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La gabbia di pietra (4)

[1]

di Carlo Bonlamperti

 

IV

Appena usciti i due complici, Toni si avvicina a Giorgia, ormai prossima al completo risveglio, e la imbavaglia per evitare che gridi.

La ragazza, ancora vestita con l’abito da sera, si contorce sul materasso, impedita nei movimenti dalle mani e dai piedi legati.

Appena apre gli occhi, uno sguardo di terrore compare sul suo viso alla vista dell’uomo incappucciato chino su di lei. Vorrebbe gridare, ma il bavaglio le consente solo di emettere gemiti di paura, mentre cerca di raggomitolarsi il più possibile verso il muro, alla ricerca di un improbabile rifugio che la nasconda alla vista di quella figura che la terrorizza.

Attraverso le lacrime che non riesce a trattenere, si accorge che il muro è in realtà la parete grezza di una grotta e questa constatazione non fa che aggiungere nuovo terrore a quello che già prova.

Non sa dove si trovi, né chi sia e cosa voglia da lei quell’uomo incappucciato, ma soprattutto per quale motivo e da quanto la tenga prigioniera in quel luogo.  Mentre cerca di riordinare le idee, si guarda, e il vestito che indossa le ricorda il programma della sera precedente, l’aggressione degli sconosciuti allo stabilimento del padre e poi… il vuoto completo fino a quel momento. Le sembra sia trascorso tanto tempo e invece tutto è avvenuto in una sola notte, la più lunga e terribile notte della sua vita.

Man mano che prende coscienza del fatto di essere un ostaggio in mano a dei sequestratori, una rabbia impotente s’impadronisce di lei assieme ad un profondo senso d’incertezza e di angoscia per la sua sorte. Si chiede perché proprio lei e perché suo padre, una persona umana e gentile già duramente provata dalla vita, ma soprattutto senza nemici e stimata dai suoi dipendenti. Per giunta, ad Aprilia e dintorni ci sono sicuramente imprenditori e professionisti assai più ricchi di suo padre; quindi perché proprio lui? Non capisce neppure il motivo di un sequestro di persona, assai più rischioso e difficile da gestire rispetto ad una rapina, ma forse le sfugge qualcosa o non afferra appieno la logica perversa di chi è arrivato a tanto.

Non riuscendo a dare una risposta a nessuno di quegli interrogativi, al colmo della disperazione decide di rivolgersi direttamente allo sconosciuto che la sorveglia, anche a costo di rischiare eventualmente una sua reazione violenta. Prima o poi dovrà pur toglierle quel bavaglio per farla bere e mangiare, e allora gli parlerà.

Come se avesse letto i suoi pensieri, Toni le si avvicina:

– Vuoi mangiare qualcosa? – le dice toccandole una spalla.

Giorgia trasale a quel contatto improvviso, e istintivamente si rannicchia verso il muro, disorientata dal fatto che l’iniziativa che intendeva prendere lei sia invece partita dal carceriere. Il timbro della voce, tuttavia, le dice che appartiene ad una persona giovane, forse con appena qualche anno più di lei, e questo fatto, pur con i dubbi e le riserve del caso, la spinge a voltarsi cautamente verso lo sconosciuto.

Per la seconda volta Toni ha la possibilità di vedere bene in viso quella ragazza splendida, dai lineamenti delicati e regolari e dai capelli color miele, che ora fissa su di lui i grandi occhi celesti arrossati dal pianto.

Già sul peschereccio, quando le aveva sollevato la testa per consentirle di bere, nonostante la fioca luce della stiva, era rimasto colpito dalla sua bellezza, ed ora che, con estrema cautela si accinge a toglierle il bavaglio dalla bocca, si accorge che gli tremano le mani.

– Non griderai, vero? – le dice con cautela prima di completare l’operazione.

La ragazza, timorosa, fa segno di no con la testa, fissando gli occhi di Toni, ora assai più vicini, attraverso i fori del passamontagna.

– Ti porto del latte caldo, va bene?

Nessuna risposta.

– Non ti piace? Vuoi un caffé?

Giorgia continua a non rispondere.

– Lo so che stai scomoda così – le fa il giovane indicando le corde – Ma quando devi mangiare, te le libero le mani, sta’ tranquilla – Poi, chiaramente a disagio, si volta per non guardare gli occhi della ragazza che lo condannano e si accosta al fornello per riscaldare il latte.

Alle sue spalle, Giorgia singhiozza e, con la voce rotta dal pianto, riesce solo a dire: – Perché?…Perché?

– Perché? Lo sai il perché, accidenti! – risponde stizzito Toni senza voltarsi – È   per i soldi, solo per i soldi. Per questo si fanno i sequestri, no? C’è chi i soldi li ruba e chi li rapina. Noi ce li procuriamo sequestrando gente ricca. Mi risulta che tuo padre sia ricco abbastanza, quindi non succede niente se gli portiamo via un po’ di grana in cambio della tua restituzione. Noi non li ammazziamo gli ostaggi né facciamo loro del male; perciò se tuo padre ci dà quello che chiediamo, tu te ne torni presto a casa e ognuno per la sua strada. E poi, se vuoi proprio saperlo, io in questa storia c’entro poco o nulla. Hanno fatto tutto loro: il sardo e lo spagnolo. Io sono stato solo incaricato di sorvegliarti, di darti da mangiare e di fare le telefonate.

E dopo aver liberato le mani alla ragazza per consentirle di bere il latte caldo che le ha portato, col tono dimesso di chi quasi si scusa di dover fare una cosa che non vorrebbe fare, a capo chino, riprende:

– Io purtroppo non ho come te un padre e una madre che pensano al mio avvenire. Non li ho mai conosciuti i miei genitori e, da quando sono al mondo, non ho il ricordo di una carezza né di una parola dolce di mia madre. Le prime persone che ho conosciuto da quando ho cominciato a capire sono state delle monache, quelle dell’istituto di Roma per l’infanzia abbandonata: vestite di nero e pronte a castigarti ad ogni minimo sbaglio. Per educarci, dicevano. Per fortuna qualcuna buona c’era: erano soprattutto quelle che non si occupavano direttamente di noi ma solo della casa e della cucina. Donne semplici che sgobbavano. Ne ricordo una molto vecchia che lavorava sempre a maglia, seduta d’inverno al caldo dei fornelli, che noi chiamavamo “nonna”. Aveva sempre una caramella o un cioccolatino per tutti, che tirava fuori da quelle enormi tasche nascoste tra le pieghe dell’abito. Un anno, a Natale, mi regalò un pullover di lana che aveva fatto con le sue mani e io ne fui felicissimo, tanto che una volta mi azzuffai violentemente con un compagno che, strattonandomi durante il gioco, vi aveva causato uno strappo. Qualche tempo dopo, quella suorina morì, e fu come se con lei fosse morta anche la mia infanzia: avevo perso l’unica persona che mi aveva dato qualcosa di molto simile all’amore di una mamma e di una nonna allo stesso tempo. Il resto della mia vita è stato un continuo girovagare tra un istituto e l’altro, fino ad una scuola professionale con convitto gestita dai Salesiani. Lì avrei dovuto imparare a fare il tornitore meccanico ma, raggiunti i diciott’anni, sono sparito dalla circolazione andando a vivere per conto mio.

Toni s’interrompe quando Giorgia gli restituisce la tazza. Per un istante rimane indeciso se rimettere o no il bavaglio alla ragazza, ma alla fine decide di correre il rischio, contravvenendo per la prima volta ad una precisa raccomandazione di Baingio.

Mentre Toni parlava, Giorgia lo ascoltava a capo chino, sorbendo il latte con il cucchiaio, ma in quel momento, cogliendo forse il suo attimo d’indecisione riguardo al bavaglio, lo fissa dritto negli occhi in atteggiamento di sfida con l’intenzione di metterlo a disagio e sfruttare a proprio vantaggio lo stato di soggezione in cui si trova e tentare, partendo da questa evidenza, di far breccia nello sconosciuto insinuando in lui il senso di colpa.

– Neppure io ho più mia madre – gli dice Giorgia in risposta alla sua affermazione – e forse mi manca più di te proprio perché l’ho conosciuta e ho vissuto con lei fino a quando avevo otto anni. Non è mai sufficiente il tempo che vivi con tua madre per ripagarla di quello che ha fatto per te, figurati se possono bastare appena otto anni, fossero pure i più intensi, i più pieni e profondi della vita di una figlia. Se credi che si possa fare l’abitudine a vivere con tua madre, a sapere che puoi contare su di lei in ogni momento, attingendo da lei come da un  pozzo senza fondo, ti sbagli: ne sentirai la mancanza anche se camperai cent’anni.

Mio padre, quello che avete legato e minacciato per portarmi via, ha fatto di tutto per farmi anche da madre. È  il padre migliore che si possa desiderare, non mi fa mancare mai nulla e s’interessa continuamente di me pur con i suoi impegni e le sue responsabilità, ma non è la stessa cosa. Gli avete spezzato il cuore con il mio rapimento e vedrete che farà di tutto pur di ottenere la mia liberazione, magari indebitandosi fino al collo. Quindi, poiché sono solo soldi che chiedete, chiamatelo subito e non fatelo soffrire più di quanto ha già sofferto.

– Ogni cosa a suo tempo – le risponde asciutto Toni, tentando di ostentare sicurezza nel tono della voce dopo che la ragazza, con la sua risposta, ha in parte riequilibrato l’emotività suscitata dal racconto della sua vita da sbandato. Se dipendesse da lui, le direbbe che devono passare ancora due giorni prima della telefonata a suo padre, ma, soprattutto in questa fase del sequestro, proprio non se la sente di trasgredire nuovamente gli ordini di Baingio che gli risuonano ancora nelle orecchie. Del resto, la telefonata è un elemento determinante per la buona riuscita del piano, e il suo effetto non può assolutamente essere vanificato dalla comunicazione dei dettagli al sequestrato che vi vede l’unico legame con il mondo esterno e vi si appiglia con tutte le sue forze. Vorrebbe anche dire alla ragazza di star tranquilla perché lui non ha intenzione di farle del male, anzi lui stesso non vede l’ora che la cosa finisca per uscire dallo stato di disagio in cui si trova nei suoi confronti e sparire subito dopo aver intascato la sua parte di denaro. Alla fine, tuttavia, nel giovane prevale la cieca obbedienza agli ordini del capo e un assurdo senso di lealtà verso quei tre delinquenti con i quali ha architettato il sequestro. Così, per dare alla ragazza un segnale di fermezza e per dimostrarle che è pienamente padrone della situazione, svia il discorso portandolo sulla realtà che è sotto i loro occhi:

– Ora spengo la lampada e apro la finestra, ma stai ben attenta perché ti tengo d’occhio. Alla prima reazione, al primo tentativo di gridare, ti rimetto il bavaglio e la richiudo, così ti lascio al buio e senza aria fresca mentre io me ne vado là fuori.

Giorgia annuisce e si mostra docile col proposito di ottenere dal suo carceriere le maggiori concessioni possibili, considerata la situazione, ed acuisce al massimo i propri sensi con l’intento di scoprire possibilmente dove si trovi prigioniera.

Fin dal suo risveglio, dal tipo di grotta e dall’umidità che avverte nell’aria ha avuto la sensazione di trovarsi in riva al mare. Ora questa impressione si rafforza per lo sciabordio che sente attraverso la finestra e l’odore di salmastro che, assieme alla luce del giorno, filtra all’interno della grotta. Di riflesso, nella mente della ragazza cominciano a scorrere le immagini delle località costiere del Lazio e della Toscana, che conosce per esservi stata, e che possono presentare anfratti e caverne simili a quella dove si trova, senza approdare però a nessun risultato concreto. Mai e poi mai, infatti, potrebbe venirle in mente di essere stata trasportata per mare addirittura fino ad uno scoglio dell’Isola di Ponza!

[2]

Un’altra cosa sulla quale riflette e che, col passare delle ore, la rafforza nella sua convinzione, è che probabilmente il carceriere è uno solo. Certo, altri suoi complici potrebbero stazionare o alloggiare nelle vicinanze e magari tornare da un momento all’altro, ma quell’unica branda, oltre la sua, sistemata nella grotta, le fa capire che a sorvegliarla direttamente sarà solo quel giovane delinquente dal comportamento ambiguo e insicuro; per la qual cosa non sa se essere contenta o stare in guardia, perché questo genere di persone l’ha sempre messa a disagio, abituata com’è stata fin da bambina alle certezze fornite da una famiglia sana e al comportamento di un padre che, come imprenditore, ha fatto della fermezza e della decisione alcune delle sue fondamentali regole di vita.

Per un solo istante la sua mente accarezza anche l’idea della fuga, che però, in quella fase in cui le incognite prevalgono sulle certezze, le sembra oggettivamente improbabile e quindi da abbandonare.

Non le resta che concentrarsi sul carceriere, studiandone il comportamento e gli eventuali segni di debolezza e arrivando persino ad ipotizzare di usare le sottili risorse femminili che ogni donna nella sua situazione non si farebbe scrupolo di sfoderare.

Con gli scuri della finestra aperti, Giorgia vede sul grezzo pavimento della grotta disegnarsi l’ombra della grata che divide in riquadri la luce del sole di quella domenica d’estate e non può fare a meno di pensare alla partita a tennis programmata con il padre per quella mattina e purtroppo andata in fumo.

[3]

Già, il padre: ne immagina il dolore e lo stato di prostrazione provocato dal suo rapimento ma anche la possibile sua reazione dettata dall’attaccamento a lei. Avrà fatto ricorso alle forze dell’ordine denunciando il sequestro, oppure, facendo violenza alla sua intenzione di agire, si sarà imposto di attendere il contatto dei rapitori per non mettere a repentaglio la sua vita?

 

Carlo Bonlamperti

[4]

[La gabbia di pietra (4) – Continua]