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Ventotene e il domicilio coatto (2)

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Proposto da Silverio Lamonica

 

Continua la lunga e dettagliata relazione dell’ignoto parlamentare al  Ministero dell’Interno circa il diniego del sussidio di diecimila lire al Comune di Ponza, immediatamente dopo l’Unità d’Italia, come riportato dalla “GAZZETTA PIEMONTESE – Torino, martedì 16 dicembre 1879

Per la prima parte dell’articolo: leggi qui [2]

Continua la lunga e dettagliata relazione dell’ignoto parlamentare al  Ministero dell’Interno circa il diniego del sussidio di diecimila lire al Comune di Ponza, immediatamente dopo l’Unità d’Italia, come riportato dalla “GAZZETTA PIEMONTESE – Torino, martedì 16 dicembre 1879

 

“Ma quale miglioramento morale si può attendere da individui che sono raggruppati a centinaia sopra un piccolo spazio di terra e obbligati a convivere insieme oziando e oziando e sempre oziando?

Il domicilio coatto diventa in questo modo l’occasione, è doloroso dirlo, necessaria di future associazioni di malfattori, tanto più pericolose, in quanto che possono prendere forme di colleganze interprovinciali, rinsaldate dal comune vincolo degli odii, dei desiderii di vendetta, delle cupidigie, dei delitti.

Di che cosa infatti volete che ragionino, conversando tutto il giorno fra loro, codesti uomini, già abituati al mal fare, se non delle male imprese per lo addietro da ciascuno compiute e di quelle a cui, riavendo la libertà, potranno insieme dedicarsi? Altra scuola fra essi non può sussistere che quella del mutuo insegnamento di quelle specie di reati o di quelle specialità di modi pel compimento dei reati, che sono proprie di questa o di quella provincia; donde il perfezionamento nel male, anziché un camminamento al bene.

Non fa perciò e non può far meraviglia il fatto purtroppo vero e indiscutibile, che dal domicilio coatto la maggior parte degli individui ritornino più tristi, più corrotti, più facinorosi di prima.

Ed è tale e tanta e così radicata oramai questa convinzione, che allorquando è spirato il termine della condanna e il Ministero interroga i prefetti e questori sulla convenienza di restituire al rispetto comune il coatto pel quale il termine è scaduto, prefetti e questori in generale rispondono col no. E il no è altresì generalmente ascoltato; tanto che in ogni colonia di domiciliati coatti havvi un contingente non iscarso di coloro pei quali la pena sarebbe finita, ma i quali stanno ancora là in isfregio alla legge. Così avviene che mentre il più feroce sanguinario, il quale abbia scontato la pena di vent’anni di lavori forzati, non può essere sostenuto nel Bagno un giorno di più dopo il compìto ventennio, mentre verrebbe anzi punito come colpevole il direttore del Bagno che osasse prolungargli di ventiquattro ore una pena che la legge considera finita; ogni condannato a domicilio coatto è esposto invece a non sapere mai quando sarà per verificarsi di fatto il termine di una pena che pure gli è stata inflitta ad epoca determinata. E se questo non  sia un pervertimento assoluto di tutti i principi su cui posa la legislazione  penale di uno Stato civile, lo lascio giudicare a voi lettori.

Quando io vidi la colonia dei domiciliati coatti di Ventotene, coloro che erano in codesta condizione di flagrante illegalità costituivano, senza esagerazione, una terza parte per lo meno del numero totale. Per alcuni la illegalità era stata sanata una prima volta mediante una rinnovazione di condanna; ma anche il nuovo periodo era stato scontato; e la situazione necessariamente era peggiorata.

Se non che è tempo oramai che io vi dica come la vidi codesta colonia.

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Arrivai che il giorno era alto e tutti i coatti si trovavano a zonzo per la piazza maggiore dell’isola e per la via che scende verso il porto, il quale porto è piuttosto un canale e non è sempre di facile approdo.

L’impressione che ricevetti salendo quella via e fermandomi sulla piazza, fu dolorosa e disgustosa ad un tempo, e tale che, mio malgrado, mi rammentò quella che io ebbi a provare visitando certi disgraziati manicomii, di cui purtroppo, in tanto lume di civiltà, non scarseggia Italia nostra, nei quali gli infermi di mente sono cacciati insieme, in date ore del giorno, nel recinto di vasti cortili, senza distinzione di età, senza riguardi alla diversità della loro precedente condizione, senza contemplazioni alle differenti specie della mania da cui sono affetti.

Ho visto le stesse facce scialbe e sparute, lo stesso disordine delle vestimenta, lo stesso muoversi incomposto, lo stesso vociare confuso; e la immobile stupidità degli uni e il perpetuo correre intorno degli altri; e questi starsene sdraiati al suolo sotto la sferza del sole e quelli sghignazzare giocando ed altri ancora accalorarsi, bestemmiando nelle contese.

E quali li ho visti, tali stanno tutto il giorno, nelle stesse località; ché l’isola, come dissi, è già piccola assai; ed essi non hanno facoltà di scostarsi dalla piazza e dalla via che mette al mare, senza esporsi al pericolo di una punizione, la quale si traduce in una diminuzione di quei cinquanta centesimi che il Governo fa loro distribuire perché pensino a non morire di fame.

Non ho bisogno di dirvi, essendo facile immaginarlo, come vi siano alcuni, i quali spendono tutti i cinquanta centesimi in solo pane; e poi trovano di non essere sazi abbastanza.

Altri, cercando di sottrarsi all’ozio col gioco, compromettono ogni giorno irreparabilmente una parte di quei cinquanta centesimi e con quanto loro rimane non hanno di che satollarsi convenientemente; ond’è che fra il bisogno di soddisfare il vizio del gioco e il bisogno di soddisfare le necessità della vita, finiscono per danneggiare anche il loro fisico, il quale non può non risentire gli effetti dello scarso nutrimento.

Per contrastare questi effetti ricorrono molti ad un rimedio che è peggiore del male e che, una volta adottato, non può da que’ disgraziati venire più smesso, quello dei liquori e delle bevande spiritose.

E tutto questo accade per la impossibilità ch’essi hanno di trovare quel lavoro che dovrebbe essere la prima condizione del loro allontanamento dal teatro delle precedenti loro male azioni, il primo elemento su cui basare il tentativo della loro redenzione morale.

Alcuni talvolta, non mai più di un decimo della totalità, trovano accidentalmente un po’ di lavoro; ma è lavoro affatto temporaneo e assai male retribuito. Ho saputo, a cagion di esempio, di alcuni che furono assunti a prestar l’opera loro come muratori e vennero pagati in ragione di trenta centesimi al giorno: una mercede che pareva un’ironia e che veniva accolta come una provvidenza!

Giudicando dai mezzi che hanno pel proprio nutrimento, potete immaginare come siano vestiti i coatti di Ventotene. Gli abiti coi quali arrivano, rimangono loro addosso fino a completa consunzione. Quando diventa indispensabile il vestirli, provvede in qualche modo il Governo, ma il costo dei pantaloni o della giubba di tela che vengono loro forniti è prelevato nella misura di dieci centesimi al giorno dai cinquanta destinati alla loro alimentazione. Lo enuncio, non faccio commenti.

Ma aggiungo che vi son quelli tra i coatti che, per non giocare il pane, giocano i vestiti e in breve si riducono interamente ignudi; cosicché li vedi dal collo ai piedi ravvoltolati in una coperta da letto, oppure stesi notte e giorno cacciati nel pagliericcio, tenendone fuori soltanto la testa; sicché, a loro confronto, quelli che s’incontrano laceri, unti, generalmente scalzi, sono da considerarsi in condizioni relativamente buone.

Durante la notte e anche nelle ore più cocenti del meriggio, i coatti vengono raccolti in una specie di castello, cinto da fossati, avanzo di un’antica torre merlata, aggiunta di un secondo piano; torre costruita un dì per resistere alle orde barbaresche, ma di cui, fattane la  conquista, le orde stesse si valevano per dominare il circostante mare e muovere più sicure alle consuete piraterie.

Fu anzi per paura dei barbari vittoriosi che la popolazione di Ventotene emigrò tutta quanta e lasciò l’isola per molti anni interamente abbandonata, fin tanto che una colonia non fu mandata nel 1770 a ripopolarla.

L’interno della torre, o castello che sia, è abbastanza conveniente; e non è certo l’aria che ivi faccia difetto; perché i venti entrano liberamente col sole da tutte le finestre in tutti i locali, tranne che in quelli del piano che comunica coi fossati e nel quale sono poste le celle di punizione, umide, oscure, e popolate assai più di frequente che non sarebbe desiderabile anche per considerazioni d’igiene.

Il condannare un coatto alla cella di punizione è cosa che non dipende né dal pretore che pare esista a Ventotene, né da un Consiglio di disciplina; dipende soltanto dal direttore della colonia, il quale è un semplice delegato di P. S., affrancato, per le condizioni stesse della sua residenza, dalla molestia di frequenti controllerie.

Or siccome tutto ciò che sa di arbitrio fa ribellare anche la natura più perversa, così avviene che queste punizioni, in generale, inaspriscono l’animo dei coatti e li rendono vieppiù ribelli ad ogni idea di disciplina.” (…continua)

[Ventotene e il domicilio coatto (2) – Continua]