Racconti

Controra

di Dante Taddia

Dall’Africa lontana, dove si trova per lavoro, “Dante non dimentica” e ci invia dei brevi raccontini che faranno parte di un suo libro di prossima pubblicazione “Andavamo alla Caletta…”, sugli anni indimenticabili di una giovinezza condivisa

Ecco il primo, in attesa di riaverlo presto tra noi

La Redazione

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Lunghe interminabili giornate estive che duravano quattordici ore di giochi e il rimanente – solo qualche ora stirata però – da dedicare al riposo notturno e a quell’incubo del riposino pomeridiano, vero dramma estivo.

Quest’ultimo si poteva certe volte anche sopportare e maggiormente quando, dopo una lunga tiritera che aveva sempre il sapore di un negoziato al ribasso e con qualche pianto cui aveva fatto da condimento un buffetto di convincimento parentale, si era poi travolti dalla stanchezza e, complice il caldo, si cedeva nella fresca penombra della stanza al sonnellino ristoratore…  che lo era soprattutto per i genitori….

Ogni scusa era buona però per non dormire, nel pomeriggio.

Allora i poveri genitori, stremati dal caldo e dalla lunga battaglia del sonnellino che dovevano ogni giorno affrontare con i figli, la cui origine forse si perde nella notte dei tempi, anzi nel pomeriggio dei tempi, introdussero la leggenda della Controra.

“Controra è una donna vecchia… e vestita di nero come tutte le vecchie… e con un grande fazzoletto in testa. Anch’esso nero…Il fazzoletto nero le incornicia i capelli bianchi… E questi sono arruffati, le escono dai lati del fazzoletto… Ha una grande sporta sottobraccio… e un bastone per appoggiarsi…”

E la sospensione introdotta ad arte nel racconto accresceva la tensione nei bambini.

“Ebbene…” – e queste parole erano scandite molto lentamente, con studiata esitazione – “Controra gira di giorno, anzi, nel primo pomeriggio dalle 2 circa fino alle 4 per controllare che i bambini, e anche i grandi però, facciano il riposo pomeridiano, e questo perché non vuole essere disturbata da schiamazzi e rumori dato che deve occuparsi di sistemare le sue cose”.

Che cosa siano poi le sue cose non è dato sapere con certezza ma sicuramente debbono essere molto importanti per richiedere tanto silenzio e concentrazione.

“E se… uno… non… dorme…”? – Faceva immancabilmente il bambino.

“Se… se…se uno non dorme, Controra passa quasi sfiorando il pavimento per non fare rumore e se lo porta via per farlo lavorare nei suoi campi a raccogliere le more tra i rovi spinosi. Con queste more e con altra frutta Controra prepara buonissime marmellate. Ma ai bambini che hanno lavorato perché non dormono il pomeriggio la marmellata non la fa neanche assaggiare! E fino a che non hanno raccolto tutte le more non possono più vedere né papà né mamma e poi non vanno più al mare a fare il bagno e a divertirsi con gli altri bambini, a fare i tuffi”.

L’avevo sentita la leggenda, più o meno arrangiata, forse non proprio così, ma sicuramente non pensavo fosse così radicata negli isolani e soprattutto nei bambini.

Anche se sapevano che era una favola ne erano comunque atterriti e forse ci scherzavano sopra per un innato senso di sdrammatizzare le cose o addirittura per spaventare i più piccolini e creduloni e farsi così grandi ai loro occhi.

E un giorno, di un lontano luglio di solleone che picchiava più del solito, erano circa le 14 o poco più, dopo una giornata di mare e pesca, di lunga scarpinata su scale ancora più assolate e deserte, assetato quasi allo spasimo, sento alle mie spalle un ticchettio appena accennato di un bastone e un passo lieve.

Una figura tutta nera, col suo bravo fazzoletto nero dai cui lati sbuffano ciocche di capelli bianchi, legato sotto al collo, leggermente curva per il peso degli anni e della borsa piena di frutta e more, ma ancora svelta su gambe magre e ancora ben salde, mi appare …

È lei …E’ per tutti  Zia Amelia, Amelia Coppa.

Ma per me è rimasta sempre Controra e nel mio ricordo credo sia solo e unicamente lei la vera Controra.

L’età non la conosceva nessuno, era sempre stata così anche da giovane dicevano, anche se nessuno la ricordava giovane. Sempre vestita di nero e con la sua inseparabile sporta.

“Uaglio’ – mi fa indicandomi col suo bastone, dritto verso il mio petto – è tarde…, ’u sole coce… e ttu stai ancora ccà. Vattenne ‘a casa, ampresse, vattenne ‘a casa a te rrepusa’…”.

Per quella volta ero salvo. Mi aveva solo avvisato, ho continuato così a poter andare al mare e non ho dovuto raccogliere le more tra i rovi.

Avevo 25 anni, ma a quelle sue parole un brivido… fresco mi era comunque corso sulla schiena.

Dante Taddia

[Dal libro di prossima pubblicazione “Andavamo alla caletta”. 1 – Continua]

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