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La gabbia di pietra (2)

[1]

di Carlo Bonlamperti

 

II

Lasciato lo Stabilimento, i rapitori prendono con il furgone la direzione di Anzio.

A quell’ora, la Nettunense è piuttosto trafficata per il consueto spostamento del sabato sera, e un veicolo commerciale con la scritta Omnipesca sulle fiancate che percorre quel tratto di strada non desta alcun sospetto.

All’interno del furgone, nascosta sotto un telo impermeabile dietro una pila di cassette di polistirolo per il trasporto del pesce, Giorgia Silvestrini giace immobile sopra uno sporco materasso di gomma, sprofondata nel sonno artificiale provocato dalla dose massiccia di sonnifero.

I rapitori, osservando la tabella di marcia prevista dal loro piano, sono in perfetto orario per l’appuntamento con il peschereccio Regina Madre ormeggiato nel porto di Anzio.

Spagna, rispetta le distanze e i limiti di velocità – fa il sardo allo straniero alla guida – Ci manca solo che ci fermi la Stradale!

– Tranquillo, Baingio, non ci fermerà nessuno. Sta andando tutto liscio. E poi non manca molto.

– Toni – ordina il sardo rivolto al più giovane – fa uno squillo a Commodoro e digli che si tenga pronto a salpare, che stiamo arrivando.

Il giovane esegue l’ordine e dopo pochi secondi chiude la comunicazione.

– Ci sta aspettando – riferisce asciutto a Baingio – dice che è tutto a posto, come concordato.-

Il porto nuovo di Anzio, in quell’inizio d’estate già caldo, brilla di luci e brulica di vita e di suoni, sui quali dominano le note del rock che a ondate provengono dal bar di Piazza S. Antonio ogniqualvolta la porta si apre per lasciare entrare o uscire un avventore.

Dall’alto della falesia della Riviera di Ponente la bianca costruzione del faro appena si distingue nel buio della notte, dalla quale emerge assieme al fascio di luce intermittente della lampada della lanterna, mentre le imbarcazioni attraccate al molo dondolano pigramente sotto l’effetto della brezza di mare, strappando alle gomene d’ormeggio sommessi cigolii di protesta.

Sul Regina Madre, un piccolo peschereccio di 20 tonnellate ormeggiato al molo di ponente accanto a gozzi con lampare, paranze ed altri pescherecci, la fioca luce che filtra dai vetri della plancia rivela la presenza di qualcuno a bordo, mentre il motore in folle borbotta sordamente, sputacchiando dalla murata di dritta l’acqua di raffreddamento.

Sulle altre imbarcazioni da pesca l’attività si è esaurita da almeno un paio d’ore, dopo il rientro in porto all’imbrunire e lo scarico del pescato, ma il Regina Madre non è salpato all’alba come gli altri giorni e solo ora dà segni di una partenza notturna.

[2]Il furgone della Omnipesca, provenendo dalla strada litoranea della Riviera di Ponente, supera il monumento bronzeo di Angelita  [1] [3] e si accosta al molo antistante Piazza S. Antonio con i portelloni posteriori a poca distanza dalla bitta d’ormeggio del Regina Madre.

 

Al breve colpo di clacson, un uomo tarchiato, con berretto di lana scura e un’ispida barba bianca di parecchi giorni, si materializza sulla poppa del peschereccio, uscendo dall’interno. Il giubbotto imbottito e i pantaloni di rigida tela impermeabile non gli sono di alcun impaccio a giudicare dall’agilità con cui salta sul molo.

Rapidamente e senza proferir parola, come se stessero eseguendo un’azione provata cento volte, i tre del furgone e l’uomo del peschereccio scaricano la prigioniera, ancora priva di sensi e avvolta nel telo impermeabile come un tappeto arrotolato, effettuando il trasbordo con l’efficienza con cui si caricano su un natante delle masserizie o un qualsiasi collo ingombrante.

[4]

La ragazza viene subito portata nella stiva, liberata dal telo e sistemata in una cuccetta alla quale, per precauzione, viene assicurata con una corda. Intanto, mollati gli ormeggi, Commodoro inizia la manovra di uscita dal porto guadagnando il largo a mezza forza per non destare sospetti.

Man mano che il Regina Madre si allontana dalla terraferma, fendendo il mare scuro appena increspato, l’abbraccio luminoso del porto allenta gradualmente la sua stretta per lasciare il posto prima a singoli punti luminosi di diverso colore e intensità e poi, man mano che la distanza aumenta, ad una indistinta macchia lattiginosa messa in risalto dagli strati bassi della foschia.

Sul peschereccio, ormai immerso nel buio fitto della notte senza stelle, Toni e Spagna attaccano il secondo panino, ingollando a turno della birra calda dalla stessa bottiglia.

– Che porcheria! – fa lo spagnolo, sputando a terra la birra e asciugandosi la bocca col dorso della mano – Neppure una birra fresca su questa carretta! E questa puzza di pesce, poi! Quando lavoravo all’ippodromo, quella sì che era vita: ambiente chic, soldi in tasca e neve [2] [5] a volontà, anche se l’ultima volta una pollastra ci ha rimesso le penne e per poco non finivo al fresco. Poi ho conosciuto il sardo, che mi ha fatto vedere la luna nel pozzo con questo schifo di lavoro, ed eccomi qua. Secondo te c’era proprio bisogno di portarla a Ponza questa qui? Io a Baingio gliel’ho detto che era più semplice chiuderla in un appartamento fuori mano o dentro una grotta sulla Tolfa, come mi ha raccontato lui di un altro sequestrato. A Ponza d’estate c’è troppa gente, e poi…

– E poi niente – lo interrompe Toni posando la bottiglia vuota sul tavolo – Non ti è venuto in mente che è proprio per questo che la stiamo portando a Ponza? A chi verrebbe in mente di cercare un sequestrato in una località turistica, in piena estate, tra tanta gente? E poi quanti sbirri pensi che ci siano su un’isola? Commodoro dice di aver trovato un posto speciale proprio sul mare, lontano dall’abitato e facile da sorvegliare. E’ una specie di grotta scavata in uno scoglio che un suo amico pescatore gli ha prestato per un po’. Naturalmente, a cose fatte, beccherà anche lui la sua parte di grano

– A proposito di grano – fa lo spagnolo con aria interessata –  ho sentito Baingio parlare di due milioni di euro: è una bella torta da dividere in quattro, non ti pare?

– In cinque – precisa Toni – Al ponzese non ci hai pensato?

– Al ponzese ci deve pensare Commodoro con la sua parte! – si arrabbia Spagna, calando un pugno sul tavolo – perché l’incarico di trovare il nascondiglio l’ha avuto lui. Lo poteva anche trovare gratis il nascondiglio, piazzando una bella tenda in una grotta e il gioco era fatto. O credi che uno possa sopportare tutto questo solo per quattrocentomila euro?

Toni deve ammettere che lo spagnolo non ha tutti i torti, soprattutto se pensa alla vita che ha fatto lui fino a quel momento, con trascorsi di collegio e carcere alle spalle e nessuna seria prospettiva per il futuro. Solo “lavori” occasionali e sempre al di fuori della legalità, nessuna fissa dimora (se si eccettua la stanza di quella pensione di Roma da cui manca da mesi) senza il calore di una famiglia e senza l’amore di una donna. A conti fatti, uno schifo di vita; e per che cosa, poi? Era forse diventato ricco o poteva diventarlo? Neanche per idea! Costantemente in fuga e con mille precauzioni da prendere per non finire nelle mani della Giustizia, mese dopo mese, anno dopo anno, con quel profondo senso di vuoto che ingigantisce dentro di lui.

Ogni tanto, quando si sente rodere dal rimorso, per tacitare la coscienza si dice che in fondo lui non è un delinquente, ma fa quel tipo di “lavoro” solo perché nessuno gli ha mai dato una mano o ha avuto fiducia in lui. Tutto sommato sente di potersi assolvere perché ha la grossa attenuante che con lui la vita è stata bastarda fin dalla nascita e alla fin fine i soldi non li toglie alla povera gente ma a persone che fanno la bella vita e possono pagare. Si tratta solo di riequilibrare la profonda ingiustizia sociale che divide il mondo in due parti: quella dei ricchi e quella dei disgraziati come lui.

Per questo deve ammettere che Spagna ha ragione. Anche lui, come lo spagnolo, con cinquecentomila euro potrebbe tirare avanti per un bel po’ e forse – ma questo non intende confessarlo a nessuno – anche cambiare vita…

 

Sul ponte del peschereccio, dentro la stretta cabina di pilotaggio, Baingio e Commodoro, più lontani degli altri due dal rumore dei 400 cavalli del motore, conversano a voce più bassa con la tranquilla sensazione che tutto stia filando liscio e secondo i piani.

Il Regina Madre, spinto dal vecchio diesel di cui il comandante va fiero, procede da circa un’ora alla velocità di crociera di 8 nodi verso Sud, beccheggiando di tanto in tanto sul dorso di qualche onda più lunga. La mano di Commodoro, ferma e morbida al tempo stesso sulla ruota del timone, si stacca solo per manovrare le manopole della radio di bordo nell’eventualità che venga trasmessa la notizia del sequestro, mentre l’occhio esperto controlla di tanto in tanto gli indicatori della temperatura dell’acqua, della pressione dell’olio e del livello del carburante.

Il suo compagno sembra aver perso un po’ di quell’aria minacciosa che, nonostante il passamontagna, ha raggelato l’ingegner Silvestrini al loro commiato in fabbrica. I capelli corti nerissimi, con appena qualche filo d’argento disseminato qua e là, le folte sopracciglia e gli occhi scuri e penetranti sugli zigomi alti, ne confermano l’origine sarda già evidenziata dall’accento. Spostando da un lato all’altro della bocca il corto sigaro, si rivolge a Commodoro espirando dense volute di fumo dal forte aroma di tabacco toscano:

– Ce la facciamo a raggiungere Ponza con altre due ore?

– No – risponde Commodoro lanciando uno sguardo al vecchio orologio di bordo e scuotendo la testa.

– Ci vorranno almeno altre due ore e mezza, forse anche tre se si alza il levante prima di Palmarola. Non voglio forzare l’andatura, ma sta tranquillo che per l’una di stanotte avremo dato fondo a Calafonte.

– Come si chiama il posto? – s’informa il sardo.

Calafonte. E’ una caletta sul versante ovest dell’isola, proprio davanti a noi, circa sei miglia dopo Palmarola. D’estate ci va un bel po’ di gente a fare il bagno, e anche lì vicino, alle piscine naturali, ma stanotte e domani non ci sarà anima viva.

– Come mai? – chiede Baingio emettendo il fumo dalle narici.

– Perché lunedì è la festa del patrono, San Silverio, e oggi e domani tutta l’Isola si riversa nella zona del porto: residenti, turisti ed emigrati rientrati a Ponza per l’occasione. Una festa grande. Ma davvero a Ponza non ci sei mai stato?

– E a fare che? Il turista? – risponde il sardo con una risata che quasi lo soffoca tra colpi di tosse e fumo del sigaro.

– Ti sembro una bellezza al bagno io o piuttosto uno da bagno penale? – E giù un’altra risata che coinvolge anche Commodoro, che si piega in due con le lacrime agli occhi per le risa e il fumo che ristagna nella cabina.

I due stanno ancora ridendo quando, dalla scaletta che porta al vano della stiva, sporge la testa di Spagna che chiama Baingio: – Capo, la ragazza si sta svegliando e smania. Vieni giù col sonnifero.

Il sardo, richiamato bruscamente alla realtà, assume il consueto aspetto dell’uomo efficiente e razionale e ordina:

– Copritevi la faccia! – Poi afferra la bisaccia e scende di sotto.

 

Giorgia, trascorse le prime due ore in un sonno profondo, nell’ultima mezz’ora ha cominciato ad emergere dal suo torpore, recuperando in maniera confusa una parvenza di udito e di sensibilità che tuttavia non le consente di rendersi conto di cosa le sia successo e di dove si trovi. Avverte solo una gran sete e sente attorno ai polsi la stretta di qualcosa che le impedisce di muovere le braccia, mentre il luogo dove si trova, invaso da un insistente rumore molesto, s’inclina inspiegabilmente ora da una parte ora dall’altra, disorientandola.

Non riuscendo ad aprire gli occhi, muove la testa in entrambi i lati e ha la sgradevole sensazione che dalla sua bocca non esca alcun suono quando tenta di articolare la parola “acqua”. Si rende conto però che qualcuno le solleva la testa per farla bere, e con questa piacevole sensazione di sollievo scivola nuovamente nell’oblio non appena Baingio le preme sul naso il tampone con il cloroformio.

 

[1]  Bimbetta di Anzio uccisa dai Tedeschi durante lo sbarco alleato ed eretta a simbolo dell’orrore della guerra.

[2]  Cocaina.

 

Carlo Bonlamperti

 

[La gabbia di pietra (2) – Continua]