Storia

Le imperatrici di Roma, Giulia e Ottavia

di Silverio Lamonica

Joseph Mc Cabe, scrittore inglese nato il 12/11/1867 e morto il 10/01/1955, fu ordinato sacerdote della Chiesa Cattolica nel 1890, ma lasciò l’abito talare nel 1896 essendogli venuta meno la fede. Scrisse all’incirca 250 opere riguardanti varie discipline: scienza, religione, politica, storia e cultura varia. Nel 1911 diede alle stampe “Le Imperatrici di Roma” di cui – su sollecitazione dell’indimenticabile Ernesto – ho tradotto alcune pagine riguardanti Giulia e Ottavia. Molto triste la vicenda di quest’ultima come si può notare dal tono drammatico della narrazione.

JOSEPH McCABE Autore di “Il decadimento della Chiesa di Roma”

LE IMPERATRICI  DI  ROMA

Traduzione parziale (pagg. 30 – 110 – 111) Di Silverio Lamonica

NEW YORK 

HENRY HOLT E COMPANY 

1911

 G I U L I A

Il tuono della collera imperiale sparpagliò questa banda licenziosa d’un tempo nell’anno secondo a. C. Nella primissima parte dell’anno, Ottaviano intrattenne Roma con uno di quegli spettacoli da brividi, che egli spesso forniva. Per celebrare la consacrazione di un nuovo tempio a Marte, che aveva fatto costruire, inondò il Circo Flaminio, offrì al popolo una finta battaglia navale, con tredici coccodrilli ammazzati dai gladiatori. Giulia aveva ingannato l’imperatore tanto a lungo da sembrare che lei ed i suoi amici abbandonassero qualsiasi ritegno, cosicché le loro avventure vennero a conoscenza dell’imperatore.

Le accuse contro Giulia devono essere state al di là di ogni cavillo, dal momento che Ottaviano, che l’amava profondamente, all’improvviso la cedette al corso della giustizia. Nei confronti dei suoi compagni fu rivolto l’addebito di cospirazione. Un giovane rampollo della nobiltà si uccise, gli altri furono messi al bando.  Giulia fu dichiarata colpevole di adulterio – il male che suo padre aveva combattuto per dieci anni – e dal luccichio di Roma ella fu condotta in maniera brutale alla desolata isola rocciosa di Pandateria (Ponza, sic n.d.t.), nel Golfo di Gaeta. Nell’angusta e deprimente prigione, senza alcuna servitù femminile, senza vino né ornamenti, tranne la compagnia di sua madre infelice, l’affascinante giovane principessa trascorse cinque anni, guardando con angoscia, sull’azzurra distesa di acqua, verso il profilo appena percettibile delle colline italiane, oppure verso sud, in direzione di quelle acque di Baia cosparse di rose, dove aveva trascorso in fantasticherie tante estati brillanti. Roma, mossa a pietà dalla misera donna, implorò Ottaviano affinché la perdonasse; e quando egli affermò che prima di perdonarla dovessero mescolarsi l’acqua ed il fuoco, il popolo gettò nel Tevere torce infuocate. Alcuni anni dopo, nel sentire che ci fosse un complotto per liberarla, Ottaviano la fece trasferire in una prigione più sicura in Calabria. Là ella trascinò la sua miserevole vita finché suo padre morì e Tiberio salì sul trono. Quando costui, a sua volta, si rifiutò di liberarla, ella sprofondò lentamente nella pace della morte.

O T T A V I A (1)


         In ogni caso, più o meno nel giro di un anno di questa vita delirante, si logorò la sua robusta struttura ed una seria infermità interruppe, per un certo periodo, le scandalose performance. Sfortunatamente, quando si ristabilì, perse l’unico uomo che aveva avuto qualche potere di controllo su di lui e che l’usava con sufficiente onestà. Burro morì nel 62 d.C. e nello stesso tempo fu distrutta la scarsa influenza di Seneca. Non è questo il luogo per discutere il problema difficile e delicato della condotta di Seneca nel suo legame con Nerone. Ce n’era abbastanza per dire che egli fosse ora accusato di cospirazione e, sebbene si fosse difeso con successo, cessò di avere un qualche potere a palazzo.

A questo punto Nerone poté  sbarazzarsi della debole giovane pudica, ritiratasi nei suoi appartamenti, e vi erano abbastanza uomini per inventare un procedimento. Salvio Otho era già stato spedito in una parte remota dell’impero, il suo posto era stato preso da un mercante di cavalli, di nome Tigellino, di modesta cultura e di ancor meno carattere. Si alleò con questa nuova favorita, Poppea, e di lì a poco la giovane imperatrice si trovò accusata, con brutale superficialità, di adulterio con Eucero, un musico e schiavo alessandrino, e che aveva coperto la vergogna di quel crimine con l’aborto. Tigellino si procurò facilmente i testimoni, anche se la maggior parte dei servi di Ottavia avesse rifiutato, persino sotto tortura, di smentire la virtù della loro gentile padrona. La grossolanità di Tigellino lo portò troppo lontano, così la simpatia pubblica crebbe fortemente in favore di lei. Nerone fece ricorso al fattore della sua sterilità, di cui avrebbe potuto facilmente fornire una spiegazione plausibile, così divorziò da lei. In ossequio ai sentimenti dei romani, in un primo momento le diede la casa di Burro e la fortuna di un nobile che era stato giustiziato. Comunque di lì a poco, probabilmente sotto pressione di Poppea, la esiliò in Campania. Egli sposò Poppea una quindicina di giorni dopo il divorzio da Ottavia.

Ma l’oltraggio lampante accrebbe ulteriormente quel feeling che Roma non aveva ancora perduto del tutto, così Nerone fu costretto a richiamarla. Con profonda mortificazione di Poppea, una gran folla invase il cortile antistante il palazzo, gridando il nome di Ottavia. Rimossero le statue della nuova imperatrice dai templi e dai luoghi pubblici e sistemarono nuovamente, al loro posto, le statue di Ottavia che erano state scartate, ornandole di fiori. Poppea in preda all’ira, fece pressione su Nerone affinché rivendicasse il suo potere, così l’assassino di Agrippina, Aniceto, pieno di risorse, fu richiamato a Roma. Ancora più sfacciato di Tigellino, giurò che proprio lui aveva avuto una relazione con Ottavia e, con false prove, fu esiliata in Sardegna. Ma Poppea non fu ancora soddisfatta, quindi Nerone annunciò che Ottavia era stata scoperta nel tentare di corrompere il comandante della flotta. Così fu portata nell’isola rocciosa di Pandataria, già testimone di tragedie.

Da quel momento, il buon feeling dei Romani sembrò esaurirsi, e Ottavia fu pigramente abbandonata alla banda feroce che circondava Nerone. C’è una particolare malinconia nella fine di quella fragile ed innocente carriera. Soldati rozzi presero la timida figura, la portarono nel bagno, le legarono gli arti e le aprirono le vene. Cercando di resistere timidamente alla fine, la giovane ragazza – aveva appena vent’anni – cercò con orrore di sfuggire alle grandi tenebre e pietosamente li implorò di risparmiarle la vita. Venne meno ed il flusso del suo sangue si arrestò. L’ultima finzione di pietà venne rimossa, ed ella soffocò nei vapori del bagno.

Poppea ne richiese la testa, afferma Tacito. È difficile stabilire se il frequente ripetersi di quest’orribile dettaglio nelle cronache ne incrementi o sminuisca la credibilità. Ma non possiamo esitare nel credere Tacito, quando asserisce che il Senato ordinò funzioni religiose di ringraziamento nei templi per questa fresca conservazione dell’imperatore.

“Un’altra imperatrice sul trono finì nel sangue, e dopo pochi anni, venne il suo turno di macchiare quel trono col suo sangue per l’imperiale follia. Abbiamo visto che razza di donna Nerone avesse messo al posto di Ottavia. Ricca, civettuola, bella, Poppea vide nella vita soltanto una luminosa occasione di piacere (…)”

 

 

 

 


Note

(1) – Su Ottavia , la prima moglie di Nerone è stato pubblicato nel 2006 questo notevole libro di Liliana Madeo (cliccare per ingrandire, sulla scheda sottostante)

(2) – La lussuosa villa di Poppea ad Oplontis, nell’attuale Torre Annunziata, fu sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 e riportata alla luce da scavi archeologici a partire dal 1964. La villa presenta numerosi ambienti con portici, terrazze, sale residenziali, locali adibiti a terme, e un’ampia piscina adornata da statue marmoree. In molte stanze sono presenti decorazioni ad affresco in ottimo stato di conservazione.

Calidarium della villa di Poppea ad Oplontis

 

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