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La gabbia di pietra (8)

[1]

di Carlo Bonlamperti

 

Per la puntata precedente: leggi qui [2] 

VIII

Giorgia è rimasta ferita dal comportamento del giovane nei suoi confronti anche se, sforzandosi d’immedesimarsi nel suo ruolo di carceriere, deve ammettere che quelle sono le precauzioni che chiunque svolga quel mestiere deve adottare normalmente.

C’è rimasta male solo perché non si aspettava di essere nuovamente imbavagliata, o almeno non così presto e certamente non nella maniera sbrigativa di uno che mostra di avere altro da fare. Avrebbe desiderato che il giovane si fosse trattenuto un istante con lei per addolcire un po’ l’amara pillola del suo gesto con qualche parola gentile, magari anche di scusa, ma si dice che forse pretende troppo da quello che non è un giovane qualunque, bensì la persona che la tiene prigioniera.

Poi riflette che l’assenza misteriosa del giovane può significare probabilmente una svolta nella vicenda del sequestro, dal momento che, a quanto le risulta, deve ancora essere stabilito il contatto con suo padre.

Questo pensiero un po’ la rincuora perché, se così è, vuol dire che qualcosa si sta muovendo al di fuori di quell’angusta gabbia di roccia in cui è costretta da tre giorni senza notizie né contatti con il mondo esterno, e si dà della sciocca per non averci pensato subito, quasi che tre soli giorni di prigionia abbiano già fatto sedimentare in lei le tossine della rassegnazione alla soggezione e alla segregazione.

Un altro aspetto che Giorgia non considera ma che, in maniera subdola, è ugualmente presente nel suo subconscio, è il fatto che nell’immaginario collettivo un’azione di sequestro comporta abitualmente una notevole dose di violenza e spesso anche di spettacolarizzazione, cose che nella sua vicenda sono mancate quasi del tutto. Non che minacciare, legare, imbavagliare e narcotizzare una persona per tenerla prigioniera non significhi farle violenza, ma considerando il sequestro in se stesso già una violenza, nella realtà accade di essere costretti a distinguere tra violenza e violenza, e quella fatta a Giorgia può, tutto sommato, essere considerata, almeno in apparenza, una violenza “dal volto umano”, esercitata quasi di controvoglia da una persona giovane che a volte sembra addirittura comprensiva nei confronti dell’ostaggio, pur nella necessaria distinzione dei ruoli di carceriere e vittima.

Il fatto poi che due persone si trovino a convivere da alcuni giorni nello stesso luogo angusto, fa scattare una serie di complessi meccanismi psicologici ed emergere inevitabilmente molte di quelle affinità mentali che i giovani scoprono di avere stando insieme. Per giunta la ragazza ha scoperto che quel carceriere ha tutta l’aria di seguire un copione scritto da altri, senza assumere iniziative personali né aggiungere nulla di suo a quanto già pianificato e deciso.

Risulta evidente – anche su sua ammissione – che il capo non è lui, e Giorgia ha creduto di cogliere nel comportamento del giovane un atteggiamento quasi di distacco e a volte persino di svogliatezza nell’assolvere il ruolo ingrato che gli è stato assegnato, e questo fatto, anche se positivo per lei, finisce tuttavia per disorientarla.

Sta ancora rimuginando questi pensieri nella sua testa quando, osservando prima distrattamente, poi con maggiore attenzione quelli che a prima vista sembrano solo dei segni tracciati sulla parete della grotta, rimane colpita dalla strana somiglianza che quelle incisioni – prima una, poi tutte le altre – hanno con l’alfabeto turco.

Si avvicina alla parete quel tanto che le è consentito dalla corda che la trattiene alla branda e, alla fioca luce della lampada a gas, prova a decifrare quei graffiti facendo ricorso ai suoi recenti studi di lingue mediorientali. Riesce a leggere:  k..h   a..i..r…a..d…d..i..n  e poi dei numeri: 1.5..3..4.

Giorgia non ne ha la certezza, ma quelle lettere e quei numeri tracciati sulla parete della grotta non sembrano incisi da una mano che abbia voluto imitare la scrittura turca tracciando un carattere dopo l’altro come fanno gli studenti al primo anno di ginnasio che utilizzano i caratteri dell’alfabeto greco per scrivere il proprio nome, bensì da una persona che con quella lingua ha una maggiore dimestichezza e la sicurezza di chi ha inteso apporre su quel muro proprio la sua firma. Quindi Khair ad Din è sicuramente un nome e 1534 potrebbe essere una data, forse proprio quella in cui i graffiti sono stati realizzati!

La ragazza non saprebbe dire se quei solchi, aggrediti dall’umidità che ne ha smussato i labbri, risalgano proprio al 1534 per la semplice ragione che lei non è un’archeologa; tuttavia il suo intuito e la conoscenza che ha della storia le dicono che quella potrebbe essere proprio la firma del pirata Khair-ad-Din, più noto col nome di Barbarossa, che in quel periodo scorazzava nel Tirreno terrorizzando le popolazioni costiere e facendo razzia di beni e di esseri umani sulle isole di quel mare.

Naturalmente lei non può sapere in quali circostanze sia passato proprio per quella grotta né il motivo per cui abbia lasciato la sua firma su quel muro. Immagina che l’abbia fatto per far sapere ai suoi che quel covo doveva essere riservato a lui oppure perché afflitto da quella forma di megalomania che spinge spesso carnefici ed oppressori ad annichilire le loro vittime innalzandosi con ogni mezzo al di sopra di esse per sottolineare la distanza che esiste tra chi è in alto e chi nella polvere.

Un brivido le attraversa la schiena al pensiero di trovarsi in quello che potrebbe essere stato il rifugio del corsaro turco e istintivamente volge lo sguardo attorno a sé, quasi temendo che dall’ombra creata dalla tenda possa improvvisamente saltar fuori la figura arcigna del pirata per ghermirla in assenza del giovane carceriere.

Si accorge subito del paradosso creato dalla sua mente e sorride al pensiero che, per essere salvata dal pirata, per un attimo ha pensato di chiedere aiuto proprio a chi la tiene in ostaggio, sorprendendosi di aver pensato al giovane nel ruolo di salvatore, mentre si sarebbe aspettata che nella sua mente la linea di demarcazione tra il buono e il cattivo risultasse più netta. Per rincuorarsi si dice che dev’essere stato il proprio istinto di sopravvivenza a confonderle le idee, creando la sovrapposizione di due ruoli opposti nella stessa persona.

Senza rendersene conto, mentre la fiammella della lampada a gas comincia a saltellare mutando gradualmente il suo colore dall’azzurro al rosso-arancio, Giorgia scivola nel sonno.

***

E’ già mattina quando la ragazza si sveglia al rumoreggiare del mare in tempesta. Non ricorda che la finestra fosse aperta la sera prima ed ora il sibilo del vento, che spinge con forza le onde sugli scogli, penetra all’interno della grotta assieme al brontolio del tuono che da lontano preannuncia la pioggia.

Istintivamente, come avrebbe fatto a casa sua all’avvicinarsi di un temporale, mette i piedi a terra per andare a chiudere la finestra e solo in quel momento si accorge di avere le caviglie libere dalle corde.

Sorpresa da quel particolare, rimane in piedi accanto al letto, incapace di dare un passo.

A poca distanza da lei, col viso rivolto verso il muro e le braccia e le gambe rannicchiate vicino al tronco, il carceriere dorme ancora senza accorgersi della tempesta che imperversa attorno a lui nella luce lattiginosa del mattino.

Sul tavolo, accanto alla lampada spenta, Giorgia nota un quotidiano e delle riviste e, appesa alla spalliera dell’altra branda, un sacchetto di plastica con un pacchetto.

In un primo momento rimane interdetta, non sapendo cosa fare in quella situazione imprevista. Potrebbe scappare, sottraendo al carceriere la chiave della porta, ma pensa che non andrebbe lontano con quella tempesta in atto. E per andare dove, se non sa neppure dove si trova?

Le viene anche in mente che potrebbe aggredire il giovane colpendolo con la lampada, per poi chiedere aiuto in qualche modo, ma l’idea della violenza la terrorizza al solo pensarvi. Decide allora di approfittare della sua relativa libertà per affacciarsi alla finestra e cercare di capire dov’è tenuta prigioniera. Dà uno sguardo al carceriere che dorme e, vedendo i calzoni rimboccati fino alle ginocchia, pensa che il giovane abbia avuto caldo la sera prima e si alza dal letto cercando di non far rumore.

Avvicinandosi però all’altra branda, la sua attenzione viene attratta da una macchia scura che il giovane ha sul polpaccio della gamba destra. Incuriosita, Giorgia si avvicina un po’ di più e si accorge trattarsi di una voglia a forma di cuore, della grandezza di una ciliegia, perfettamente uguale a quella che ha lei sulla stessa gamba!

A quella scoperta la ragazza resta di sasso, con gli occhi fissi su un segno identico a quello che è il vezzo e il cruccio dei suoi ventitré anni, la mente sconvolta da mille interrogativi.

Non si è neppure accorta che il giovane è senza passamontagna né che un tuono più forte degli altri lo ha svegliato.

Riprendendosi dallo sbigottimento, Giorgia dà un passo indietro appena il carceriere, aperti gli occhi, la vede vicino alla sua branda alla luce di un lampo improvviso e, spaventato a sua volta, balza in piedi di scatto.

Che stai facendo? – le urla spingendola sulla sua branda, per nulla preoccupato di mostrarle il viso ma in dubbio se infierire o assumere un atteggiamento meno ostile nei confronti della ragazza. Ricorda di averle slegato lui stesso le caviglie la notte prima, ma proprio non si aspettava di trovarsela così vicina al suo risveglio. Reagisce d’istinto poiché dal suo inconscio affiora la paura mai vinta di svegliarsi un giorno o l’altro con i carabinieri accanto al letto e la sua reazione si sovrappone al trambusto del temporale, amplificato dalla cavità della grotta, e ai lampi che a tratti penetrano attraverso la finestra diffondendo ovunque la loro livida luce.

Toni si rende conto che la ragazza non può rispondergli e si avvicina per toglierle il bavaglio e slegarle le mani senza le precauzioni della sera prima. Memore poi degli ordini del capo, si dirige alla finestra ma, dopo un attimo d’indecisione, decide di non chiuderla pensando che il frastuono del temporale possa coprire le loro voci concitate.

Quando si volta, vede gli occhi della ragazza fissi sulla sua gamba destra e riesce a malapena a sentire le sue parole, come se lei parlasse a se stessa con una voce che il giovane stenta quasi a riconoscere:

– Prima di conoscere e sposare mio padre, mia madre ebbe una breve relazione con un ragazzo della sua età e rimase incinta. Saputa la cosa, il ragazzo la lasciò, non volendo assumersi le sue responsabilità. Quelli erano altri tempi e i miei nonni, persone all’antica e di solidi principi religiosi, vollero che mia madre portasse ugualmente avanti la gravidanza e la mandarono presso dei parenti in Toscana perché la cosa non si sapesse in giro. Al termine dei nove mesi, mia madre partorì un maschio, ma la nonna e la cameriera le fecero sapere che il bambino non era sopravvissuto per complicazioni cardiache.

In realtà il bambino, vivo e sano, non fu riconosciuto e venne affidato ad un orfanotrofio. Di lui non si è saputo più nulla e io stessa sono venuta a conoscenza di queste cose solo dopo la morte di mia madre. Trovai per caso, tra le sue cose, un’ecografia che risaliva a due anni prima della mia nascita che parlava di feto vitale di sesso maschile. Non poteva in nessun caso trattarsi della gravidanza che mi riguardava, per cui, incuriosita da quella scoperta, misi alle strette la cameriera e solo dopo molti dinieghi e depistaggi, tra sospiri, lacrime e richieste di perdono da parte sua, riuscii a conoscere la verità.

L’anziana donna mi disse che aveva mantenuto il segreto per tutti quegli anni perché l’aveva giurato a mia nonna, ma ora era quasi felice di togliersi quel peso dalla coscienza parlandone con me dopo la morte di mia madre.

Si era trattato di un bambino sano e bello che somigliava molto alla mamma. Aveva i capelli biondi e una voglia a forma di cuore sul polpaccio della gamba destra, proprio come me.

Dunque avevo un fratello: chissà dove, ma avevo un fratello più grande di me di soli due anni! Dio mi è testimone che ho spinto mio padre a fare delle ricerche ma, nonostante gli sforzi e il denaro profusi, non siamo riusciti ad approdare a nulla.

Di tanto in tanto, da qualche parte della Penisola ci perveniva la telefonata di un archivista o di una suora, che riaccendeva le nostre speranze; seguiva la corsa in macchina col cuore in tumulto, l’esame della documentazione e poi la

disillusione. Alcune volte non corrispondeva la data di nascita, altre volte il sesso, altre ancora le caratteristiche del trovatello, come se di quel bambino biondo, che oggi dev’essere un giovanotto sui venticinque anni, il destino avesse voluto cancellare ogni traccia.

A quel punto Giorgia s’interrompe per alzare gli occhi verso il giovane rimasto in piedi davanti a lei, e osservarne da vicino il viso che sembra la sua immagine riflessa in uno specchio. Poi, senza pensare più alla situazione in cui si trova e alla barriera che li divide, con gli occhi umidi, riprende, accorata:

– Io sono Giorgia. Tu come ti chiami? Quanti anni hai?

Sulle prime Toni rimane in silenzio, frastornato dalle parole della ragazza e in dubbio se fidarsi di lei oppure no. Il racconto appena udito è indubbiamente suggestivo ed ha toccato dentro di lui delle corde che credeva arrugginite. Da tempo infatti si è abituato a trattare con gente dura e priva di scrupoli, tanto che per poter sopravvivere ha dovuto soffocare le spinte verso il bene che la sua indole fondamentalmente buona fa affiorare in lui di tanto in tanto e indossare una specie di maschera cinica, indispensabile per nascondere i suoi veri sentimenti e farlo apparire duro e spietato.

Ma quella ragazza, che lui credeva snob solo perché ricca e di buona famiglia, ha minato alla base tutte le sue convinzioni, costringendolo a riflettere su quello che sta facendo e a confrontare la sua vita scellerata con quella di lei che, invece, si è rivelata tutt’altro che gretta e incapace di nutrire sentimenti nobili. È come se quel sequestro, nel quale per la prima volta ha avuto l’incarico di carceriere, gli sia stato cucito addosso come un abito troppo stretto e lo abbia sconvolto dall’interno, sostituendo il dubbio alla sua abituale sicumera.

Sa bene che mostrarsi a viso scoperto ad un sequestrato è una cosa grave che, oltre a contravvenire agli ordini del capo, condanna a morte sicura l’ostaggio. Si dice tuttavia che la cosa è avvenuta per puro caso e, del resto, sarebbe stato del tutto inutile, se non impossibile, porvi rimedio, dal momento che la ragazza lo stava già guardando da un pezzo mentre lui dormiva. In tutta sincerità, quella ragazza incantevole che lo ha così profondamente turbato con la sua storia e continua a fissarlo come se lo conoscesse da sempre, proprio non riesce a considerarla una minaccia, perciò le risponde con calma: – Mi chiamo Toni e ho compiuto venticinque anni il mese scorso. Ma tu perché mi hai raccontato la storia di tua madre? Cosa c’entro io con quel bambino abbandonato?

– Possibile che non ti è venuto in mente che quel bambino potresti essere proprio tu? – lo interrompe Giorgia con la voce rotta dall’emozione – Naturalmente non lo so ancora con certezza, ma sento che la storia di quel bambino è proprio la tua storia. Sono troppe le coincidenze perché possa essere diversamente: la voglia come la mia sulla gamba (e così dicendo solleva il vestito fino al polpaccio per mostrargli il segno identico al suo), la tua età che coincide, il colore dei capelli e degli occhi, la somiglianza con me e con mia madre e il fatto che tu non conosca i tuoi genitori ma ricordi solo le suore della tua infanzia… Non ti sembrano elementi sufficienti, questi?

Toni non sa cosa rispondere perché le parole accorate di Giorgia lo hanno turbato profondamente, insinuando il dubbio nella sua mente. E se la ragazza avesse ragione? Una risposta positiva a questa domanda potrebbe esplodere nella sua vita con una forza dirompente, tali e tanti sarebbero i risvolti e le conseguenze che ne deriverebbero. La conseguenza più immediata sarebbe quella di avere una sorella: non un nome sul certificato anagrafico, non il ricordo suscitato da una fotografia, ma una persona vera e propria, in carne ed ossa, la sorella che non ha mai saputo di avere, con ogni probabilità proprio quella che è seduta davanti a lui, con i capelli biondi scarmigliati e gli occhi azzurri arrossati che attraverso le lacrime lo fissano con uno sguardo che lo turba.

Toni è disorientato perché è incapace di riconoscere il sentimento che la ragazza prova per lui in quel momento. Non sa dire se si tratti di uno sguardo di compassione o di rimprovero o di entrambe le cose, perché la vita che ha vissuto fino a quel giorno non gli ha insegnato a riconoscere i sentimenti e le emozioni degli altri così come non lo ha fatto con i propri.

Una simile realtà, se accertata, evidenzierebbe l’enormità della situazione che li coinvolge entrambi: un uomo che tiene segregata la propria sorella per estorcere del denaro al padre di lei che è anche il suo patrigno! Toni sente la propria mente vacillare sotto il peso di quelle considerazioni e non sa trovare argomenti validi per confutare gli elementi che Giorgia, con disarmante consequenzialità, gli ha evidenziato.

Deve ammettere che tutto fila nel ragionamento della ragazza ed ogni tassello sembra inserirsi al suo giusto posto, rischiarando il buio in cui si perde la sua origine e scalzando anni-luce di diffidenza e di livore verso chi lo ha condannato a quella esistenza, che lui non ha mai conosciuto. È come se all’improvviso gli venissero meno tutte le certezze sulle quali ha fondato fino a quel momento la sua vita scellerata e si trovasse totalmente privo di risorse di fronte alla nuova realtà che comincia ad insinuarsi lentamente dentro di lui, mentre una strana forza, alla quale non riesce ad opporre resistenza, gli fa fare un passo verso la ragazza che, prima che lui possa rendersene conto, si alza dalla branda e gli getta le braccia al collo stringendolo a sé e sciogliendosi in lacrime sulla sua spalla.

– Toni,  fratello mio,  finalmente ti ho trovato!

–  Giorgia… – sussurra lui con la voce spezzata dall’emozione – Sei proprio mia sorella? Cosa ti ho fatto! Perdonami, se puoi, perché io non potrò mai perdonarmi!  

E i suoi singhiozzi disperati si uniscono alle lacrime di gioia della sorella e si confondono con l’ululato del vento e gli scrosci di pioggia che, attraverso la finestra, penetrano all’interno della grotta.

 

Carlo Bonlamperti

 

[La gabbia di pietra (8) – Continua]