di Enzo Di Fazio
per l’articolo precedente, “Fari e ricordi (5) (prima parte): leggi qui
A metà dicembre, era di sabato, quando, appena dopo pranzo, con gli zaini in spalla, io e mio padre, salutata mia madre, cominciammo il cammino per raggiungere il Faro della Guardia.
Ero stato preparato alla fatica che ci aspettava.
Dovevamo salire per la via degli Scotti, fare il sentiero della Parata, passare davanti la chiesetta (allora in costruzione) della Madonna della Civita…
la chiesetta della Madonna della Civita com’è oggi
… poi, percorso uno stretto viottolo della zona cosiddetta della “macchia dell’asparago” , andare alla scoperta dei faraglioni del Calzone Muto.
il Bagno Vecchio ed il faraglione del Calzone Muto
In quel tratto il sentiero si sarebbe addolcito perché diritto, sterrato e libero da arbusti e rovi, per la frequenza dei passaggi dei contadini della zona.
Superato questo viottolo ci saremmo poi imbattuti nel selciato ben modellato della strada che tutta in discesa ci avrebbe condotti ad affrontare la parte più faticosa ma anche la più ricca di emozioni, quella della “scalata” al blocco di roccia trachitica dove era collocato il faro.
Ci sarebbe voluta un’ ora buona per percorrere i circa tre chilometri di distanza tra casa e faro.
La necessità di giungere a destinazione prima del calar del sole non consentiva d’inverno quello che, ai fanalisti, piaceva fare in particolar modo nei mesi primaverili, estivi ed autunnali, lungo il percorso..
…Fermarsi a parlare con chi attendeva alle colture nei giardini a terrazzi sparsi nella zona compresa tra la contrada degli Scotti e i terreni del Bagno vecchio.
In quegli anni tutta quella parte dell’isola, ricca di filari di viti basse che incorniciavano le “parracine” cui erano addossate , era ben curata e, si animava man mano si allungavano le giornate grazie alle attività dei contadini o di chi semplicemente vi si dedicava per passione.
i terreni coltivati a monte degli Scotti
Durante le belle stagioni, oltre che consentire di recuperare energie , gli incontri rappresentavano l’occasione per lo scambio di esperienze sulla potatura, i tempi delle semine, le tecniche degli innesti.
D’inverno, invece, non era opportuno fare soste e bisognava partire per tempo per essere al faro prima del tramonto.
Quel sabato la giornata era fredda ma limpida.
Dopo la sosta a casa dei nonni, una delle ultime degli Scotti, per un sorso d’acqua ed un fugace saluto, ci incamminammo per il sentiero che costeggiando la Parata ci avrebbe portato ad immergerci in uno scenario di giardini curati delimitati da muri di parracine che si alternavano a dense macchie di “uastaccett’, di ginestre e, a tratti, di fichi d’india, fino a che non appariva il faro.
Il primo tratto di strada, quello ove voltandoti percepivi ancora la presenza delle ultime case degli Scotti, mi era familiare.
panorama del porto e degli Scotti salendo per la guardia
Erano lì un po’ sparsi ovunque, appartenenti ai nonni e a degli zii, giardini e terrazzamenti che frequentavamo in occasione delle vendemmie.
La parte oltre la zona del Calzone Muto era per me un mondo tutto da scoprire.
vista sui faraglioni del Calzone Muto prima di girare per la Scarrupata
Dovevi andarci apposta; il faraglione con il faro sulla sommità era in effetti coperto dal Monte Guardia così come il costone della Scarrupata attraversato dalla strada a guisa di “cerniera”.
la strada che taglia la “scarrupata” a cerniera
Quella zona non era coltivata né aveva appartenenze.
Vi arrivavano solo i fanalisti per la guardia al faro e i cacciatori nei periodi di apertura della caccia in occasione dei passaggi delle quaglie e delle beccacce.
Il vissuto, fatto di frequentazioni di contadini e di terre coltivate, si fermava al Bagno vecchio.
Anche il cane di nonno, un vecchio bracco bianco con delle grosse chiazze nere, quel giorno ci fece compagnia fin là dove si voltava “l’angolo”. Scodinzolando, a quel punto, fece una scelta e tornò indietro.
Mio padre camminava svelto ed io gli stavo dietro quasi correndo, l’aria fresca d’inverno alleggeriva il viaggio.
mio padre sulla strada verso il Faro
Ho rincontrato, in età adulta, ancora quella immagine nei versi della “Casa di Hilde” di Francesco De Gregori là dove recita (..l’ombra di mio padre due volte la mia, lui camminava e io correvo…)
Poche parole tra noi già dopo aver lasciato casa dei nonni.
Partendo da casa, mi aveva raccomandato, una volta presa la strada della scarrupata, di guardare avanti senza mai distrarmi, di non voltare lo sguardo verso la montagna per non impressionarmi, di non guardare verso il basso dove il vuoto avrebbe potuto farmi girare la testa. Dovevo solo seguirlo standogli dietro passo passo.
Il silenzio mi consentì di fantasticare ma non di elaborare nella mente un’immagine del faro e della grande “giostra”, distratto com’ero dal peso delle raccomandazioni.
Ma come spesso accade nella mente dei bambini, i pericoli non vengono percepiti nella giusta misura e più che essere scansati, vengono affrontati perché incuriosiscono.
Così, sicuro di non essere visto perché nel cammino seguivo mio padre, mi capitò quasi per istinto , appena mi resi conto della grandiosità dello scenario in cui mi stavo immergendo, di guardare in alto verso la montagna e poi in basso verso la scarpata che, oltre la compostezza della strada, portava al mare.
E rimasi impressionato di come tutto sembrasse enorme: la montagna sopra di me già cupa a quell’ora del pomeriggio, il costone con tanti massi sparsi il cui disordine accentuava la precarietà della loro posizione; gli scogli, di sotto, a mare così grandi da ricordarmi i macigni che avevo visto lanciare da Polifemo contro Ulisse e i suoi compagni nell’ indimenticabile film con Kirk Douglas visto qualche anno prima al Cinema Margherita ; la strada che avevo davanti, anch’ essa mi sembrò enorme e lunghissima.
Eppure non mi sentii a disagio, anzi mi parve essere avvolto da una carezza fatta di odori di mare e di salsedine che andavano incontro a quello gradevole della frescura della montagna e a quello forte, umile e modesto del finocchio marino abbracciato alle pietre.
Il silenzio con cui mi accompagnavo a mio padre mi disse più di tante parole.
La parola distingue le cose, le rende visibili, ma spesso offusca la vista e limita la percezione di ciò che sta intorno.
Il silenzio mi consentì di sentire le voci del mare e quelle della montagna attraverso le parole del vento.
Non ne ero ancora cosciente, ma stavo imparando a leggere il linguaggio della natura.
Ricordo che quei gesti che avevo considerato di trasgressione presero forma accompagnati dalla spinta di un batticuore; c’era il peso della disubbidienza ma anche la consapevolezza di aver domato la paura.
La strada tutta in discesa ci portò quasi a toccare il mare, prima di iniziare “l’arrampicata” che dalla sella ci avrebbe portato al faro.
il punto di incontro tra la strada e la sella del faraglione
Nell’ultimo tratto di quella strada avevo spesso volto lo sguardo verso l’alto e quel grande fabbricato con la lanterna del faro sovrastante la sommità del faraglione mi era sembrato, man mano mi avvicinavo, sempre più simile ad un castello come quelli di cui ero rimasto affascinato leggendo i primi libri di favole dei fratelli Grimm.
il castello dei ricordi delle prime lettura
il faro sul faraglione – il castello vero
Altre emozioni vennero salendo per il sinuoso viottolo che si inerpica sul crinale del faraglione: quello che vedevo da vicino confermava quel senso di grandiosità che mi aveva pervaso percorrendo la lunga strada : le rocce mi sembrarono enormi eppure stabili e sicure per come si combinavano e si tenevano le une con le altre.
vista dall’inizio della stradina che porta sul faro
La protezione che veniva dall’altezza e dallo spessore dei muretti che fiancheggiavano il sentiero contribuiva a scansare la paura.
i muri a protezione del viottolo che porta al faro
Mio padre si fermò ogni tanto lungo la salita, ed io con lui, per recuperare forze e pensieri.
Furono i momenti di prendere coscienza di cosa mi stava regalando la natura attraverso l’espressione dei colori dalle tante sfumature del mare, del cielo, delle rocce..
vista di Palmarola dalla strada che porta al faro
Giungemmo poco prima del tramonto. Ci accolse il gigante stendendoci davanti, a guisa di mantello, il suo enorme piazzale.
la lanterna del faro lato palmarola prima di arrivare al piazzale
“Ecco dove ti ho portato” disse mio padre, mostrandomi la targa collocata alla destra del portone d’ingresso, dove esaltata dalla lucentezza dell’ottone c’era la scritta: Marina Militare – faro punta della Guardia”
il portone e la targa del faro della guardia
Qualche istante dopo stavo nell’ampolla di vetro dove la lanterna con la sua grande piattaforma,
l’ampolla di vetro che contiene la lanterna
girando, sembrava veramente “una giostra”.
il saluto del faro arrivando con la nave nel porto
Enzo Di Fazio – novembre 2012
