Racconti

“Pazziell’ ’i criature” e altro… (2)

di Pasquale Scarpati 

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Quando a casa di nonna c’è zio Peppe, per me è una festa: con lui posso giocare e prenderlo in giro cantando: Una notte mi sognai che stavo al mare e facevo il bagno con una signorina. Ad un tratto mi svegliai, sotto il letto mi trovai,  fiorin fiorello, mi trovai con i piedi dint o’ zi’ peppe (’u pitale).

Lui finge di offendersi e mi rincorre. È il  più gioviale e simpatico degli zii, sembra un fratello maggiore, sbarazzino, con la sua eterna matita sull’orecchio mi sembra più moderno rispetto a mio padre e zio Pasquale, che sono seriosi e quasi sempre accigliati. Gli piace partecipare ai festini e ballare, io non oso chiedergli di portarmi con lui.

Da nonna posso anche allenarmi sul pavimento pieno di buche: a zicchinett’, alla fontanella o c‘u’ strùmmul’ che Pataccone mi ha fatto, bello grande perché quello che avevo me l’hanno rotto con le pizzate. Attendo con ansia la mia vendetta. Dove sono Gaetano, Peppe, Silverio ‘Ricciolino’, Luigino, Salvatore (quando viene da Procida), Tommaso, Raffaele, Nino, Franco, Dario (quando viene da Roma), Andrea, l’altro Silverio… lì sono anch’io. Ogni tanto si aggrega anche Giorgio.

Il nostro regno comincia su corso Carlo Pisacane, quasi sulla Ponta ’ianca, vicino a Bafarone, passando per Nanninella e  per Miniello. Di fronte c’è una stanza dove la signora Sofia, donna molto paziente, quasi materna, fa lezione a tanti di noi, tutti insieme, seduti su tavole da letto davanti ad un lungo tavolo. Questa stanza ha una finestrella un poco più in alto ma non tanto da non far vedere chi passa, così, quando si vede passare Miniello che è un po’ calvo, noi tutti, invece di leggere e scrivere, sghignazziamo ripetendo più volte, cantilenando  “Cap’ i bomb int’ a fenest”. La signora Sofia si adira e ci bacchetta, come d’altronde fanno anche tutti gli insegnanti; ma noi, trascorso il primo momento in cui agitiamo la mano rossa e dolorante, riprendiamo a tendere l’orecchio verso i rumori provenienti dall’esterno e ad allungare l’occhio o a intingere il pennino nell’inchiostro e di nascosto, invece di scrivere, spruzziamo l’amico seduto al fianco.

Lungo la stretta via che d’inverno viene presa d’infilata dal vento, si affacciano, a mano destra per chi proviene dalla piazza, la casa del compare Barbetta e il forno di Giovanni D’Atri, proprio nella curva che volge a destra. La fragranza del pane appena sfornato si mescola all’odore della frutta venduta dal simpatico Gennaro ’i Tatillo. A sinistra c’è il negozio di Veruccio ’i bombole che timidamente comincia ad esporre qualche nuovo elettrodomestico pieno di polvere. Ma d’estate l’odore preminente, per me, è quello delizioso di crema o di caramello o di altri ingredienti che fuoriesce dalla bottega di Mast’Arturo che produce gelati con uno strana macchina: una grande manovella, azionata a mano, fa agitare una frusta in un capiente contenitore circondato da ghiaccio. Produce un piacevole rumore e qualche volta il buon uomo mi fa cimentare a girare la manovella. Volentieri eseguo quanto mi viene detto, con la speranza di ottenere, alla fine, il meritato premio: un piccolo cono riempito di gelato che quasi subito si scioglie, per cui devo velocemente leccare, altrimenti non solo perdo tutto ma può succedere anche che mi imbratti. Mamma dice che il cono, una volta mangiato il gelato, va buttato perché potrebbe far male, ma io disattendo il suo consiglio: è una cosa talmente rara e deliziosa che il tutto va assaporato fino alla fine senza tralasciare nulla. Lo ritengo meglio del pezzo di ghiaccio che pure è gradevole.

’A chianca ’i cumpà Tatonno è pervasa dall’odore della carne cruda ma, entrando, mi dà un senso di frescura. Dietro l’alto bancone si vede una grande ghiacciaia. Sui lati, alle pareti del negozio, sorretti da robusti ganci d’acciaio, pendono i quarti di vitellone, catene di salsicce che adoro e, in un determinato giorno della settimana, anche la trippa, piuttosto scura, ancora grondante d’acqua. L’assaporo mentre la guardo ma mi attira soprattutto l’uomo che, mentre taglia a mano, con grandi coltellacci, le fettine in modo perfetto, si inumidisce di continuo le labbra, quasi per non perdere la concentrazione. La bianca rotula del ginocchio dell’animale si apre come guscio di noce sul grande ceppo, sotto il colpo secco e preciso di una mannaia e nessun osso si frantuma, anche quello più ostinato. Di fronte si estende u’ ciardino con una selva di rovi sul muro dove qualche volta, a carnevale, mettiamo un pupazzo.

A carnevale mi devo mascherare in modo da non essere riconosciuto, altrimenti…

Calo sulla testa un vecchio cappello di zio Pasquale, di quando aveva fatto il soldato in marina, metto una rete davanti al viso ed esco pavoneggiandomi. I parenti fanno finta di non conoscermi. All’altezza della casa di Bafarone, vicino alle scale, incontro Iolanda e chiedo, con un po’ d’ansia, se mi riconosce; in quel momento arriva Nino, anche lui mascherato con due trecce posticce. Iolanda non fa in tempo a rispondere perché Nino interviene, dice il mio nome e scappa, cerca di guadagnare la via di casa. Lo inseguo e gli stacco le due trecce; nello stesso tempo sono volati via cappello e rete; non mi rimane altro che ritornare a casa, anche un po’ amareggiato per aver litigato con un amico.

Prima di arrivare a casa mia, sulla destra, c’è un arco e delle scalette, molto strette, che portano alla banchina nuova poi, di seguito, la casa di zio Peppe e zia Uliana (che nome strano! noi la chiamiamo Liliana), altro rifugio in caso di calamità e dove sono accolto sempre volentieri. Qualche volta, in quella casa, incontro anche nonna Maria ‘Razia che, a dire la verità, mi mette un po’ in soggezione. Di seguito, la casa di cumpà Tatonno ‘o chianchiere che ha due figlie, Bettina e Maria, e due figli, Aniello e Silverio, di cui il primo abita a Roma.

Di fronte  c’è il laboratorio artigianale di Vittorio u’ scarpar’ .                     .

Si sa che le scarpe devono proteggere i piedi, ma spesso avviene il contrario perché i piedi si aggrappano alla punta della scarpa che facilmente si apre lasciando intravedere, quando ci sono, calzini bucati o malconci. Il malcapitato che ha una simile iattura viene costantemente preso in giro; reagisce a volte anche in modo violento. Le suole sono per lo più fatte di cartone pressato cosicché, quando la strada è bagnata, anche i piedi subiscono la stessa sorte e, quando si rientra a casa, la prima cosa è quella di togliersi le scarpe e… asciugare i piedi! Per ovviare a tutto questo, esce la moda delle centrelle: ferri che vanno posti sotto la punta della scarpa e sotto il tacco in modo da tener sollevata la scarpa dal suolo. Vittorio ha un laboratorio pieno di odori acri, di creme per calzature e di colla; le pareti sono tappezzate di locandine di film, che io guardo con curiosità, senza capire: mi attira soprattutto uno, su cui campeggia il viso di una bella donna, capelli avvolti e sguardo rivolto chissà dove; sotto c’è scritto Anna Karenina, penso sia il suo nome.

Vittorio siede davanti a un banchetto su cui sono sistemate scatole piene di chiodi di varie lunghezze e spessore, martelli, tenaglie, qualche pennellino scuro, dei barattoli, qualche attrezzo tagliente che usa per mettere a filo la suola, spazzole nere ed un piccolo incudine: penso che per questo il suo lavoro sia meno importante di quello di Dumminico Zecca, che, invece ne possiede uno mastodontico. Vittorio, tenendo sulle gambe ’nu mandasino (grembiule) di colore scuro, ripara le scarpe o le rende alla moda. Ovviamente anch’io voglio mettere le centrelle: camminando faccio un allegro rumore e… si donghe ‘nu caucie’…

All’inizio della discesa c’è casa mia, composta da tre piani; noi occupiamo solo il primo e il secondo; al terzo abitano Clorinda, Vittorio, che è guardiano al faro della Guardia e la figlia Maria Cristina. Di fronte c’è il piccolo negozio di Filomena e poi gli scalini della Dragonara che, quando piove a dirotto, portano acqua in quantità con il rischio di allagamento. Per evitare questo, qualche volta mamma le dà il… benvenuto: apre la porta di casa e la fa uscire dal balcone di fronte, direttamente a mare.

 

Pasquale Scarpati

[Pazziell’ i’ criature e oltre… (2) – Continua]

1 Comment

1 Comment

  1. Silverio Lamonica

    29 Gennaio 2012 at 13:40

    Leggendo le interessanti memorie di Pasquale, rivivo anche io la mia infanzia. Ricordo molto bene “Mast’Arturo” che in primavera-estate girava col suo carrettino dei gelati per le strade di “Sant’Antuono” e Giancos non ancora asfaltate e quindi piene di pietre e buche (fine anni ’40). Noi ragazzini facevamo ressa intorno al carretto e con 5 o 10 lire compravamo il cono gelato. Però alcuni di noi, approfittando della confusione, mettevano – di nascosto – le pietre sotto le ruote del carretto. Quando Mast’Arturo, finita la distribuzione dei gelati, cercava di riprendere il cammino… hai voglia a spingere…. il carretto non avanzava di un centimetro…. e giù moccoli! E noi “monelli” a ridere a crepapelle…

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