di Carlo Bonlamperti
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VII
Secondo gli accordi presi con Baingio, la sera del 21 Toni si appresta a recarsi all’appuntamento telefonico con il capo. Prepara la frugale cena per Giorgia e appena la ragazza ha finito di consumarla, richiude la finestra e gli scuri e lega nuovamente le mani della prigioniera, assicurandosi che la corda che trattiene i piedi alla branda sia ben annodata. Al momento però di metterle il bavaglio, nota una certa reazione da parte della ragazza che, non aspettandosi questo comportamento da parte del carceriere dopo tre giorni di restrizioni ridotte, cerca di allontanare la testa apostrofandolo con aria risentita: – Che bisogno c’è d’imbavagliarmi? Ti ho già detto che non ho intenzione di gridare.
– Sono costretto a farlo – risponde Toni, riuscendo ad ottenere la collaborazione della ragazza – perché devo lasciarti un po’ da sola. Ma torno presto – aggiunge subito per non scoprire le sue carte; – sta tranquilla e cerca di fare un pisolino, ma soprattutto non fare nulla che possa mettermi in difficoltà con i miei soci, specialmente con il capo. Tu non lo sai, ma ti garantisco che con lui c’è poco da scherzare.
Giorgia, in lacrime, si lascia cadere sulla branda rivolta verso il muro mentre il giovane, dopo una rapida occhiata all’orologio, esce dalla grotta richiudendo a chiave la porta.
Toni si accorge che la marea sta montando ed è costretto ad ammettere che se pure riuscirà a raggiungere la riva all’asciutto, al ritorno dovrà sicuramente bagnarsi fino alle ginocchia per tornare sullo scoglio. Non potendo farci nulla, si concentra su dove mettere i piedi per non scivolare e, con l’agilità del suo fisico giovane, non impiega molto a raggiungere la strada e di lì a poco anche una cabina telefonica situata all’esterno di una tabaccheria. Inserisce una scheda prepagata nell’apparecchio e compone il numero che Baingio gli ha dato, riconoscendo dopo un paio di squilli la voce nasale del sardo.
– Pronto? – fa Toni.
– Ragazzo, bene stai? – gli risponde Baingio, con l’abitudine che hanno i sardi di posporre il verbo in una frase interrogativa – E l’ospite come si comporta? Mangia o ti dà problemi?
– Per ora tutto bene – gli riferisce Toni – niente che non riesca a controllare. Tu piuttosto, hai chiamato il padre?
– Eia [1], oggi pomeriggio. Voleva fare un po’ il galletto ma gli ho fatto capire chi è che comanda. Vuole una foto della figlia per assicurarsi che sta bene, e noi gliela manderemo. Stammi bene a sentire: compra una polaroid in un negozio di souvenir e procurati un giornale di oggi; poi le scatti un paio di foto, le metti in una busta e le spedisci al mio indirizzo. Ci penserò io a farle recapitare al padre in un’altra busta. Fa attenzione a riprendere la ragazza in primo piano, in modo che non si veda alcun particolare né della branda né della grotta. Capito hai? Fa le cose per bene, mi raccomando.
– Sta’ tranquillo – gli risponde Toni, prendendo mentalmente nota degli ordini del capo. Vorrebbe chiedergli quanto tempo dovrà ancora trascorrere con l’ostaggio in quella grotta umida mentre lui e lo spagnolo sono liberi di stare in città nei loro appartamenti; parlargli della noia mortale delle lunghe ore del giorno e della notte con l’orecchio teso ad ogni piccolo rumore fuori della porta; dell’abbrutimento di quel cibo in scatola; del disagio di non potersi lavare a dovere, e di mille sacrifici che solo lui è costretto a sopportare pur dividendo in parti uguali con gli altri il ricavato del riscatto; ma si trattiene dall’esporre le sue lamentele e, controllando l’orologio, conclude: – Forse è meglio che attacco, capo, non si sa mai. Ci risentiamo giovedì alla stessa ora.
Dall’altro capo del filo una specie di grugnito mette fine alla conversazione e subito dopo Toni, lasciata la cabina, controlla all’interno della tabaccheria gli orari del pullman per il centro e si accerta di poter ritornare a Le Forna con la corsa successiva. L’occhio gli cade sull’espositore dei giornali e il giovane ne approfitta per acquistare un paio di riviste sportive e una copia de Il Messaggero con la cronaca di Roma.
Mentre la corriera scende dalla collina verso la zona del porto, Toni sfoglia il quotidiano scorrendo l’ampia panoramica delle beghe politiche nazionali, delle cifre contraddittorie sull’adesione all’ultimo sciopero generale, della situazione economica in ripresa in quello scorcio d’anno, ma non trova alcuna notizia del sequestro nella pagina della cronaca. Il giovane se ne rallegra e, con i giornali sotto il braccio, varca la soglia di un negozio di fotografia come un turista qualsiasi e acquista una Polaroid economica.
E’ tardi quando il giovane scende al capolinea del pullman senza rispondere alla “buonanotte” che l’autista gl’indirizza sbadigliando vistosamente, preoccupandosi solo d’incamminarsi lungo la strada asfaltata senza farsi scoprire quando devia per il viottolo in discesa che porta a Calafonte.
Al chiarore della luna che, indifferente alla vicende umane, si riflette nel liquido specchio frammentando in mille schegge lucenti la scia che attraversa la piccola insenatura, lo scoglio appare come un gigante seduto in riva al mare, vestito di una coltre bianca per richiamare in superficie le creature degli abissi [2]. Giunto in prossimità dello scoglio, Toni deve togliersi le scarpe, rimboccarsi i pantaloni ed entrare nell’acqua fino alle ginocchia per raggiungere la roccia isolata da terra dall’alta marea, facendo attenzione a non bagnare le scarpe, i giornali e il pacchetto con la polaroid che tiene sollevati in alto.
Richiusa la porta, ha quasi l’impressione di entrare in una tomba, tanto è profondo il silenzio all’interno del rifugio e spettrale l’atmosfera creata dalla fioca luce della lampada che sta per esaurirsi. Sulla branda, appena rivelata dagli ultimi guizzi rossastri del gas e dal respiro quasi impercettibile, Giorgia giace immobile su di un fianco, con le mani legate dietro la schiena dalla parte del muro, abbandonata ad un sonno greve che sembra essere sceso sulla ragazza solo dopo la partenza del carceriere, come se l’ignoto meccanismo che l’ha tenuta sveglia e vigile fino a quel momento, per una strana ragione si sia sbloccato consentendole di riposare.
Toni vorrebbe toglierle il bavaglio, ma non ha il coraggio di svegliarla, tanto è colpito dall’apparente serenità di quell’essere indifeso che il destino ha messo nelle sue mani.
Nella penombra della grotta, rimane per un istante a guardare quel viso disteso, quei lineamenti non più alterati dalla paura e dal sospetto, e quasi si vergogna dei suoi sguardi che indugiano vigliaccamente sul corpo della ragazza, mentre lui, con il cuore in subbuglio, trattiene quasi il respiro nel timore che lei possa aprire gli occhi all’improvviso e sorprenderlo in quell’atteggiamento.
Si limita perciò a sciogliere solo la corda che assicura al letto i piedi della prigioniera usando tutta la delicatezza di cui è capace per non svegliarla, mentre la fiamma della lampada, esaurita l’ultima stilla di gas, lo lascia completamente al buio.
Il giovane è costretto ad aprire la finestrella per ricavare un po’ di luce dal chiarore della luna ed anche per arieggiare la grotta nella quale ristagna il cattivo odore dei residui del gas. Poi, esausto per la lunga giornata appena conclusa, si abbandona anche lui al sonno, crollando vestito sulla branda.
Note
[1] Espressione affermativa tipica dei sardi.
[2] Si dice che pesci, polpi e calamari siano attirati da oggetti bianchi e lucenti che fluttuano sulla superficie del mare e questo stratagemma viene adoperato dai pescatori per catturarli.
Carlo Bonlamperti
[La gabbia di pietra (7) – Continua]