paranza aveva ormeggiato a New York e lui non aveva avuto il coraggio di scendere a terra: la sensazione era la stessa. Gennaro Scognamiglio, però, non s’era fermato e ormai il furgone navigava in un mare di luci, ma le strade erano quasi deserte, nonostante Natale fosse nell’aria. Silverio ricordò il Natale nella sua isola, quand’era bambino: la gente restava in casa attorno alla tavola con la tovaglia ricamata, a mangiare la zuppa di pesce e le frittelle di baccalà della vigilia, e la lunga strada che attraversava l’isola da un capo all’altro era scura e silenziosa. Le lampade appese ai fili ondeggiavano nel vento freddo di tramontana.
“Chissà dove sono adesso gli americani”, pensò Silverio, ma d’un tratto ebbe una folgorazione, si raddrizzò sul sedile del furgone ed esclamò:
“Sì, è certo, stanno anche loro a casa, a mangiare la zuppa di pesce! Perché è Natale e Natale arriva in ogni posto del mondo!”.
Detto ciò, Silverio Mazzella si accasciò sul sedile e chiuse gli occhi, mentre un sorriso sereno gli s’apriva sulle labbra.
Accanto, Gennaro Scognamiglio non disse nulla, ma aveva intuito che Silverio Mazzella aveva finalmente dipanato il groviglio di interrogativi che gli bolliva nello stomaco ed era arrivato a una grande verità. Ma quale verità? Allora fermò il furgone, girò e tornò indietro. Si lasciò il tripudio di luci “dietro la poppa” e navigò verso quella fetta d’America dove viveva gente d’ogni colore, con le mani piene di lividi di ghiaccio, con le strade fangose e l’odore di pesce e di rancido nell’aria. Da qualche parte doveva esserci qualcosa che aveva fatto scoprire la verità a Silverio Mazzella. Ma dove? Fra le luci e i grattacieli o fra quelle povere bicocche? O forse, forse… Gennaro Scognamiglio gettò un’occhiata nella vetrinetta della botteguccia, dove le lucine rosse illuminavano Gesù Bambino, e un grosso dubbio lo colse. Prima di quel momento non s’era mai accorto come fosse bella quella scena tra i cartoncini ingialliti dei bottoni e le bobine di cotone colorato.
Gennaro Scognamiglio decise che quell’anno Natale lo avrebbe celebrato in maniera più degna: ecco, sarebbe ritornato, a mezzanotte, davanti alla vetrina di Gesù Bambino, con la “sciammerica” che si metteva per andare a sentire l’Aida al Metropolitan e la camicia bianca con il colletto tosto. Era davvero una bella idea e forse ci sarebbero state anche altre persone, quella notte, a guardare Gesù Bambino appena nato. Chissà, forse ci sarebbero andati anche gli americani, oltre ai cinesi, a quelli di Portorico e a Silverio Mazzella e agli atri e Lui avrebbe teso le braccia e avrebbe sorriso a tutti.
Fine