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Ianara (3)

[1]

di Tina Mazzella

Per la puntata precedente, leggi qui [2]

 

Solo a tarda sera, quando le luci delle case si spegnevano, le porte si chiudevano e le strade diventavano deserte, la Ianara ripercorreva il sentiero che conduceva sulla collina: a quell’ora anche Giovanni dormiva. Si avvicinava alla casa in punta di piedi, spingeva piano l’uscio appena accostato, nel buio cercava a tentoni il tavolo su cui l’attendeva il piatto di minestra ormai fredda e, dopo averla ingollata, si raggomitolava sulla cassa  della cucina e si addormentava, per risvegliarsi con un sobbalzo ai primi canti dei galli.

Da tempo non osava varcare la soglia della camera da letto e con ogni stratagemma cercava di sfuggire al marito. Se le capitava di incontrarlo, si sentiva perduta, come una bestia braccata ed il cuore prendeva a batterle furiosamente.

Dal canto suo, egli, impotente e rassegnato, assisteva alla rovina della propria famiglia. A volte odiava quella donna che, dopo avergli negato tutto, lo ricopriva di infamia e di vergogna; a volte invece, provava una profonda pena per lei e per il destino di entrambi. Certo, Anna gli aveva fatto del male, lo feriva in ogni istante del giorno e della notte, era stata un’ingrata, ma non sapeva dire se fosse davvero una ianara, come tutti sostenevano. Lui no, non ne era del tutto sicuro. Spesso si chiedeva se quegli atteggiamenti inconsueti e stravaganti non dipendessero da cause oscure e sconosciute.

Quale nome avrebbe potuto avere la forza che la agitava, la malattia che come una febbre, la divorava e ne stigmatizzava la  diversità?

Possibile che non esistesse alcun rimedio per guarirla?

Una notte volle sorprendere Anna nel sonno; volle “spiare” quel perfido corpo stregato. Lentamente, coprendo con la mano la lucerna, si avvicinò alla cassa su cui la moglie giaceva. Così raggomitolata, sembrava molto piccola, una bambina tranquilla: le membra abbandonate riposavano immobili; il viso era sereno ed aveva assunto un’espressione dolce, quasi indifesa. La guardò a lungo, era così minuta! Quale segreto potevano custodire le lunghe ciglia nere che imprigionavano quegli occhi folli di maliarda? Con le dita tremanti la sfiorò appena. Quel contatto, quel calore, gli trasmisero un brivido di tenerezza, e, senza saperlo, senza volerlo, sentì che gli occhi gli si inumidivano. In quel momento seppe che la moglie non era una ianara. Poi sconsolato se ne ritornò a letto.

Improvvisamente i lunghi vagabondaggi della donna per il paese cessarono e la gente se ne chiese la ragione. In verità neppure Anna conosceva il motivo che un giorno l’aveva indotta a cambiare strada. Forse un tenue barlume di razionalità l’aveva avvertita dell’inutilità della propria ricerca. Spinta da tale consapevolezza, si era incamminata attraverso gli impervi sentieri che costeggiavano lateralmente la collina. Erano malagevoli e faticosi, ma le regalavano una nuova libertà, poiché le davano la possibilità di procedere per lunghe ore senza incontrare anima viva.

Al termine di un viottolo sassoso, aveva scoperto un angolino remoto tutto per sé: era un piccolo spazio circolare, limitato da una siepe di fichi d’India che, sebbene le loro foglie spinose ne rendessero difficile l’accesso, lei era riuscita ugualmente ad occupare.

Pur di penetrarvi, sopportava volentieri gli spini che le si conficcavano nella pelle. Quell’angolo era il suo vero rifugio, poiché la proteggeva dagli occhi malevoli e curiosi della gente e placava le sue paure di donna perseguitata. Vi trascorreva lunghe ore seduta sulle pietre, mentre i pensieri vagabondavano smarriti.

Non vi giungevano voci umane, ma poteva udire il fremito delle foglie, il cinguettio dei passeri ed il monotono frinire delle cicale. Ascoltava lo stridio dei grilli e, quando il loro coro si levava più forte ed acuto, diffondendosi in tutte le direzioni, Anna capiva che era scesa la sera e senza fretta si avviava verso casa.

A volte, ripercorrendo a ritroso i sentieri, si univa al canto dei grilli, perché si sentiva viva come la natura che la circondava. Strappava le foglie delle canne e, dopo averle arrotolate con cura, ne faceva uno strumento musicale, in cui si dilettava a soffiare. Ne scaturiva un suono lamentoso, una nenia  orientale e monotona, modulata esclusivamente su un’unica nota.  Tuttavia  la  Ianara non sempre rincasava ogni  sera. Le piaceva dormire all’aperto; si appisolava lungo i sentieri, nelle grotte  abbandonate, o trovava asilo in qualche antico pollaio. Non temeva il buio della notte: le erano compagne la luna e le stelle e, in loro assenza, il lontano abbaiare dei cani e qualche lucciola sperduta.

Intanto  anche quell’anno incedeva l’Autunno. La donna ne avvertiva la presenza osservando le foglie degli alberi ormai ingiallite e rabbrividendo al soffio gelido del  Maestrale, che increspava  il mare. Si rattristava al pensiero che le interminabili piogge  l’avrebbero costretta ad abbandonare quell’oasi di tranquillità. In quei giorni si mostrò  molto irrequieta e la sua ansietà crebbe, quando sul paese si abbatterono i primi temporali: i lampi e i tuoni che squassavano il cielo la rendevano più cupa ed irritabile. Guardava con terrore il vento, che scuoteva gli alberi o la pioggia che cadeva benefica sulla campagna riarsa. La pioggia, il vento, i fulmini e la grandine, come già gli uomini, le erano ostili e la perseguitavano, poiché la relegavano lontano dall’unico lembo  di mondo che l’aveva accolta benevolmente.

Fu appunto in un giorno di tempesta che Anna ricordò la chiave dell’orto. Dov’era? Dove l’aveva perduta? Senz’altro avrebbe dovuto trovarla se avesse voluto riconquistare Giovanni. Perciò, sfidando la furia della pioggia che scrosciava a dirotto, discese la collina.

Le strade si erano trasformate in torrenti d’acqua e di fango ed il vento fischiava lugubre e sinistro. La donna arrivò ai gradini che conducevano all’orto, ma, per raggiungerlo avrebbe dovuto attraversare il Canalone, lungo le cui sponde sorgevano in posizione sopraelevata vigneti e  giardini. Esso, nei periodi di siccità, era completamente asciutto e costituiva la via d’accesso ai minuscoli appezzamenti di terreno ed alla spiaggia. Al contrario, nella stagione delle piogge, diveniva un vero e proprio torrente, che scorreva impetuoso, raccogliendo le acque dei pendii per condurle al mare.

Quando Anna vi arrivò, era gonfio e rumoreggiava minaccioso. Tuttavia non provò alcuna esitazione, nessuno l’avrebbe fermata e d’altra parte, una ianara come lei che cosa poteva temere? Scese quindi i gradini, offrendo l’esile corpo alla corrente. L’acqua – ‘u lavo’ – la spinse, la fece barcollare, la travolse, la confuse con i massi e gli altri oggetti inutili che trascinava verso il mare; la portò lontano.

Il giorno seguente ritrovarono il suo corpo senza vita su una spiaggia poco distante. Il mare pietosamente lo aveva restituito.

 

Convocato dai Carabinieri, Giovanni accorse e riconobbe Anna. Ne scrutò tremante il viso gonfio e tumefatto; negli occhi sbarrati lesse il terrore  di  morire. Per sempre ricordò l’espressione terribile di quegli occhi che lo accusavano, e forse lo condannavano, per non averla saputa amare.

Non la seppellirono nella terra consacrata, perché era una ianara e per giunta era morta suicida, mentre si recava ad un convegno con il Diavolo.

In paese si parlò molto di  lei: Anna divenne la strega malvagia delle fiabe narrate ai piccoli.

 

Un tempo ormai lontano, durante le fredde notti d’inverno, porte e finestre venivano sbarrate da un lungo sacco di sabbia, per impedire alla Ianara che urlava nel vento di introdursi nelle camere addormentate per rendere deformi grandi e piccini con i suoi diabolici malefici. Un’antica tradizione voleva che ogni anno la vigilia di San Giovanni tutte le famiglie si ritrovassero dopo il tramonto sulla spiaggia a raccogliere la sabbia per imbottirvi i renaioli.

Così riunite, rivolgevano al Santo la stessa comune preghiera, raccomandandogli di proteggere la loro abitazione dai perfidi influssi della Ianara.

 

Tina Mazzella

[Ianara. (3) –  Fine]