Mare-letteratura

A ravoste

Riceviamo, e pubblichiamo con piacere, la segnalazione di un articolo di Ernesto Prudente, che riguarda l’aragosta “a ravoste”, da parte di un suo amico, il sig. Salvatore Argenziano, che ringraziamo per la collaborazione e l’attenzione che ci ha concesso.  L’articolo in questione parla dell’aragosta e delle “mbrucchièlle”, i bastimenti adibiti a vivaio per detti crostacei. Siccome l’argomento su questi tipi di bastimenti, preso oltretutto dagli stessi scritti di Ernesto, è stato da noi già trattato su questa stessa rubrica in data 25 settembre 2011, abbiamo pertanto ritenuto opportuno stralciarlo per evitare lungaggini e ripetizioni inutili, invitando comunque  il navigatore a seguirlo sulla precedente pubblicazione.

A ravoste

È tra le cose più nobili che possano arricchire la nostra tavola. Alla sua “aristocratica” carne corrisponde un elevato prezzo. Gli sfizi si pagano.
Ha rappresentato per Ponza, nel passato, l’attività pescatoria più rilevante. Parecchie case sono state costruite con il lavoro degli aragostai. L’aragosta è un crostaceo che vive da 15 ai 100 metri di profondità, ma può scendere anche a profondità maggiore. Il corpo robusto, di forma cilindrica, può raggiungere anche i 50 cm, di lunghezza. Le più grosse aragoste pescate dai nostri pescatori hanno avuto un peso oscillante dai 4 ai 5 Kg.
II capitano Raffaele Sandolo mi raccontò che, durante un suo viaggio nelle isole greche per l’acquisto di aragoste, gli venne portatata a bordo, oltre alle altre, una aragosta del peso di Kg. 10,750. La più grossa che egli avesse mai vista. Aveva il rostro come uno scalmo. Il corpo dell’aragosta è coperto da uno scudo. Ha due grandi corna frontali (il ponzese usa dire che, quando si regalano per raccomandazione, servono ad accecare), cinque zampe a destra e cinque a sinistra e su ogni lato ha una zampa con rostro che è la sua arma di offesa. I1 suo colore è rosso violetto. Vive nelle zone rocciose. Si nutre di ricci e molluschi.
Nemico acerrimo dell’aragosta è il polipo. Per due persone che si odiano è stato coniato il detto: “Me pàrene ‘u purpe e ‘a ravoste”. Viene attivamente ricercata e pescata per il suo alto prezzo dovuto alla pregiatezza delle sue carni.
La pesca dell’aragosta non si svolgeva globalmente nel mare di Ponza perché non c’era spazio per tutti e molti pescatori erano costretti a trasferirsi in diverse zone d’Italia per svolgere l’attività. La Sardegna era il luogo dove confluiva il maggior numero di barche e pescatori ponzesi. Essi partivano da Ponza nella prima decade di marzo e rientravano a settembre. E, dato che la maggior parte di essi erano della zona di Le Forna venne anticipata la festa di S. Silverio, patrono dell’isola, che avviene il 20 giugno, all’ultima domenica di febbraio. La festa ancora in auge, anche se sono spariti i motivi che l’hanno determinata, va sotto il nome di S. Silverio di Le Forna.
Le barche da pesca, gozzi, con gli equipaggi, in media quattro marinai per barca, venivano trasportate in Sardegna con le “mbrucchièlle” e quando queste non erano ancora pronte venivano caricate sulle navi mercantili che svolgevano regolari servizi tra i porti della Campania e quelli sardi per l’approvvigionamento dell’isola con derrate alimentari di ogni genere, terraglie, stoviglie, ceramiche e tante altre cose. In Sardegna caricavano per il continente formaggio, sughero, bestiame e cozze.


La vita, durante i sei mesi di pesca, si svolgeva sul piccolo gozzo. Questi pescatori si dedicavano esclusivamente alla pesca delle aragoste. L’attrezzo di pesca era la nassa. La nassa adibita alla pesca delle aragoste era di media grandezza e con le maglie non molto spesse. Non era né semplice, né facile “piazzare” le nasse sul fondo in modo che potessero pescare. Essa era tenuta sul fondo da una pietra molto pesante, “a mazzere”. Le nasse si usavano, a seconda della dislocazione degli scogli sul fondo, a gruppi di due o più di due. Il gruppo di due nasse era chiamato “pède i nasse”. Quello formato da più di due nasse, fino ad un massimo di dodici, era chiamato “patèrne”. Esse erano legate ad una corda alla cui estremità veniva sistemato il galleggiante, “petagne”. Un altro galleggiante più piccolo, “a capeture”, veniva sistemato, sempre vicino alla corda, per tenerla tesa in modo che non si impigliasse tra gli scogli. Le nasse venivano tirate giornalmente. Il lavoro veniva effettuato a mano. Di quei tempi non esistevano verricelli come non esistevano scandagli per conoscere il fondo. Le corde usate erano “u lubbane”, fatto con foglie di cocco, e “u rèste”, fatta con foglie di canna, che tagliavano le mani. Le aragoste pescate venivano poste in una nassa particolare, più consistente, “u marruffe” che serviva da deposito e da cui poi venivano prelevate per la vendita ai bastimenti vivai (mbrucchièlle) che le trasportavano nei porti di mercato: Marsiglia, Genova e Barcellona.
Quanti aneddoti si raccontano ancora sul passaggio delle aragoste dal pescatore al compratore. Il bastimento adibito al trasporto delle aragoste vive veniva chiamato “a mbrucchièlle”, il burchiello.

In questa stessa rubrica: “A mbrucchièlle” – leggi qui

Ai Vitiello seguirono i Sandolo e poi gli altri tanto che, intorno agli anni trenta, Ponza disponeva dell’unica marineria italiana per il trasporto dei crostacei ed era la più importante del Mediterraneo. I Sandolo divennero i padroni della situazione perchè due di loro, Gennarino e Silverio, si trasferirono a Marsiglia, presero anche la cittadinanza francese e divennero i più importanti commercianti di aragoste di quell’immenso mercato ittico. Gennarino Sandolo divenne anche il presidente della Camera di Commercio di Marsiglia. Tutto questo incentivò la pesca delle aragoste tanto che i pescatori ponzesi si trasferirono lungo tutta la costa italiana e arrivarono finanche all’isola La Galite, a nord di Tunisi, dove fondarono una colonia che ha lasciato, a tutt’oggi, le sue radici.La Sardegna rimaneva, però, il luoco più frequentato dai pescatori ponzesi. La presenza in Sardegna dei nostri lavoratori del mare ha fatto sì che molti altri ponzesi si trasferissero definitivamente in quell’isola. Olbia, La Maddalena, Carloforte, Cagliari, Santa Teresa di Gallura, Siniscola, PortoTorres, Alghero, Bosa, Tortolì furono i centri dove si stabilirono dedicandosi ad attività commerciali. Ancora oggi in Sardegna vi è una grossa colonia ponzese.

La vita dei pescatori su quei piccoli gozzetti è inenarrabile, indescrivibile. Una vita di stenti, difficile, faticosa, incomoda, disagiata. Era inumano sottoporsi a tutta quella serie di sacrifici. Vivevano, quasi sempre, vicino alle zone di pesca, si andava a remi e lontano dai centri abitati. L’approvvigionamento, pasta, gallette, patate lardo e qualche bottiglia di olio, veniva fatto dalle “mbrucchielle”.
L’impossibilità di raggiungere facilmente un qualsiasi mercato li costringeva a seccare alcuni loro prodotti come l’aragosta e la musdea. Gli altri pesci, come lo scorfano, non reggevano la salagione, si “arruginivano”, ed erano costretti a buttarli.
Prima di mettere le aragoste che avevano pescato nel “marruffe” ispezionavano quelle che già c’erano. Le aragoste che “lampiavano”, cioè che erano prossime a morire perché avevano subito ferite nello scontro con altre, venivano tolte e, dato che questo procedimento avveniva giornalmente, le aragoste in fin di vita erano tante. Cosa fare? Qualcuno risponderebbe: mangiarle, senza tener conto che il troppo stufa. Buttarle? Neanche a parlarne per i sacrifici a cui si era sottoposti. E allora? Trovarono il sistema di essiccarle. Le avrebbero portate a casa per l’inverno. Si staccava la parte codale, quella contenente la parte carnosa, e la si metteva in un tino contenente acqua di mare con l’aggiunta di sale. Dopo le 48 ore di stagionatura in salamoia la si lavava a mare e la si metteva al sole ad essiccare avendo cura di togliere lo scudo protettivo. Una volta secca la si riponeva nei sacchi che si custodivano in un luogo asciutto. Per cucinarle venivano messe a bagno come si fa per lo stocco.

L’aragosta era conosciuta anche dai romani. La mangiavano cotta alla griglia come si può desumere dal “De re coquinaria”, un libro di raccolte di ricette di varie epoche e di varie provenienze, scritto da Apicio, gastronomo. Spaccavano in due l’aragosta lasciandola nel guscio. La mettevano sulla griglia irrorandola continuamente, per non farla incartapecorire, con “coriandratum” o con “piperatum”, due tipi di salse, usate dai romani, a base di vino e spezie varie.

Ernesto Prudente

2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Vitiello

    20 Gennaio 2012 at 00:25

    La terza foto allegata all’articolo di Ernesto Prudente (a ravosta) vede presente mio padre Costantino Vitiello (Sacco) con il maglione scuro. Nascosto dalla nassa suo fratello Girolamo e il giovane in basso a sinistra con la maglietta bianca è il genero, Raffaele Vitiello (ristorante Punta Incenso). Ne approfitto per linkare un mio scritto sui pescatori ponzesi a Vignola, di qualche tempo fa: http://lacasadeisacco.blog.kataweb.it/2007/09/20/ritornare-a-vignola/
    Un saluto
    Sandro Vitiello

  2. Salvatore Argenziano

    20 Gennaio 2012 at 06:28

    Grazie per la pubblicazione. E’ sempre un piacere veder reso omaggio al carissimo e generoso Ernesto.
    Complimenti a voi per la vostra opera di tutela della tradizione Ponziana e saluti cordialissimi da un torrese che da cinquant’anni non vive a Torre e sa quanto vale il nostro passato.
    Salvatore

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