di Lino Catello Pagano
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Passarono quattro anni e la mia società m’incaricò di ritornare in Sierra Leone per chiudere il conto in banca, intestato a me. Rientrai in Sierra Leone con il terrore nel cuore: la guerra non era finita, c’erano i caschi blu dell’ONU, mi venne a prendere all’aeroporto un ragazzo sardo che era sposato con una ragazza di Freetown, mi accompagnò nella Guest House della Salini; mi rilassai, mi disse di non uscire ché sarebbe venuto lui, assieme ad un amico, a riprendermi. Attesi che arrivassero per andare a cena; quando sentii la vettura arrivare, vidi scendere Bepi e il mio amico sardo, ci abbracciammo e tante furono le pacche sulle spalle, sembrava che fossimo fratelli che non si vedevano da anni.
Cenammo a casa di Graziano, il ragazzo sardo, una cena da favola a base di pesce e granchi, mangiai tutto e tutto era buonissimo, passai la notte tra zanzare e moscerini scoccianti ma avevo l’antizanzare e in più mi ero portato l’estratto di gerani, che misi sul cuscino e nel letto. Dormii bene, il giorno seguente con Graziano andai in banca a estinguere il conto, feci un transfer sul conto della società di Milano, tenni pochi soldi per me, per darli ai ragazzi che sarei andato a trovare nel pomeriggio con Bepi, alla casa del fanciullo.
Rientrai per il pranzo in Guest House, mi appoggiai sul letto, quando il clacson della macchina che era venuta a prendermi mi fece alzare di scatto e uscire: era arrivato il momento di visitare i ragazzi. Bepi mi preparò, mi disse che avrei rivisto parecchi dei miei ragazzi di Bumabuna in condizioni non buone.
Non vi racconto cosa ho visto; ancora oggi, mentre scrivo, i miei occhi sono pieni di lacrime per l’orrore che la guerra ha lasciato sulla pelle di quei bravi ragazzi. Non ritrovai Cristian e neppure Moussa; erano stati uccisi per difendere le loro famiglie.
Lasciai quel posto con il cuore a pezzi, diedi circa 4000 euro da dividere anche con le mogli di Moussa e di Cristian, che aiutassero a far crescere i loro bambini.
Per me la Sierra Leone è stata una lezione di vita che dura ancora oggi, e vorrei ringraziare in primis Padre Berton detto Bepi, la dottoressa Ada Merolle, tropicalista, il dottor Anuci di Bumbuna e tutti quelli che con me hanno vissuto la disperazione della Sierra Leone.
Ad un uomo grande come Padre Giuseppe Berton va il mio ringraziamento più sentito per quello che fa per i ragazzi e le ragazze senza famiglia in Sierra Leone.
Il Cotton Tree – Ceiba pentandra o Kapok, della famiglia delle malvaceae – è il maestoso albero simbolo della città, attorno al quale fu costruito il primo insediamento oltre due secoli fa; la pianta dovrebbe avere almeno cinquecento anni ed è abitata da una nutrita colonia di pipistrelli, che sono anche gli impollinatori dei fiori dell’albero. Dal seme si ricava il kapok, una fibra leggerissima utilizzata nell’industria tessile. L’albero fu individuato per la prima volta nel 1792, quando gli ex-schiavi dalle americhe sbarcarono sulle coste atlantiche della Sierra Leone, e camminarono fin sotto il grande albero per celebrare una Messa di ringraziamento. Oggi questo meraviglioso albero, colpisce per la sua grande mole, stretta dal cemento e dal traffico caotico della capitale, ma che da una maestosità unica al centro storico di Freetown.
Il 27 aprile del 2011, la “marcia della pace” è cominciata proprio da sotto il Cotton Tree, l’albero simbolo della città. Cristiani e musulmani, insieme, hanno attraversato Freetown in un giorno speciale, a 50 anni esatti dall’indipendenza dalla Gran Bretagna (NdR).
Lino Catello Pagano
[Per la serie “Ponzesi che viaggiano”. I miei ricordi. In Sierra Leone (4) – Fine]