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Io non ho paura (1) (2)

di Ilenia Picicco

 

Io non ho paura di vivere a Ponza …

Sono diciotto anni che vivo in quest’isola e qui ho radici molto profonde.

So che spesso vivere in posti come questo richiede fatica e a volte addirittura sofferenza, ma tutto ciò viene ripagato dall’unicità dei paesaggi che solo un vero ponzese riesce a vedere.

Inoltre agli occhi di tutti sembra un luogo “dimenticato da Dio”, io invece potrei gridare ad alta voce che è il contrario.

La nostra è un’isola bellissima che ha vissuto insieme alle persone ogni singolo avvenimento, che è mutata nel corso degli anni, che è cambiata a nostro piacimento.

Oggi, molti degli agi conquistati duramente col tempo stanno svanendo come una nuvola di fumo. Vivere qui diventa sempre più difficile, più drammatico e più malinconico.

D’estate, l’isola viene trasformata in un enorme bordello al suono di discoteche e tintinnio di monete, mentre d’inverno è una landa deserta, senza voce.

È strano come può cambiare un luogo a seconda delle scelte degli esseri umani che lo abitano.

Per questo, nonostante la mancanza di un servizio sanitario decente, di trasporti, di infrastrutture, di enti comunali e altro ancora, io non ho paura di vivere a Ponza perchè questa è la mia isola, un luogo per me magico che mi fa sentire bene, che mi fa vivere tranquilla nonostante gli innumerevoli disagi.

 

Inoltre, perchè dovrei avere paura io se non ha avuto paura nemmeno Salvatore Scotti, un ragazzo di 12 anni, che fu ammazzato nel pomeriggio del 20 settembre 1932 da un colpo di fucile sparatogli da un milite fascista?

Era periodo di vendemmia e il ragazzo si trovava vicino al suo terreno in località Scotti.

Era una di quelle belle giornate di settembre, l’aria era pulita e fresca e da lontano si scorgeva l’isola di Ventotene che sicuramente in quel periodo si preparava alla processione di Santa Candida.

Il milite fascista era di sentinella al posto di guardia del Bagno Vecchio e tre ragazzi ponzesi giocavano lì intorno tra cui Salvatore.

Al milite venne voglia d’uva ma non potendosi spostare impose a Salvatore di andare a prenderla nel vicino terreno del padre.

Il ragazzo, un fanciullo ingenuo come tanti altri della sua età, non capiva il motivo di questa richiesta che a suo parere sembrava assurda. Si rifiutò, senza aver alcuna paura, pensando di non aver nessuna voglia di allontanarsi da lì e magari perdere il posto nel gioco che stava facendo.

Il milite non credette a ciò che stava vedendo, un bambino osava contraddirlo.

Egli così forte e possente, con la sua divisa fascista, era stato sminuito ed umiliato da un adolescente.

Vide diminuire avanti a sé tutta l’autorità che aveva, così accecato dalla rabbia gli puntò il fucile contro e lo sparò uccidendolo.

Gli altri ragazzi, che avevano assistito alla scena, increduli e impauriti fuggirono a gambe levate.

I camerati trovarono il fanciullo in terra e il milite con lo sguardo fisso nel vuoto.

Cercarono la soluzione più rapida e semplice, misero immediatamente il cadavere del bambino su una barella e lo portarono direttamente al cimitero.

Ora il bambino era lui, quel milite cosi imponente, che dopo quel gesto si sentì un coniglio, e Salvatore era il leone, un bambino innocente che aveva avuto il coraggio di dire di no.

Ai genitori fu impedito di vedere il figlio e vennero minacciati affinché non sporgessero denuncia.

La milizia cercò di corromperli offrendo loro del denaro come risarcimento che rifiutarono sebbene non fossero persone agiate.

Dopo cinque giorni dalla morte di Salvatore, i fascisti imposero al padre di andare al Comune per presentare denuncia di morte e per le strade, sui muri si lesse: “Chi tocca la milizia avrà piombo”.

I familiari videro negli occhi della madre spegnersi piano piano la luce che aveva quando Salvatore era vivo. Ella portò per sempre nel cuore il ricordo del povero figlio ma non seppe mai rispondere a una domanda che la tormentò per anni; poi finalmente capì che suo figlio era diventato un eroe.

Il ragazzo venne seppellito di nascosto e senza l’assistenza del sacerdote mentre a un milite precipitato sulla spiaggia di Chiaia di Luna per ubriacatura furono resi gli onori dell’eroe caduto combattendo.

Attualmente nei registri degli atti di morte del Comune di Ponza risulta che Salvatore Scotti è morto per cause naturali.

A memoria di questo avvenimento, negli anni ’70 i giovani di Ponza che militavano nel gruppo politico denominato “La Comune”, non ebbero paura a ricordare il ragazzo e con un manifesto intitolarono l’attuale piazza Sindaco Gaetano Vitiello, a Salvatore Scotti, ucciso brutalmente dai militi fascisti.

Egli non ha avuto paura…

 

…E non ha avuto paura nemmeno Maria Migliaccio Monti.

Dal 1928 al 1939 tutti i maggiori esponenti italiani antifascisti vennero mandati al confino e molti di questi nella nostra isola: Pertini, Terracini, Amendola e tanti altri.

Uomini e donne con l’unica colpa di pensare in modo differente.

I ponzesi vedevano nei confinati politici persone perbene e non capivano i motivi della loro reclusione.

La domanda che veniva posta frequentemente era: “Come può un uomo costringere un suo fratello ad abbandonare i propri cari, la propria patria solo perchè la pensa in modo diverso?”

A Ponza, i confinati avevano un tragitto ben preciso da seguire, potevano passeggiare fino e non oltre il tunnel di Giancos ed ogni tre metri c’era una guardia fascista pronta ad intervenire.

Per un confinato quel tragitto diventava sempre più angosciante, tetro e cupo. Veniva percorso e ripercorso svariate volte durante l’arco di tempo che avevano a disposizione.

Ormai riuscivano a ricordare a memoria ogni singola pietra, fiore o viso che fosse.

Era facile per le ragazze di Ponza innamorarsi di quei giovani pieni di cultura e di fascino, ma era un amore che avrebbe portato a numerosi disagi, a minacce e nel peggiore dei casi anche alla morte.

Ma ad alcune questo non importava; avrebbero affrontato ogni sorta di pericolo pur di restare accanto all’uomo che amavano.

Una di loro era Maria Migliaccio, giovane donna innamorata di un militante comunista di 22 anni, Mario Monti.

Nel 1935, Maria pagò le prime gravi conseguenze, venne accusata insieme ad altre 17 ragazze di Ponza, di avere rapporti con i confinati.

La pena fu una sorveglianza speciale che sarebbe durata due anni, non poteva uscire di casa prima delle 7 e non poteva rientrare più tardi delle 19.

Inoltre tutte le domeniche doveva firmare la presenza negli uffici della P.S.

Ma a Maria questo non importava perchè l’amore che la legava a Mario era più forte di qualsiasi arresto, tortura o sorveglianza.

Lei sapeva che stava rischiando molto, che stava mettendo a repentaglio le loro vite ma non bastava a farle cambiare idea, il suo unico pensiero continuava ad essere quel giovane.

Anche per Mario non fu affatto facile e il 22 Luglio del 1936, decise di sposare Maria.

Erano consapevoli che il loro non sarebbe stato un matrimonio come gli altri, che sicuramente sarebbero stati separati perchè considerati pericolosi per la società italiana.

Infatti nell’aprile dell’anno successivo, Mario viene trasferito a Ustica e a Maria non è permesso seguirlo.

Vivono così lunghi anni di separazione dove a Mario succede di tutto. Diventa partigiano, viene catturato dai ‘repubblichini’ e deportato in Germania nel campo di concentramento di Dachau.

Dopo la liberazione ritorna a casa e finalmente dopo anni di separazione i due amanti si ritrovano alle due di notte uno di fronte all’altro. Maria stenta a riconoscerlo. Mario è scheletrico, cammina a stento, sanguina dalla bocca, dal naso e dall’intestino.

Ma la guerra finalmente è finita, il fascismo è stato battuto e l’Italia è libera.

Il loro è stato un sacrificio come quello di altre migliaia di persone, ma non è stato inutile.

***

Come loro non ha avuto paura nemmeno Annamaria Mazzella, da tutti conosciuta come Maria Picicco, “la mamma dei confinati”. Era una donna forte, coraggiosa e intraprendente.

Ebbe cura dei confinati politici e per questo subì svariate minacce, processi, perquisizioni e maltrattamenti da parte dei fascisti. Fu anche “ammonita” insieme a suo figlio.

Nel 1943, arrivò un nuovo confinato a Ponza, Pietro Nenni. Egli era un dirigente del PSI, partigiano e socialista.

Maria lo accolse con affetto, come un figlio, senza aver paura delle conseguenze. Egli infatti abitò in casa sua per un lungo periodo prima di passare nei locali dell’attuale ristorante EEA. Siccome era in brutte condizioni, con abiti pieni di pidocchi, Maria gli fece indossare quelli del figlio il quale in quel periodo era in guerra.

Nenni si stupì di cotanta cordialità e le fu molto riconoscente.

Giorni dopo arrivò a casa di Maria da Ventotene una donna in grande agitazione, mandata da Pertini con una lettera per Nenni.

Nella lettera, Pertini informava il compagno che il fascismo era caduto e chiedeva che fare.

Ciò che la donna aveva tra le mani era qualcosa di pericoloso, qualcosa che se fosse caduto nelle mani sbagliate avrebbe potuto sconvolgere i piani dei confinati di Ponza e Ventotene. Ma entrambe, coscienti di ciò a cui andavano incontro, si sedettero e con calma cercarono di capire come far arrivare la lettera a Nenni.

I controlli erano molto severi, difficilmente sarebbe potuta riuscire l’impresa, ma Maria non si dette per vinta ed escogitò un piano. Nonostante fosse quasi ora della ritirata, Maria congedò la donna e si recò immediatamente sotto la casa di Nenni chiamandolo più volte.

Lì accanto c’era la guardia addetta alla sorveglianza.

Quando Nenni si affacciò, Maria gli chiese se per favore poteva restituirle immediatamente il ferro da stiro che gli aveva prestato. Pietro sapeva benissimo di non aver alcun ferro da stiro ma capì che dietro quelle parole si celava qualcosa di molto importante. Cercò qualcosa che potesse somigliare ad un ferro da stiro e lo avvolse nella carta. Si precipitò immediatamente a casa di Maria la quale gli consegnò la lettera di Pertini.

La sera, come concordato, Maria incontrò la ventotenese alla proiezione di un film nel cinema di Don Michele Regine. Il cielo era stellato, l’aria calma, non tirava nemmeno un soffio di vento, nulla poteva andare storto.

La lettera venne consegnata e la donna poté partire.

La missione era compiuta, Maria fu un’abile staffetta, e mai come allora si sentì tanto orgogliosa di se stessa.

 

E nemmeno Silverio Picicco… ha avuto paura!

Era la notte del 15 Luglio 1943.

Silverio si trovava a bordo della nave Aquitania, stava tornando dalla Sardegna verso Civitavecchia.

Fumava tranquillamente una sigaretta, appoggiato alla ringhiera della nave, pensando che forse, non molto tardi avrebbe potuto riabbracciare la fidanzata e i suoi cari. D’un tratto si sentì un tonfo, i suoi pensieri cominciarono ad aggrovigliarsi in un caos totale.

La nave era stata colpita da un aereo e aveva cominciato lentamente ad affondare.

C’era il panico totale, ognuno cercava salvezza tuffandosi in mare o provando a prendere posto in una scialuppa.

Silverio cercò una via di fuga, voleva evitare di bagnarsi, così rimase aggrappato allo scafo che affondava. Non era riuscito a trovare nemmeno una scialuppa.

Cercò di non perdere le staffe e di mantenere saldi i nervi. Poi vide un oggetto galleggiare e vi si aggrappò.

La nave intanto aveva quasi iniziato il suo lungo tragitto verso gli abissi.

Passò due notti e un giorno aggrappato alla vita; pensava che quella volta non ne sarebbe uscito vivo, che i suoi occhi non avrebbero mai più potuto incrociare quelli della fidanzata; che quelli fossero i suoi ultimi respiri.

Quando ormai aveva perso ogni speranza, venne raccolto insieme ai suoi compagni da una nave di passaggio; aveva le carni completamente macerate e venne issato a bordo con l’aiuto di un telo.

La gioia fu immensa.

La nave si fermò a Civitavecchia dove tutti i superstiti dovevano andare a registrarsi alla Capitaneria di Porto. Egli sapeva che se l’avesse fatto lo avrebbero mandato a fare la guerra chissà dove, mentre in quel momento tutto ciò di cui aveva bisogno si trovava a Ponza, così decise di non firmare.

Aveva una madre vedova che lo aspettava; che aveva bisogno di un figlio vivo e non di un figlio morto. Sapeva che sarebbe potuto essere dichiarato disertore ma non ebbe paura e con mezzi di fortuna raggiunse Formia.

Da lì fu facile imbarcarsi sulla nave Santa Lucia per raggiungere l’isola.

Erano passati 8 giorni dall’affondamento dell’Aquitania e sue notizie a casa non erano arrivate;  era stato dichiarato disperso.

Quello stesso giorno suo fratello Nino era partito per Formia con l’intenzione di andarlo a cercare. Nessuno in famiglia riusciva a darsi pace, nessuno aveva intenzione di ritenerlo disperso.

Ma a Formia, un ponzese informò Nino che sul Santa Lucia era appena salito Silverio. Egli stentò a crederci e cominciò a cercarlo per tutta la neve. Quando finalmente lo trovò, l’emozione fu immensa e Silverio cominciò a raccontare delle sue peripezie e di tutto ciò che aveva passato in quegli ultimi giorni.

Arrivati in prossimità di Santo Stefano videro aerei nemici che si avvicinavano. Non era ancora finita!

Giunti sul piroscafo cominciarono a bombardare e a mitragliare.

Silverio capì subito il pericolo e disse al fratello di dividersi, uno sarebbe andato a poppa della nave e l’altro a prua di modo che almeno uno di loro si sarebbe salvato. Intanto sulla nave si diffuse il panico e ci fu un fuggi fuggi generale.

Finalmente gli aerei sparirono all’orizzonte e il piroscafo dopo aver schivato i colpi fece sbarco a Ventotene.

Molti ponzesi preferirono fermarsi anziché proseguire ma Silverio e il fratello continuarono, sapendo che ormai le bombe degli aerei erano esaurite e non c’era alcun pericolo. Infatti il viaggio procedette tranquillo fino a Ponza. Allo sbarco cercarono di persuadere gli isolani a non partire il giorno dopo; cercarono di convincerli a restare, ma senza alcun esito.

L’indomani il miracolo non si ripeté, il Santa Lucia venne colpito a morte e Ponza gettata nel lutto più nero.

 

Come queste sicuramente ci saranno centinaia e centinaia di altre storie.

Ogni ponzese nell’arco della sua esistenza sull’isola ha sicuramente qualcosa da raccontare.

Chi è emigrato in America, chi ha lavorato in miniera, chi si è allontanato da casa per lavoro, chi ha pescato in mari lontani…

Tutti loro hanno fatto la storia di Ponza e a Ponza sono ritornati.

E hanno portato Ponza ovunque nel mondo.

 

Nessuno di loro ha avuto paura… Quindi perché dovrei averne io?

 

Ilenia Picicco

 

Nota bibliografica a cura dell’Autrice

Oltre che dalla memoria di mia nonna e dei miei genitori, alcuni riferimenti per il racconto sono stati ricercati in:

‘Ponza, nel suo passato trimillenario’ di Luigi Sandolo;

‘Il Dibattito’, a cura del gruppo culturale “La ginestra” Ponza

‘Punto Rosso’, ciclostilato degli anni ’70 del gruppo “La Comune”

‘L’autunno del ’43’, di Gino Usai, sul sito Ponzaracconta.

[Io non ho paura (1) (2) – Fine]

Nota della Redazione

Ilenia Picicco

Nata a Gaeta il 20 Agosto 1993

Scuola: IV Ragioneria – I.T.C. Carlo Pisacane, via Fornelle, Ponza

 

 

 

 

2 Comments

2 Comments

  1. silverio gabresu

    3 Marzo 2012 at 22:28

    Racconto emozionante. L’Autrice ha trasmesso per intero tutti i valori che i nostri avi avevano, valori a cui noi dovremmo attingere per risollevare le sorti comuni, per far sì che siano orgogliosi di noi, Ponzesi che “forse non hanno capito bene il vero valore del Paradiso Ponza”. Happiness!

  2. Silverio Lamonica

    3 Marzo 2012 at 23:21

    Ho letto la prima parte dell’elaborato di Ilenia Picicco. Molto interessante.
    Esprimerò un parere più articolato quando avrò letto anche il seguito.
    In linea generale credo che sia opportuno citare, oltre al nome e cognome, anche la scuola e la classe frequentata. Ma credo che ciò avverrà con l’ultima parte del pezzo pubblicato.
    Spero che tanti altri articoli seguiranno. Un cordiale “in bocca al lupo” ad
    Ilenia.
    Ciao Silverio.

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