di Carlo Bonlamperti
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VI
La notte tra lunedì 20 e martedì 21 giugno, Baingio e Spagna arrivano a Formia con la corsa che il traghetto è solito fare al termine della festa patronale per riportare sulla terraferma artisti e orchestrali. I due prendono il primo treno per Roma e là si dividono per raggiungere ciascuno il suo domicilio dove attendere, secondo gli accordi, gli sviluppi del sequestro.
Baingio dà allo spagnolo le istruzioni per recuperare il furgone lasciato ad Anzio e fa appena in tempo a salire sull’ultimo treno per Civitavecchia. Arriva nel cuore della notte alla sua città d’adozione, si rifocilla al bar della stazione e a piedi raggiunge il piccolo appartamento situato in una viuzza alle spalle del porto, che ha scelto come domicilio alcuni anni prima, provenendo dalla Sardegna. Lui lo considera il rifugio ideale per la sua posizione strategica in caso di fuga e solo tra quelle mura si sente al sicuro.
La stanchezza lo vince solo ora che può rilassarsi, tanto che fa appena in tempo a mettersi a letto che già scivola in un sonno profondo, russando sonoramente.
***
A qualche decina di chilometri di distanza, quasi nello stesso istante, l’Ingegner Silvestrini si alza dal letto dopo aver dormito solo un paio d’ore e trascorso le rimanenti rigirandosi continuamente tra le lenzuola bagnate di sudore in preda ad una grande agitazione.
Si è svegliato con un grido disperato ed è ancora sotto l’impressione del sogno che ha appena fatto, nel quale ha creduto d’intravedere un sinistro presagio sulla sorte della figlia.
Giorgia gli è apparsa vestita di bianco e con gli occhi infossati nel viso diafano nell’atto di correre verso la madre che, spostandosi leggera sull’acqua, la invitava a seguirla. Non ha riconosciuto lo strano luogo dove le due donne si trovavano né saprebbe dire se quella era l’acqua di un fiume o del mare che, calma com’era, sembrava quasi dipinta. Ma la cosa che lo ha maggiormente sconvolto è stato accorgersi che la figlia sorrideva ed era contenta di seguire la madre e di unirsi a lei!
– No! – ripete tra sé l’Ingegnere rivolgendosi alla figlia – Non puoi lasciarmi anche tu. Non ora, non in questo modo!
Poi, con le lacrime agli occhi e i pugni serrati, sbotta tra i denti: – Maledetti bastardi! Campassi cent’anni, non vi darò tregua se farete del male a mia figlia!
***
Quando l’Ingegnere, al volante della Range Rover, prende la direzione di Aprilia, le strade di Roma sono ancora popolate da quella umanità mattiniera fatta di netturbini, pendolari e commercianti, per i quali la giornata comincia prima dell’alba.
A quell’ora non c’è il frastuono del traffico e dei clacson e dall’androne di qualche vecchio palazzo, che fa da cassa di risonanza, giunge persino la canzone di un lava scale in dialetto romanesco.
Per chiunque è un sollievo viaggiare con quel fresco e quella quiete; non per l’Ingegner Silvestrini che, scuro in volto e sovrapensiero, non si accorge neppure della variegata realtà che si trova appena oltre i vetri del suo fuoristrada, concentrato com’è sulla tragedia che da tre giorni assorbe ogni suo interesse e circoscrive il suo orizzonte.
Non si è neppure rasato né ha preso il caffé per non svegliare Pilar, e sul lavoro si mostra nervoso e scostante, suscitando la meraviglia degli ignari collaboratori, soprattutto di Luisa, la fedele segretaria, che non lo ha mai visto in quello stato.
A quest’ultima non sfugge il fatto che l’attenzione del suo capo sembra concentrata quasi esclusivamente sul telefono, fatto riparare prontamente il lunedì mattina, e sulle telefonate in arrivo che ha dato ordine di trasferire sulla sua linea personale. Anche a Pilar l’Ingegnere ha ordinato di chiamarlo immediatamente e a qualunque ora nel caso i rapitori lo contattino a casa.
Fissato per la sera l’appuntamento con il suo agente di Borsa e per l’indomani quello col direttore della sua banca, la prima parte della giornata trascorre senza che accadano avvenimenti degni di nota, se si esclude per lui l’impossibilità di applicarsi al meglio delle sue capacità nel lavoro di cui ha cercato inutilmente di farsi scudo contro l’ansia per la sorte della figlia.
Nel primo pomeriggio, qualche istante prima del termine della pausa pranzo, lo squillo del telefono lo fa sobbalzare mentre sta terminando il panino che si è fatto portare, e quasi gli manda il boccone di traverso. Nella voce che gli parla dall’altro capo del filo riconosce subito l’accento particolare della persona che il sabato precedente ha sequestrato sua figlia in quello stesso ufficio.
– Ingegner Silvestrini – gli fa il bandito – credo che non servano presentazioni, perché tu sai bene chi sono. I soldi preparati li hai?
– Sì, ti ho riconosciuto – gli risponde l’Ingegnere, facendo caso alla s blesa dell’uomo – ma prima di parlare dei soldi voglio sapere come sta mia figlia.
– Quanta fretta! Tua figlia sta benone, non preoccuparti – lo tranquillizza Baingio cercando di mostrarsi convincente – ma tu non hai ancora risposto alla mia domanda: i soldi li hai preparati o no?
– Li sto mettendo insieme – risponde l’Ingegnere, trattenendo a stento uno scatto d’ira – o credi che due milioni si possono trovare dalla sera alla mattina? – Poi, con decisione, prosegue: – Non mi basta che tu mi dica che mia figlia sta bene. Per crederti ho bisogno di sentire la sua voce e ricevere anche una sua foto con la data di oggi o di domani. Solo dopo parleremo dei soldi.
L’Ingegnere decide di parlare in questo modo per non dare al sardo l’impressione di essere totalmente alla sua mercè, nel tentativo di spuntare le migliori condizioni nella difficile trattativa che sta conducendo nell’interesse della figlia. E’ consapevole tuttavia di non poter tirare troppo la corda per non provocare l’irrigidimento dell’interlocutore e la totale chiusura alle sue richieste. Lui che nel suo lavoro conosce mille modi per portare a buon fine un accordo o una transazione commerciale, improvvisamente si rende conto di non avere alcuna esperienza in questo genere di negoziazione, ammesso che possa esistere un padre particolarmente esperto in una tragedia che ha coinvolto la propria figlia, che non augurerebbe neppure al suo peggior nemico.
Dall’altro capo del filo la risposta non si fa attendere e gli giunge tagliente come la lama di un coltello: – Guarda, Ingegnere, che non sei tu a dirigere le danze; perciò abbassa la cresta se non vuoi che tua figlia te la spedisca un pezzo alla volta. La foto la riceverai presto, ma non ti manderò altro. E ora apri bene le orecchie perché non lo ripeterò due volte: hai sei giorni di tempo per mettere assieme i due milioni, non un giorno di più. Lunedì prossimo ti chiamerò alla stessa ora e ti darò le istruzioni per la consegna del denaro. Cerca di non fare il furbo se ci tieni a ricevere tua figlia tutta intera. Adiosu! [1] –
La minaccia del sardo gela l’Ingegnere che, per un istante lungo un’eternità, pensa a cosa dire senza peggiorare ulteriormente la situazione, ma non ha il tempo di articolare neppure una parola che la comunicazione viene interrotta e lui rimane con la cornetta muta tra le mani, rigido come una statua di marmo.
Appena riesce ad emergere dall’abisso di sconforto in cui l’ha gettato la telefonata e a riordinare le idee, l’Ingegnere esamina una per una le parole del sardo che si sono fissate in maniera indelebile nella sua mente e tenta di fare il punto della situazione.
La prima cosa che ha colpito la sua attenzione è stato il tu con cui l’uomo gli si è rivolto fin dal momento dell’irruzione nell’ufficio. Ha l’impressione che quel modo di rivolgersi ad uno sconosciuto non si addica alle abitudini di un sardo e non possa essere dettato dalla semplice ignoranza o dal disprezzo che uno che compie un sopruso mostra normalmente nei confronti della vittima. Quel tu gli sembra derivato piuttosto dalla confidenza acquisita nel trattare con una persona gentile e disponibile alla cordialità ed anche da una frequentazione protrattasi nel tempo.
Un’altra cosa su cui l’Ingegnere si sofferma è quella s pronunciata in quel modo particolare che ancora una volta gli sembra di aver già sentito, mentre nella sua mente affiora la vaga immagine di due labbra atteggiate ad una sorta di smorfia facciale nel pronunciare quella consonante, senza che gli riesca di collegarle ad un volto ben definito.
Mentre si sforza di ricordare, il suo sguardo vaga smarrito da un oggetto all’altro dal piano della scrivania alle pareti dell’ufficio dove sono allineate le foto in formato gigante degli stabilimenti della Sunsystem, alcune delle quali con operai e dirigenti in posa davanti ai capannoni.
Ad un tratto, folgorato da un’idea improvvisa, l’Ingegnere si alza dalla poltrona e si avvicina ad una foto dello stabilimento sardo per esaminare da vicino i volti delle persone riprodotti al di sopra della didascalia: “Oristano – 16 settembre 1992”.
L’Ingegnere scorre con attenzione le figure fissate dall’obiettivo, e in quei volti sorridenti riconosce ora un dirigente, ora un impiegato, ora un operaio: persone che in vario modo hanno contribuito allo sviluppo della sua azienda e che in parte sono ancora alle sue dipendenze.
Di qualcuno gli vengono anche in mente ricordi di vita vissuta – alcuni lieti, altri tristi – ma su uno in particolare, dal fisico robusto e dal faccione tondo incorniciato da una barba incolta, la sua attenzione si concentra immediatamente, come calamitata dal ricordo di quella voce al telefono che gli concede solo “sei giorni” per raccogliere il denaro e della smorfia di quelle labbra che finalmente riesce ad attribuire ad un volto ben preciso.
Dalla sintesi operata dalla sua mente tra i ricordi e la foto, affiora anche il nome di quel dipendente a lui ben noto: Baingio Deidda, caporeparto del settore assemblaggio nello stabilimento di Oristano, licenziato tra il ’96 e il ’97 per aver causato per propria negligenza un grave infortunio ad un operaio!
L’Ingegnere ricorda che l’Azienda dovette farsi carico di una costosa azione di surroga da parte dell’Ente che risarcì l’infortunato e che toccò a lui stesso licenziare in tronco il Deidda per giusta causa, subendone le invettive e le minacce.
Di tanto in tanto, nei mesi che seguirono, lo Stabilimento fu oggetto di furti e danneggiamenti di modesta entità che tutti attribuirono al caporeparto licenziato, senza tuttavia che se ne trovassero mai le prove. Poi di Baingio Deidda l’Ingegnere non sentì più parlare fino al momento in cui, mettendo in atto il sequestro della figlia, torna prepotentemente alla ribalta incrociando nuovamente il destino di Oreste Silvestrini.
Più ci riflette, più l’Ingegnere ha la certezza che il rapimento di Giorgia sia opera di Deidda, dal momento che tutte le tessere di quel tragico mosaico trovano ora la loro collocazione: la conoscenza del luogo di lavoro e le sue abitudini, un’idea piuttosto precisa della consistenza patrimoniale dell’azienda, l’attaccamento a sua figlia, il tu pronunciato con quella particolare disinvoltura e infine, quasi un sigillo di autenticità, la s pronunciata in quella maniera unica e inconfondibile.
Ora che l’Ingegnere ha scoperto l’identità del malvivente che tiene prigioniera sua figlia, non sa se essere più sollevato o più preoccupato dal momento che, se è vero che conoscere il proprio nemico dà sempre un certo vantaggio, la conoscenza del profondo risentimento di Deidda nei suoi confronti lo fa rabbrividire. Inoltre, se da una parte può ritenere di avere la coscienza a posto per aver agito come qualunque altro capo di azienda avrebbe fatto nelle medesime circostanze, dall’altra si rende conto che se il sardo ha scelto di colpire proprio lui sequestrando sua figlia, lo ha fatto per una ragione fin troppo evidente: vendicarsi del torto che ritiene di aver subìto con il licenziamento per ricavare da questa azione un risarcimento più che congruo.
Carlo Bonlamperti
[La gabbia di pietra (6) – Continua]
[1] Addio.