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Il mio “Adespota”

[1]

di Vincenzo Ambrosino

 

“Mi raccomando sei stato invitato ufficialmente, non fare come al solito che non vieni ci tengo alla tua presenza”

 

Ma come fai a sedermi accanto quando hai scritto questi versi?

Ma come fai a camminarmi a fianco quando conosci queste accelerazioni?

Ma come fai a chiedermi di salire a casa tua quando abiti cosi in alto?

E poi abbiamo bevuto dallo stesso bicchiere, ascoltato la stessa musica, attraversato gli stessi sogni.

Ma dove eri quando pisciavamo dallo stesso muro?

Ma cosa facevi quando eravamo in trincea a difenderci dalla stessa noia?

Ma come hai fatto a nascondere il nettare di queste melodie, quando si alzava la voce affinché il silenzio non si rilevasse.

Cristo ma chi sei?

Io ho conosciuto il passare del tuo tempo.

Io sono stato accanto alle tue ossa ma non ho conosciuto il fantasma che era in te.

Fantasma che rideva di me, che mi saltellava intorno e forse mi diceva: “Un giorno piccolo amico mi rivelerò e tu rimarrai a tossire anni lontani con visioni surreali”.

Da domani voglio osservarti meglio, voglio cedere alla curiosità di rivederti bambino.

Voglio ripercorrere la nostra storia e da dietro alla porta del tuo rifugio, voglio scoprire dove nascondi il tuo diario. Il tuo diario deve essere uno scrigno magico,

Voglio togliere la polvere ai tuoi ricordi sparsi in quella stanza.

Voglio risentire i tuoi vecchi 33 giri, chissà se funzionerà ancora il tuo giradischi.

Voglio rileggere i tuoi libri e ricopiarmi tutte le sottolineature.

Voglio comprendere le emozioni che ti hanno elevato dal mio sotterraneo.

Voglio sfogliare i tuoi quaderni dove appuntavi le tue speranze e rivedere la tua barocca scrittura, con penne colorate, perché quei colori diversi, oggi li ritrovo in questi arcobaleni di parole.

Voglio assaporare l’amaro della tua solitudine, che è stata il propulsore alle tue fughe e attingere dai tuoi ritorni la linfa vitale per questi versi.

Certo le emozioni non si possono toccare ed è questo che non si può capire e che io non ho capito.

Abbiamo visto gli stessi cieli, riscaldati allo stesso sole, sognato la stessa luna, tuffati allo stesso mare, calpestato la stessa terra, partiti con la stessa nave, rincorso lo stesso treno, fatto lo stesso autostop, perso lo stesso autobus: ma non è stato questo a ritrovarci diversi.

Infatti basta un attimo, una distrazione e ci si ritrova diversi.

 

E tu sei partito, ed hai comprato un nuovo libro. L’hai letto in un deserto pieno di sole e poi hai fotografato un bambino in un mercato turco, ti sei perduto seguendo la voce di una donna araba e ti sei imbarcato in viaggi mediterranei, in terre che ti hanno fatto comprendere i tuoi percorsi.

 

Qui, vicino a me, non potevi comprendere: che ognuno di noi è un’isola alla deriva, impossibile da capire, da fermare, da imprigionare.

 

E così sei salito su scalinate bianche e hai trovato chiese e preghiere diverse, cori antichi e nuovi si sono mescolati a sorrisi di donne, coperte da veli di diverse religioni.

Quello che non hai potuto toccare con le tue mani e assaporare con la tua bocca l’hai cercato nelle letture e hai flagellato il tuo animo fino a farlo diventare parole e versi.

Hai scoperto distese bianche di neve e dietro fiordi come mostri hai trovato non la morte ma la resurrezione in trecce bionde e ti sei perduto in occhi azzurri.

Hai capito che a qualunque latitudine tu possa scappare troverai un’orma della tua essenza di uomo, perché tu hai imparato a leggere tra la polvere, tra la neve, tra le nuvole, tra i raggi del sole e in un amplesso di una donna sconosciuta ti sei riportato indietro nel tempo: tra le braccia di tua madre, nella tua casa, nella tua isola, nella tua stanza, sul tuo letto, sul tuo cuscino dove hai ritrovato i tuoi sogni.

Ma non basta, hai torchiato il tuo passato, hai ingoiato lacrime di delusioni, hai spaccato la pietra del tuo orgoglio, ti sei immerso nell’inchiostro della paura, sei uscito indenne dal turbine della confusione, hai strappato migliaia di fogli che rimanevano candidi, torturato centinaia di libri, interrogato decine di specchi che riflettevano ogni giorno una ruga di più.

 

Ecco, adesso ti vedo e beviamo tranquillamente al bar, tu telefoni con un oggetto che posso toccare e parli con una voce che riconosco e gesticoli con l’altra mano con cinque dita e poi mi guardi e mi sorridi come una volta e poi mi metti la mano sulla spalla e mi dici:

“Non ti preoccupare di niente, tu hai una famiglia!”

 

Vincenzo Ambrosino

 

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