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La pesca a ricciole a Ponza

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di Ernesto Prudente

La lenza può essere “armata” con cucchiaino o con ami innescati con pesci o calamari, vivi e morti. Le lenze sono preparate secondo le zone di pesca: se si va al largo, per pesci grossi, si usa una lenza consistente con ami di una certa grandezza; se, invece, si pesca lungo la costa o nella baia del porto, dove spesso affluiscono branchi di piccolo taglio, la lenza è diversa come è diversa l’esca. E’ il divertimento preferito dai pescatori dilettanti. Per la verità non troppo. In questi ultimi anni è una gara continua. Diverse barche sono sempre in mare con la traino di poppa. Si esce di notte per pescare i calamari che dovranno servire per esca. E’ l’esca migliore, specialmente da vivo, per questo ogni gozzo ha a bordo una vasca piena d’acqua il cui ricambio avviene con una pompa elettrica. Silvio, u capellone, e Salvatore, doppiabbòtte, fratelli e maestri nella pesca del calamaro, non dimentichiamo che il calamaro è una pesca fornese e il fornese, come si suol dire, u tène dint’u sangue, per mantenerli vivi in modo perfetto hanno pensato bene di metterli in una nassa che affondano nella zona di pesca prelevandone uno alla volta per la bisogna. Spesso sono rimasti a bocca asciutta perché altri che loro, da persone educate definiscono birbanti e fetenti, non avendone pescati direttamente e avendo visto depositare la nassa, se li sono fregati. Sono tanti i pescatori di ricciole. Una citazione particolare la merita Domenico Zecca, un macchinista navale, che è riuscito a far tesoro degli insegnamenti di Ferdinando l’ultimo docente nel settore degli ami. Il suo allievo prediletto, perché c’è stato l’intervento della mamma, è il fratello Vincenzo che sta facendo passi da gigante e si comporta da vero galantuomo. Quasi sempre le sue prede finiscono sul tavolo di un ristorante attorno al quale non mancano mai gli amici, e tra questi quei due simpatici e prepotenti affamati:Bonarino e Giuseppe. Colgo l’occasione per citare anche Tony e Giovanni che arrancano come sciancati per conquistarsi un posto nella aristocrazia della pesca a traino. Si pescano esemplari che vanno da alcuni etti ai quaranta chili e oltre del “bestione”. Una volta, negli anni della mia giovinezza, la ricciola si pescava con una rete da circuizione. Il periodo della loro presenza nelle nostre acque era, e lo è ancora, la primavera-estate. Per poterle catturare era necessario avvistarle. Primo compito era quello di mettere uomini di guardia lungo le colline per scorgerle. Una volta avuta la certezza che fossero nelle nostre acque si preparavano le barche che il giorno seguente si appostavano nella zona di mare dove il pesce era stato visto. Le barche erano sempre due, qualche volta tre, quando si andava a Palmarola o a Zannone. Nella terza veniva messa la leva, una rete particolare mentre negli altri due gozzi veniva messa, metà sull’uno e metà sull’altro, la rete di circuizione, “a palammetàre”. Su un promontorio che dominava la zona di mare dove si voleva operare veniva mandato il segnalatore. La limpidezza delle acque permetteva l’avvistamento, anche da lontano, del branco che il banderuolo di turno, un giorno Cirillo e un giorno Salvatore di Cagnicco, attori protagonisti in questa attività, lo segnalava alle barche. Allo scorgere del branco un urlo squarciava il profondo silenzio. I gozzi mettevano i remi in acqua pronti a spostarsi secondo il segnale. Un panno, una giacca, una maglia, agitata dall’appostamento indicava la posizione e la direzione del branco. Il capopesca, ritto sulla prua di uno dei gozzetti, scrutava attentamente il mare e, spesso con l’aiuto di un binocolo, osservava, con pari attenzione, i movimenti del segnalatore. Al segnale stabilito, “molla”, le due barche si aprivano a ventaglio e, vogando a ritmo sostenuto, calavano la rete cercando, riuscendovi quasi sempre, di circuire il branco di pesci. A bordo nessuno parlava. Qualche indiscrezione veniva fatta con lo sguardo. Tutti erano in attesa di un altro urlo che non tardava : “Attonne”. Era questo il segnale che tutti apettavano. Il “montanaro” nel vedere i pesci nella rete diceva alle barche di chiudere il cerchio e così, con maggiore velocità, sempre calando la rete, si avvicinavano l’una all’altra con l’attenzione di non lasciare aperture nella rete. Il capopesca, con il gozzo su cui stava, entrava nel recinto della rete e con uno specchio esplorava il fondo ispezionando l’interno in modo da accertarsi che il pesce fosse stato circondato e che non potesse uscire. Mentre si faceva questo lavoro e si operava per il restringimento del cerchio, assuccando un po’ alla volta fino a quel limite di non costringere i pesci a forzare l’assedio. Una delle due barche rientrava nel porto per prendere la “léve”, una rete rettangolare che doveva essere prima stesa sul fondo e poi tirata a galla, contemporaneamente, dai quattro spigoli. Arrivata la leva, il capopesca, sempre con la testa nello specchio, dava gli opportuni ordini su come calarla. Quando riteneva che tutto fosse in ordine dava il comando di issare. Le due barche avevano, a poppa e a prua, le corde legate agli spigoli della rete e, tirandola in questo modo, essa emergeva in modo piatto e parallelo. Ciò evitava che i pesci perciassero, bucassero, la rete di circuizione. Non dimentichiamo che le ricciole, come i tonni, appartengono ai perciformi. In questo tipo di pesca sono state prese ricciole che superavano i cinquanta chili.

Dal libro “Vocabolario illustrato del dialetto parlato dai pescatori e dai marinai ponziani”

di Ernesto Prudente