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Il Diario del Nonno (7)

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di Martina Carannante

 

Da: “Diario d’una missione. La mia Odissea di circa 72 ore faccia a faccia con la morte” di Aldo Mazzella

Per le puntate precedenti, digitare: Diario del Nonno – nel riquadro in basso a sin. del frontespizio: “CERCA NEL SITO”

 

Forse era la disperazione, l’impotenza a poter tentare qualunque mezzo di evasione, oppure il pensare ai miei cari che mi inteneriva l’anima mentre le lacrime uscivano dai miei occhi.

Mi guardai intorno, disperato, in cerca di qualche cosa… Rimasi annichilito, tutti smaniavano e piangevano, anche essi erano creature come me e la pensavano come me; avevano quasi tutti aspetti demoniaci, con barbe lunghe, capelli arruffati, occhi stravolti e bocche spalancate, tra lacrime e sudore, tormenti e dolori si cercava un punto di conforto che avesse pietà di noi. Chi tirava pugni su di sé come per scacciare qualcosa di malefico, chi congiungeva le mani in atto di preghiera per implorare un aiuto, un perdono; chi balbettava parole incomprensibili.

Pensai: “Tra poco saremo tutti pazzi”.

Mi vergognavo nel vedere le facce smorfiose dei miei compagni, poi pensai che forse la mia doveva essere ancora peggio; mi coprì la faccia con entrambi le mani, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Caddi in una specie di dormiveglia, immaginai l’Iride come un sommergibile di morti, tutti gli uomini morti ai propri posti, che sprofondava nell’abisso, si riempiva d’acqua… Moriva l’Iride come tutti i suoi uomini. Il fondale diventava un grande cimitero, navi di tutti i tempi appoggiate sul fianco riposavano lì come tutti i marinai. Non portano croci alle loro teste, non hanno altarini, né lumini accesi, non hanno lapidi a coprirli, ma solo una vasta distesa azzurra… […]

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Rinvenni. Mi resi conto di aver vagato tanto con la mente fissando una lampadina con la luce accesa, tutti i miei compagni smaniosi erano ancora lì, non eravamo ancora morti. Pensai alla lampadina, alla luce del sole che non vediamo da tanti giorni, dove c’è sole c’è vita. All’improvviso fui chiamato, anzi scosso dal Direttore di macchina che mi disse: “Svegliati! Cerca di capire, non abbandonare la vita, bisogna battersi fino all’ultimo… fino all’ultimo! Finché c’è vita c’è sempre speranza! Vai a prendere la tua maschera di profondità e recati in camera motori. Aspetta lì”.

Ubbidii ma non capivo a che pro dovevo prendere la maschera. Mentre la tiravo fuori dal mio stipetto, barcollando peggio di un ubriaco, sentivo la notizia: “Se ci riesce questo tentativo forse saremo salvi!” aveva detto il direttore di macchina al comandante, il quale aveva risposto: “Tentiamo tutto per la nostra salvezza e facciamo la cosa con criterio”.

La notizia subito si propagò. Quasi subito si ottenne un risveglio generale, la speranza tornava in noi come uscendo da un lungo letargo.

Io tornai in me, nello stesso momento cominciai ad avvertire tutte le mie forze. Presi la maschera e mi recai in sala motori; lì c’erano altri due meccanici con le maschere.

Mentre il comandante fa avanzare i motori elettrici, inizia una escursione per il fondo. Il nemico ci seguiva dalla superficie. Dopo una breve attesa venne il signor Teruzzi che ci diede alcune spiegazioni: Operazioni sottostanti alla macchina dopo il suo segnale. Ci aiutò ad applicare le maschere (speciali per il fondo marino: si componevano di un piccolo morsetto applicato al naso per chiudere bene le narici, due tacchettini di gomma che fan presa tra gli angoli delle labbra e i denti in modo che la bocca è la sola a respirare). La maschera chiude ermeticamente tutto il volto, un tubo di gomma che parte dai tacchetti (che fanno presa in bocca) va ad un mantice di gomma che viene situato attraverso cinte intorno al torace; un altro tubicino di gomma parte dalla parte posteriore del mantice (che fungerà da polmone artificiale) e va ad una piccola bomboletta (carica di ossigeno, che dura circa tre ore) della capacità di un litro. Per mettermi la maschera dovetti stare alcuni secondi senza respirare, mi sentii venir meno, accasciandomi sulle gambe. Appena terminata l’operazione e iniziata la respirazione dalla bomboletta avvertii un sollievo straordinario: nelle varie esercitazione fatte, la maschera mi aveva dato sempre gran fastidio, questa volta fu un sollievo. Così mascherati scendemmo in un locale sottostante alla macchina, io andai diretto al “volantino” assegnato, e i miei compagni uguale; attendemmo l’ordine che non tardò a venire. Alle prime bombe che avvertimmo in nostra vicinanza il comandate avvertì il Direttore ed egli, a sua volta, noi. Aprimmo subito le valvole. La nafta più leggera dell’acqua esce dalle valvole superiori del serbatoio, l’acqua entra nelle valvole inferiori al serbatoio, così vuotammo circa tre tonnellate di nafta incamerando contemporaneamente acqua di mare, per mantenere l’equilibrio di assetto del battello.

Fatta l’operazione la nafta andò in superficie, contemporaneamente il comandante che aveva portato il battello a quota 40 metri, lo fece tuffare giù con qualche colpo d’elica, planando con i timoni orizzontali ad una inclinazione fino a 90-100 metri di profondità.

Non avevamo terminato ancora la nostra fuga sottomarina che sentimmo dietro di noi quattro forti esplosioni, che ci diedero una scossa terribile. Poi più nulla.

Restammo tutti lì sospesi dall’ansia nel più profondo silenzio ad attendere l’esito della nostra mossa, che non tardò a venire. Per dieci minuti la nave di superficie aveva navigato in tutte le direzione e poi se n’era andata. Man mano che si allontanavano l’idrofonista li segnalava. In ognuno di noi ritornava la speranza, sentivamo una gioia dell’anima ma non avevamo la forza per manifestarla, nemmeno attraverso gli occhi che rimasero immutati.

 

Trascorse ancora circa un ora perché i caccia si allontanassero, poi il comandante ordinò: “Quota periscopica!”

Una leggera esplorazione attraverso quell’occhio infine aria in tutte le casse. Un leggero dondolio venne ad annunciarci che eravamo in superficie. Subito il nostromo si arrampicò per la torretta e ben presto fu in alto, girò un volantino e sollevò un coperchio. Folate d’aria fresca vennero ad accarezzare le nostre gote, le bocche si spalancarono. Lunghe respirazioni a pieni polmoni! Solo allora mi tolsi la maschera, che ormai mi faceva piacere, ma ora non so dire il sollievo che provai a respirare la prima boccata d’aria pura e fresca.

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Trascritto da Martina Carannante

 

[Il Diario del Nonno (7) – Continua]