Mazzella Tina

Farfariello (1)

di Tina Mazzella

Da bambino Farfariello era basso e magro; elastico e scattante quasi  fosse mosso da fili invisibili, il  corpo  sapeva raggomitolarsi in modo sorprendente rimpicciolendosi a volontà per nascondersi dappertutto, proprio come il Pollicino delle fiabe. Furbo e ribelle, riusciva a sgusciare rapido e silenzioso da  situazioni  imbarazzanti  per  poi  materializzarsi improvvisamente, quasi provenisse dal nulla.

Bastava osservare con attenzione i suoi occhi così ardenti e vivaci per indovinare solo parzialmente il fervore fantastico che ne  agitava la mente, rendendo indomita la figura fragile e minuta.

I capelli, sempre imbrattati di terra e di erba, erano costantemente arruffati e sembrava contenessero i sette spiriti malefici del mondo. Pettinarli costituiva una faticosa impresa, resa ben più ardua dalla necessaria opera di fraternizzazione con acqua fresca e sapone.

I pantaloni richiedevano quotidiane toppe atte a nascondere i vistosi strappi prodotti in particolar modo sulle ginocchia.

Viveva tutto il giorno per le strade scorrazzando senza posa in compagnia di amici buontemponi come lui, provando una gioia indescrivibile  nell’arrampicarsi  sugli  alberi  come  gli scoiattoli,  per poi guadagnare improvvisamente  il  suolo spaventando con un grido selvaggio la vittima designata.

D’altra parte la sua casa, composta da quattro minuscole stanze, non avrebbe potuto sopportare a lungo l’incontenibile esuberanza di quel discolo artefice di scherzi e dispetti.

Farfariello era l’ultimo di otto fratelli, con cui divideva il letto, il cibo, le sgridate e le cure dei genitori. Forse non aveva niente di completamente proprio in quella casa che accoglieva tante persone: dai fratelli ereditava i vestiti, le scarpe e la biancheria;  da neonato non aveva potuto avere neppure la madre tutta per sé, dal momento che era stato costretto a dividerne le premure con una sorella gemella.

Ancor piccolo, era presto diventato la disperazione ed al tempo stesso il trastullo dei fratelli che immancabilmente coinvolgeva nelle sue malefatte. 

Un giorno, per celebrarne le gloriose gesta, lo avevano ribattezzato, cancellando dal lessico familiare il suo vero nome e privilegiandone uno più adatto a lui. Così parenti ed amici lo avevano chiamato Farfariello, dimenticandone addirittura il  nome ufficiale.

I compagni di gioco, per indispettirlo, talvolta lo scimmiottavano cantilenando in rima:

“Farfariello, Farfariello! Sei più sfaccìm du munaciello!”

E lui, sempre pronto, in risposta, soccorso dall’ausilio dell’inventiva del fratello Silverio:

“Ma se fossi Astaròtte, impazzerei per l’intera notte. Per non dir diCalcabrina, che porta in casa la rovina”.

Era fiero di portare il nome di una creatura infernale. Ciò gli attribuiva vanto e lustro; quella scaltra genialità si manifestava in tutta la diabolica astuzia quando ordiva scherzi ai danni della sorella e delle  cugine più paurose, le quali, nell’andare  a  letto, con vivo disappunto  ritrovavano,  avvolte accuratamente nelle loro camicie da notte, farfalle prigioniere, cavallette impazzite e cicale disperate.

Al loro  sobbalzo improvviso, Farfariello rideva divertito sino alle  lacrime, progettando in cuor suo nuove e più audaci “ribalderie”.

Anche gli animali della casa e del circondario subivano gli effetti della sua mano sempre operosa e disturbatrice: ne venivano colpiti soprattutto i gatti, eternamente bersagliati da  ogni genere di rappresaglie.

Tutti ricordano l’inerme Mustafà che fuggiva all’impazzata lungo la strada alla vana ricerca di un riparo, mentre dall’estremità della coda imprigionata in un barattolo di latta si levavano scintille e scoppi di mortaretti.

Farfariello non era un bambino crudele, ma un impenitente giocherellone, a volte anche un po’ ingenuo e credulone, che riduceva in burla ogni avvenimento. Lo dimostravano alcuni episodi della sua vita, divenuti ben presto memorabili in famiglia.

A questo proposito, La madre ricordava sorridendo quando, avendo udito nel cuore della notte strani rumori nella camera dei ragazzi, lo aveva sorpreso nel momento in cui di soppiatto stava sgattaiolando dalla stanza per recarsi nell’orto con una paletta ed una candela accesa in mano.

Sbalordita, lo aveva seguito mentre lui, cantando sottovoce per vincere la paura, aveva preso a scavare con zelo e vigore. Interrogato, aveva risposto con aria grave che stava cercando il tesoro di cui gli aveva parlato il nonno Liberato, un autentico colpo grosso! Era costituito da chili di marenghi d’oro ed era sepolto ai piedi del ciliegio, proprio dove egli aveva iniziato lo scavo. 

Tuttavia avrebbe dovuto trovarlo al buio, senza rivelarne ad alcuno il nascondiglio, glielo aveva assicurato il nonno; invece l’insaziabile  curiosità della mamma aveva rovinato  tutto sottraendo alla famiglia l’insperata fortuna.

Poi, piangendo se ne era ritornato a letto, né erano valse le parole della donna a consolarlo.

A scuola Farfariello dominava la situazione da capo istrione, riscuotendo il plauso e l’ammirazione incondizionata dei compagni e il disappunto del maestro.

L’uomo, ormai privo di entusiasmo e precocemente invecchiato sui banchi di scuola, disdegnava la fanciullesca e baldanzosa esuberanza degli alunni, osteggiandone la vitalità. Si limitava a svolgere il proprio lavoro passivamente, opponendosi con durezza ad ogni ventata innovatrice di gaiezza.

Riteneva Farfariello il sobillatore dei compagni e l’artefice di ogni maleficio; poiché costui ne ignorava accuratamente i rimproveri e le ammonizioni, più volte invocò l’intervento punitore e redentore dei genitori; ma si trattò di un rimedio vano:

le burle, le risate, gli scherzi si moltiplicavano ai suoi danni, certamente alimentati dall’austera e buffa intransigenza con cui lo stanco pedagogo li accoglieva. 

Gli alunni, sempre solidali con Farfariello, avevano imparato a motteggiare in rima, né mai gli permisero di individuare la fonte di quel sibilo acuto di serpente emesso con singolare maestria a bocca chiusa, che nei momenti cruciali di ogni lezione si diffondeva libero nell’aula, sfidando impunemente l’autorità dell’insegnante.

Questi, per nulla impressionato dal  palese dissenso che poteva leggere sui volti degli scolari, esasperato, spesso allontanava dalla classe il monello per eccellenza, relegandolo in un angolo solitario del corridoio. Tuttavia neppure questa severa sanzione riusciva ad umiliare il recidivo, ponendo un freno alla sua vulcanica fantasia.

Tina Mazzella

(Continua)

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