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Tifone, di Joseph Conrad (3)

di Gianni Paglieri

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Il Tifone rappresenta il precipitare degli avvenimenti attorno all’uomo. Per il Comandante Mac Whirr non è che una tempesta a carattere rotatorio. Per Jukes, e per tutti gli altri membri dell’equipaggio, è un qualcosa di terribile e di incontrollabile che si insinua dentro di loro e li scuote fino a distruggerli. Il tifone offre a Conrad l’occasione per esprimere la sua concezione della vita che egli vede come il caos davanti al quale l’uomo è come una fragile barchetta in un mare agitato. La possibilità di riscatto si può trovare soltanto nell’agire ed infatti il capitano non si lascia sopraffare dagli eventi e condurrà la nave in porto.

La nave – il Nan-Shan, “costruita a Dumbarton meno di tre anni prima, per conto di un’agenzia commerciale del Siam…” – rappresenta le battaglie che l’uomo deve combattere. La sconfitta è il naufragio ma questo non accadrà e arriverà in porto perché ognuno avrà vinto le proprie insicurezze e debolezze.

La Signora Mac Whirr è  “…un tipino pretenzioso dal collo sottile e dai modi sprezzanti, era considerata da tutti una vera dama, e nel vicinato passava per “una donna di classe”. L’unico segreto della sua vita era la paura folle del giorno in cui suo marito sarebbe tornato a casa per rimanervi per sempre… i figli conoscevano poco il padre, e tutto sommato, lo consideravano una specie di ospite raro ma di riguardo che una sera ogni tanto fumava la pipa in sala da pranzo e dormiva in casa….il Capitano Mac Whirr scriveva a casa dodici volte all’anno, esprimendo il vago desiderio di “essere ricordato ai bambini” e firmandosi “il tuo affezionatissimo marito”…

A lei il Capitano Mac Whirr scriveva lettere lunghissime che “…si aprivano con le parole “Mia cara moglie”…e interessavano forse più lui che la donna ai cui occhi erano destinate”… La personalità del Capitano, ferma ed umana, e quella della moglie svagata e cinica, rendono molto bene il contrasto tra l’uomo che vive sul mare, ogni giorno a contatto con i più genuini istinti, e la gente di terra, schiava delle abitudini di ogni giorno.

Anche Solomon Rout scriveva lettere e…“alla moglie il suo stile piaceva moltissimo. Non avevano figli, quei due, e la signora Rout, una donna sulla quarantina, robusta, alta di petto e allegra … leggeva la sua corrispondenza durante la prima colazione, con i suoi occhi vivaci, e con voce festosa declamava i passi più interessanti …”

***

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Nella tempesta il Comandante sta sul ponte di comando, perché quello è il posto dove deve stare. Dal ponte di Comando controlla la nave e la sua rotta: regola la velocità, assume la rotta più conveniente rispetto alla direzione del mare e del vento, valuta le onde, il loro impatto sulla nave, si mantiene in contatto con la sala macchine… In simili circostanze si dice che il Comandante è ‘in comando sul ponte’…

Nello svolgersi della tempesta è pronto a fronteggiare l’insorgere di una qualsiasi emergenza ma sa anche che il vero rischio che corre è che la tempesta possa irrompere nel suo cuore fino a far prevalere la paura di perdersi. La tempesta può durare giorni e giorni e poco alla volta può demolire il muro delle certezze sulle quali il Comandante basa la sua resistenza. Si comincia a essere contenti di avere qualcuno vicino… fosse pure il timoniere, o la vedetta, o l’Ufficiale di guardia, con il quale scambiare qualche parola e non soltanto ordini. La tempesta fa rumore e il suo rumore continuo, cupo, procura disagio. Può accadere che il Comandante sia costretto a mangiare e dormire sul ponte di comando, mentre le guardie si succedono ogni quattro ore e con il loro alternarsi scandiscono il lento trascorrere del tempo. Sul ponte si sta come si può, appoggiati ai finestrini, le gambe larghe per mantenersi in equilibrio nel rollio e nel beccheggio; finché il chiarore del giorno lo permette si tengono d’occhio le onde che col giungere della notte non si vedono più e il loro effetto si avverte col corpo,  che diventa una cosa sola con la nave. Si “sentono” le vibrazioni, il rollio e il beccheggio, si sente lo sforzo dello scafo che si scrolla di dosso la montagna d’acqua che l’ha sommerso.

Quando il beccheggio si fa più ampio, la nave sembra precipitare in un abisso senza fondo ed è con sollievo che si avverte lo scafo tornare verso l’alto. Quando si affronta un’onda più alta delle altre ci si domanda se ce ne sarà un’altra ancora più alta.

[2]

Si leggono i bollettini, si esaminano le carte meteo, ma a volte le depressioni in oceano hanno raggi anche superiori alle mille miglia e per trovare di nuovo ‘tempo maneggevole’ devono passare molti giorni.

Non si ha molta voglia di parlare, sul ponte, quando c’è tempesta. Si preferisce pensare e il pensiero corre alla propria casa, ai propri cari, ai punti fermi che danno un senso al navigare. In tal modo, il tempo sembra trascorrere più veloce e la tempesta più lontana, ci si distrae e si evita che tutto il nostro essere, fisico e mentale, sia impegnato e condizionato dalla tempesta. Si succedono albe grigie, giorni senza sole e notti senza stelle e nello schiarirsi del cielo si spera che le condizioni meteo comincino a migliorare.

Per giorni, a volte, non si vede l’orizzonte… Ci sono solo lo scuotersi della nave, il frangere delle onde sullo scafo, l’ululare del vento, la pioggia, la grandine… La visibilità è ridotta dagli spruzzi, dai piovaschi, dalla foschia … La nave sembra essere sola sul mare, si contano le miglia percorse e la tempesta sembra non avere fine, ma si cerca di fare in modo che la vita di bordo segua la sua normalità. Giorno dopo giorno ci si sente sempre più piccoli, costretti in uno spazio piccolo in attesa di qualcosa, anche se la nave è grande ed efficiente.

[3]

Con l’aumentare del vento e delle onde si ha sempre più la sensazione che il mare possa fare della nave quello che vuole e non c’è altro da fare se non adattarsi, rallentare la velocità, ancora mutare la rotta… sopportare la tempesta.

Nella tempesta si avverte lo sgomento che si prova davanti all’infinito, si ha la percezione di essere vicino a Dio perché solo Dio può fermare quelle onde.

Ho sentito qualcuno bestemmiare nella tempesta… pochissimi… i più stavano in silenzio, il pensiero da un’altra parte per impedire alla tempesta di fare breccia nel loro cuore. Ognuno è solo con i propri pensieri, ognuno sa che la tempesta non si affronta, perché nel mare e nel vento scatenati c’è una forza incommensurabile, alla quale non ci si può opporre, una forza che rimanda a Dio …e Dio né si bestemmia né si sfida.

Qualcuno, la tempesta, la racconta, ma “dopo”, quando è passata, e stupidamente cede alla lusinga del raccontare onde che diventano altissime e una situazione vissuta unica e irripetibile.

La tempesta insegna l’umiltà, fa capire come siamo fatti dentro, rivela i nostri limiti, insegna a non vergognarsi di provare sgomento (la paura è un’altra cosa… chi ce l’ha scappa…).

Il marinaio non racconta la tempesta perché per raccontare una tempesta bisognerebbe raccontare se stessi. La tempesta insegna la prudenza, insegna a non osare “di più” se non ce nessuna necessità per farlo. È cosa ragionevole avere paura del mare grosso ma è necessario evitare che la tempesta travolga noi prima di travolgere la nave. Non ho mai trovato un marinaio degno di questo nome che fosse contento di trovarsi in una tempesta.

Nei quadri votivi che qualcuno ha deposto nella penombra dei nostri Santuari c’è sempre una Madonna che occhieggia tra le nuvole e guarda amorevolmente una nave tra le onde. Tra tutti quei quadri votivi non ce n’è uno che racconti il valore di questo o di quel comandante o dell’equipaggio ma tutti raccontano che c’è stato un momento nel quale hanno pensato che fosse possibile perdersi e in quel momento si sono affidati alla Madonna, perché tutti nel momento del pericolo o del culmine della tempesta hanno pregato.

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Alla sera, al tempo di Colombo, quando per la prima volta le sue navi hanno attraversato l’Atlantico che gli arabi chiamavano “il mare dell’oscurità”, sulla sua nave si recitava la Salve Regina… e quegli uomini, che non erano propriamente dei santi, forti soltanto della loro capacità di osare, capivano che in quella vastità tempestosa potevano far ben poco con le sole loro forze e si affidavano all’eterno.

 

Gianni Paglieri

 [Tifone di Joseph Conrad  (3) – Continua]