Storia

La deportazione libica a Ponza (2)

di Gino Usai

Venni invitato a questo terzo seminario sugli esiliati libici nel periodo coloniale a tenere una relazione, in qualità di insegnante e di ricercatore di storia locale.  Mi pregio di pubblicare di seguito alcuni stralci di quell’intervento:

“Voglio innanzitutto ringraziare L’ISIAO e il Centro Libico per gli Studi Storici di Tripoli per aver scelto Ponza come sede del terzo seminario sugli esiliati libici. E sento di doverli ringraziare a nome di tutta la cittadinanza, perché il seminario di oggi ci sta rivelando un tratto di storia – che ha interessato la nostra isola – triste e dolorosa, di cui sappiamo poco. Non ci sono stati studi e approfondimenti sulla deportazione libica a Ponza; quel poco che sappiamo lo dobbiamo essenzialmente ai  ricordi sbiaditi dei nostri nonni. Una vecchia signora mi ha raccontato che la madre, negli anni della deportazione libica, quando giungeva a Ponza la nave della Croce Rossa che periodicamente portava i prigionieri, lei, fanciulla di 15 anni, correva al molo, a  casa delle sue amichette. Dal  terrazzo vedevano sbarcare sulla spiaggia della Caletta i deportati libici traghettati con dei barchini. Qui venivano lavati e disinfestati, prima di essere avviati ai loro alloggi.  Quando poi a Ponza giunse in visita ufficiale il principino Umberto, venne accolto nella piazzetta di S. Maria dalle autorità  e da  un gruppo di libici in costume, che in suo onore si esibirono in una danza folkloristica.

(…) L’ondata retorica che investì Italia in occasione dell’invasione della Libia tendente a convincere l’opinione pubblica dell’opera civilizzatrice che ci attendeva in Africa, giunse anche a Ponza; ma la maggior parte del popolo, composta da umilissimi contadini e pescatori, non si lasciò incantare dalla propaganda. Certamente provò compassione per i deportati, e li accolse con la stessa gentilezza e simpatia con la quale successivamente accoglierà le migliaia di  antifascisti che Mussolini  confinò  sull’isola, dal 1928 al 1939. (…) Noi non sappiamo a quali ristrettezze e a quali obblighi vennero sottoposti i libici a Ponza; (…) Sappiamo però che a loro venne accordato un trattamento ancora più incivile di quello fatto ai domiciliati coatti.

(…) Scrive Corvisieri: “I Libici furono costretti a dormire, in sei-sette in piccole camerette, su un palco di paglia e senza coperte. Non fu loro assegnato né un asciugamano né un sacco per chiudere le loro povere cose. Il vitto giornaliero consisteva in 750 grammi di pane e una minestra di 200 grammi; la carne la vedevano soltanto una volta alla settimana. I prigionieri erano quasi tutti beduini abituati a vivere nel deserto, alla vita nomade a un clima caldo”. (…) La denutrizione e le pessime condizioni igieniche ebbero conseguenze fatali sulla salute di molti libici: nei primi sei mesi del 1912 ne morirono ben tredici mentre numerosi altri contraevano gravi malattie polmonari. I cadaveri dei prigionieri furono gettati in una fossa comune fuori del cimitero.”

Il caso ha voluto che l’arrivo dei deportati a Ponza, sul finire del 1911, coincidesse con la  cessazione del domicilio coatto e con la crisi dell’amministrazione Comunale. Il 15 dicembre infatti il Consiglio di Stato annullò le elezioni amministrative e il Prefetto inviò sull’isola il Commissario Prefettizio Cav. Claudio Rugarli, il quale il 24 marzo 1912, al termine del suo lavoro, nel congedarsi, stilò una relazione del suo mandato. In questa relazione definisce Ponza “bella e ridente isola, che è gran gemma, d’inestimabil valore, emergente in amplissimo mare, dove, nell’aria balsamica, la natura sorride incantevolmente” la quale però “difetta di viabilità, di acqua potabile, di edifizi scolastici, d’una casa comunale propria” dove la nettezza urbana lasciava molto a desiderare.

Il Commissario per ripulire l’isola fece richiesta  di una decina di arabi al direttore della Colonia dei deportati Musco Nazzareno, il quale esaudì volentieri la richiesta.

In pochi giorni gli arabi ripulirono per bene le strade del paese.

Annota il Rugarli:

“Gli arabi lavoravano di buona voglia e coi pochi soldi che guadagnano, comprano sigarette, piacendo ad essi fumare, assai più che mangiare.

Io che scambio con loro qualche parola in arabo (appena qualche parola) che imparai, a Massaua, ove stetti due anni, sono salutato dagli spazzini arabi, quando m’incontrano, così:

– SALAM  ALEKUM.

Ed io rispondo:

– ALEKUM EL SALAM.

Ridete pure, Signori, ma vi assicuro che questo è il vero, genuino saluto che gli arabi si scambiano tra loro, e che, tradotto in italiano, dice:

– LA SALUTE SIA CON VOI.

– CON VOI SIA LA SALUTE.”

 

Gino Usai

[La deportazione libica a Ponza (2) – Continua]

 

 

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