Bergamini Maurizio

La lampada ad acetilene

di Maurizio Bergamini

 

Il 18 agosto u.s. in apertura della serata-Miniera alle Forna, un compassato signore ha mostrato agli astanti una vecchia lampada ad acetilene e ne ha spiegato il funzionamento.

È un ponzese acquisito, per aver sposato Italia Fisone, il cui nonno materno alla Miniera ha lavorato a lungo. Era Silverio Vitiello,  figlio di Filippo Vitiello e Antonietta Iodice, la cui casa natale era alle Forna, a Cala Caparra, sulla strada principale.

Abbiamo chiesto a Mauizio di stendere per ponzaracconta una memoria esplicativa della sua esperienza.

La Redazione

 

All’incontro sulla Miniera del 18 agosto, alle Forna, ho visto una cosa che mi ha riportato indietro nel tempo di molti anni: una lampada a carburo.

Questo oggetto, portato da qualche collezionista di attrezzature della Miniera, mi ha fatto tornare agli anni ’50 – ’60, ai tempi in cui risiedevo a Latina.

Mio padre, nella zona tra borgo Santa Maria (ex borgo Gnif Gnaf)  e borgo Bainsizza, aveva alcuni “poderi” e un bosco di querce da tener pulito e tagliare.

Naturalmente negli alloggi dei boscaioli non c’era la luce, come in diverse case coloniche della zona, e ricordo la presenza di queste lampade dalla luce bianchissima e dal fruscio particolare che emettevano durante il funzionamento.

Ricordo il rito serale della ricarica, con queste “pietre grigie” rotte a fatica ed inserite in questo marchingegno che poi, come per incanto, emetteva luce.

Chiarore che si perdeva fuori gli alloggi verso il bosco, avvolto dal buio della sera, con quella sensazione di fresco che rendeva  il paesaggio quasi irreale.

Questi ricordi mi hanno portato alla mente un vago episodio: tempo addietro avevo trovato in casa una di queste lampade e, da bravo “raccoglitore di ricordi”, l’avevo messa da parte.

Ora nasceva la necessità di ritrovare questo pezzetto della mia infanzia.

L’occasione si è presentata durante una mia “toccata e fuga” in quel di Verona di qualche giorno dopo. Nell’angolo delle cose dimenticate, nella casetta  di montagna, fuori città, tra riviste datate, attrezzi vari ed altre cose eufemisticamente definite “modernariato” (per non farle finire nei rifiuti), con mia grande sorpresa, ho ritrovato la vecchia lampada con la sua piccola dotazione di carburo.

Mi è venuta subito voglia di studiarla più approfonditamente, e, complice una macchina fotografica ed Internet sono riuscito a fotografarla e  trovare qualche notizia.

La lampada da miniera ad acetilene (questa è la dicitura che ho trovato) ha origini incerte, nella forma a cilindro, ma risalenti intorno agli ultimi anni del 1800 (il primo brevetto conosciuto risale al 1894).

Veniva utilizzata prevalentemente per le caratteristiche innovative, per la luce molto forte rispetto alle altre lampade (a petrolio, ad olio, alle stesse candele), per la praticità d’uso, per la resistenza allo spegnimento, per la durata delle cariche (un pezzo di carburo delle dimensioni di una noce produce acetilene per circa due ore), per il basso costo del combustibile.

Il principio di funzionamento è abbastanza semplice. Un serbatoio, nella parte superiore della lampada, contiene l’acqua che cade attraverso un’apertura regolata da un perno a vite, sul carburo nel serbatoio inferiore.

Qui avviene la reazione che produce acetilene. Gas che trova l’unica via di uscita verso il condotto che va all’alloggiamento del beccuccio dove viene incendiato.

Nelle lampade più recenti, usate nostalgicamente in speleologia (a destra, nella foto qui sopra), al posto del beccuccio parte un tubicino che va al casco dove è collocato il sistema di illuminazione (aggancio al casco, sostegno del beccuccio e schermo riflettore)

L’uso di queste lampade sta scomparendo in favore di sistemi più moderni che impiegano come fonti di luce i LED.

Altro impiego, agli albori del secolo scorso, erano i fanali delle prime auto e moto.

Un ulteriore impiego era nei fari marini dove era impossibile o non economico l’utilizzo di altre fonti di illuminazione. In tempo di guerra il principio era anche impiegato nei fari della difesa contraerea.

Forse l’impiego che più si ricorda a Ponza – almeno in una certa fascia di età –  è come fonte di luce durante la pesca “a totani”, dove, nel ricordo, l’odore del carburo era inestricabilemte legato a quello della sarda salata che si assicurava alla ‘porpara’ come esca, e a quello dei totani presi.

***

Per curiosità, ho cercato il processo di produzione di quelle strane pietre grigie, di odore così caratteristico da cui, quasi per magia, viene prodotto l’acetilene.

La materia prima è la calce viva (ossido di calcio, CaO2) che viene unito a carbone (antracite 3C) in forni elettrici a circa 2.200°. Si ottiene così carburo di calcio (CaC2) e monossido di carbonio (CO).

Nella lanterna, il carburo di calcio reagisce con l’acqua (H2O) producendo acetilene (C2H2) e idrossido di calcio [Ca(OH)2] che è la polvere pastosa che resta nel serbatoio e che veniva utilizzata un tempo per lucidare gli ottoni.

Un utilizzo ancora attuale è nella carpenteria metallica dove viene abbinato all’ossigeno per ottenere sistemi di saldatura detti appunto ossi-acetilenici.

Un impiego, poco canonico, era anche quello che facevamo da ragazzini, complice un barattolo abbastanza grande (tipo quello in cui veniva commercializzato, anni addietro, il concentrato di pomodoro), qualche pezzetto di carburo, acqua, un bastone con uno stoppaccio. Creavamo un sistema dove il gas, imprigionato nel barattolo leggermente compresso a terra, veniva incendiato, producendo una piccola esplosione che lanciava in alto il barattolo.

Quanti ricordi  piacevoli mi ha riportato alla mente questo strano marchingegno.

Mi sono riproposto, a breve e dopo una adeguata verifica funzionale della lampada di riprovare ad accenderla, per rinverdire quelle sensazioni di gioventù.

Maurizio Bergamini

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