Romanzo breve di Carlo Bonlamperti. A puntate
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Alla mia terra
variopinta ninfea sospesa sull’azzurro
calda
come la lava del vulcano che l’ha generata
ribelle
come la procella che l’assale
dolce
come la malìa che incatena i sogni
alle rocce selvagge
al mare di smeraldo
al grido dei gabbiani
Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo;
mi hai detto, poi, con gentilezza:
ti voglio bene perché sei tanto triste.
(Herman Hesse da: “Poesie Romantiche” – tra il 1892 e il 1920)
I
La Sunsystem è un’azienda di medie dimensioni situata in quella parte della campagna romana che ha vissuto, dal dopoguerra ad oggi, l’industrializzazione selvaggia che ha fatto del Centro Italia l’agguerrito concorrente del ricco Nord.
Percorrendo, infatti, il tratto della Statale 148 che da Latina porta fino al Raccordo Anulare di Roma, tenendo sulla destra i Castelli Romani e sulla sinistra la costa tirrenica, ci s’imbatte nel più assortito avvicendamento di capannoni industriali – alcuni dei quali con binari di collegamento alla rete ferroviaria – di aziende farmaceutiche e chimiche di noti marchi industriali, di fabbriche molto antiche e molto moderne, che sembrano cingere letteralmente d’assedio i variegati appezzamenti di terreno coltivato, discendenti naturali del virgiliano agresti Latio.
Lasciando la Statale Pontina all’altezza di Aprilia e deviando sulla sinistra per la strada che dai Castelli conduce al mare di Anzio, dopo circa un chilometro sorge lo stabilimento di Oreste Silvestrini, riconosciuto nell’ambiente come il re dei pannelli solari di ultima generazione, da cui il nome dell’azienda che campeggia a grandi lettere gialle sul tetto della palazzina della direzione commerciale.
Allo stabilimento, situato all’interno di un vasto piazzale, si accede varcando un robusto cancello scorrevole elettrificato posto su un piano rialzato coltivato a prato inglese, dal quale emergono, contrastando col verde intenso dell’erba, blocchi di pietra viva chiara dai cui anfratti, sapientemente disposti e curati, in primavera spuntano ciuffi di violette multicolori e piccoli cespugli di gerani dai fiori rosso fuoco.
L’ingegner Silvestrini è un uomo sulla cinquantina, dai capelli folti appena spruzzati di grigio sulle tempie e dal fisico asciutto di chi si mantiene in forma con tennis e piscina per sopportare una mole di lavoro che sfinirebbe la maggior parte dei dirigenti di azienda suoi coetanei.
Laureato a pieni voti alla Normale di Pisa con una brillante tesi sulle energie rinnovabili, grazie ad una borsa di studio della Parrel & Bristol di Montreal e ad una sovvenzione statale per l’imprenditoria giovanile, si getta giovanissimo nel lavoro, cominciando a costruire la fabbrica che negli anni è cresciuta assieme a lui e alla sua voglia di fare e di conquistare spazi sempre maggiori nel settore specifico della sua attività.
Sposatosi a ventott’anni, appena quindici anni dopo, in un incidente d’auto perde la moglie, che gli lascia una figlia adolescente da allevare e un vuoto immenso da colmare. Per contro, è proprio quello il periodo di maggiore sviluppo dell’azienda, che vede l’apertura di una succursale in Sardegna e l’espansione verso i mercati dell’Est Europeo, quasi che la morte della Signora Giovanna – come i dipendenti chiamavano confidenzialmente la moglie dell’Ingegnere – pur nella tragica fatalità di quel crudele destino, fosse stata feconda di frutti.
Venduto il grande appartamento dell’Eur, comodo per la sua posizione ma troppo legato al ricordo della moglie, l’Ingegnere si trasferisce in centro, e si attacca alla figlia Giorgia – che dai lineamenti delicati del viso gli ricorda la moglie in maniera impressionante – con tutto l’affetto e la dedizione di un padre premuroso e presente, dedicandole ogni pensiero ed ogni momento libero dal lavoro, ricambiato dalla ragazza in ugual misura.
Giorgia, ormai ventitreenne studentessa di lingue mediorientali alla Sapienza, in quel padre modello vede l’unico punto di riferimento sicuro della sua vita, consigliandosi con lui come avrebbe fatto con sua madre e viziandolo in ogni modo possibile con la complicità e la dedizione di Pilar, la colf messicana.
Non c’è festa o ricorrenza che riguardi suo padre che non venga sottolineata da un regalo o da un pranzo speciale, e sono frequenti le improvvisate che Giorgia fa allo stabilimento con l’intento di strappare il padre al lavoro per trascinarlo a teatro, ad una gita o a una partita a tennis.
La sera del 18 giugno, pur essendo sabato e giornata di riposo per i dipendenti, l’ingegner Silvestrini si trova ancora in fabbrica per sbrigare alcune pratiche urgenti di sua esclusiva competenza. Ha comunicato la cosa alla Sorveglianza, incaricandosi di inserire lui stesso l’allarme antieffrazione quando lascerà lo stabilimento.
Immerso nel lavoro, non si accorge del trascorrere del tempo né sente il rumore del motore di un furgone bianco che si è accostato lentamente e a fari spenti alla recinzione sul retro dello stabilimento. Trasale leggermente allo squillo del telefono sulla scrivania, ma si tranquillizza sentendo la voce della figlia dal tono leggermente contrariato: – Papà, ma sei ancora lì? Non dirmi che hai dimenticato lo spettacolo di stasera! Dobbiamo arrivare ad Ostia e tu sai che il sabato c’è traffico. Sei sempre il solito! Facciamo così: passo io a prenderti, tanto tu stai bene anche così perché sei sempre elegante. Fatti trovare giù. Baci. E prima che il padre possa aprire bocca, la ragazza chiude la comunicazione.
L’Ingegnere ha ancora la cornetta del telefono in mano quando la porta dell’ufficio si spalanca violentemente e tre uomini incappucciati, armati di pistole, fanno irruzione nella stanza.
– Fermo! – fa il più grosso dei tre avanzando verso la scrivania e strappando con un gesto repentino il filo del telefono, mentre gli altri due tengono l’Ingegnere sotto tiro.
– Non una mossa o sei morto! – continua l’uomo grosso con accento sardo mentre l’Ingegnere, più sbalordito che intimorito, si riprende lentamente dalla sorpresa, ritenendo possa trattarsi di una rapina.
– Per abitudine non tengo mai molto denaro qui allo stabilimento – dice l’imprenditore sforzandosi di restare calmo, pensando di liquidare la faccenda prima dell’arrivo della figlia.
– Se sono i soldi che volete, non posso darvi più di quello che ho in cassaforte. Oggi è sabato e i versamenti in banca sono stati fatti ieri.
– Quello che hai in cassaforte non basterebbe neppure per le sigarette – fa il sardo sghignazzando sotto il passamontagna – Ne dovrai scucire molto di più. E rivolto ai complici: – Presto! Legatelo e imbavagliatelo.-
I due eseguono l’operazione senza proferir parola e con rapidità immobilizzano l’Ingegnere sulla poltrona con una corda di nailon e dell’adesivo da imballaggio che il più alto ha preso da uno zainetto a spalla.
L’Ingegnere non capisce perché viene legato alla poltrona se l’intenzione dei tre è quella di estorcergli del denaro. Si sarebbe aspettato che, non credendogli, gli avessero chiesto piuttosto la combinazione della cassaforte, ma non ha il tempo d’indagare oltre sul comportamento del terzetto perché sente il mondo crollargli addosso all’accenno che il sardo fa a sua figlia: – Mettetevi ai lati della porta perché sta per arrivare la figlia. Facciamole una bella accoglienza. Spagna, stai pronto con il cloroformio, e tu – dice rivolto al più giovane – prepara il cappuccio e la corda! Poi, con crudele ironia: – Niente Ostia stasera per loro. Il teatrino glielo facciamo noi qui.
A quelle parole, l’Ingegnere capisce tutto. I tre hanno architettato un piano per estorcergli una grossa somma di denaro mettendo in atto il rapimento di Giorgia dopo averne studiato chissà da quanto tempo le abitudini e gli orari con appostamenti ed intercettazioni telefoniche. Ne è prova il fatto che i malviventi sono a conoscenza della serata che lui e la figlia avrebbero dovuto trascorrere ad Ostia e il tempismo con cui hanno agito senza dover improvvisare, e basta questa considerazione a disarmarlo, gettandolo nell’angoscia.
L’imprenditore si rende anche conto di non avere alcuna possibilità di avvertire la figlia che ormai è prossima ad arrivare allo stabilimento, e questo fa montare ancora di più in lui il senso di frustrazione e di rabbia che lo priva della lucidità necessaria per affrontare un evento di quella gravità. Di una cosa però è certo: non deve assolutamente compiere alcun gesto che possa innervosire i sequestratori e spingerli ad assumere comportamenti ostili non previsti dal loro piano.
Non potendo fare altro, date le circostanze, s’impone di osservare attentamente quelle tre persone che lo tengono prigioniero e che costituiscono una minaccia per sua figlia, augurandosi in cuor suo che un contrattempo qualsiasi, come la foratura di una gomma, un lieve malore o un repentino ripensamento, possa impedirle di raggiungere lo stabilimento.
L’uomo grosso, dal marcato accento sardo, dev’essere senza dubbio il capo. Lo si capisce da come dà gli ordini e dal fatto che lascia agli altri due le incombenze di minor rilievo. L’Ingegnere non potrebbe giurarci, ma ha come l’impressione di aver già sentito quella voce nasale con la s blesa pronunciata in quella particolare maniera, e comunque in modo diverso dagli altri sardi, ma poi pensa che forse si sbaglia e allontana dalla mente questo pensiero rivolgendo la sua attenzione agli altri due uomini.
Da quel poco che ha potuto notare dei gregari, quello alto che il sardo ha chiamato Spagna sembra assai più abile e pratico del compagno più basso; per questo – pensa con un brivido l’Ingegnere – ha il compito di immobilizzare e cloroformizzare la figlia. Non lo ha sentito parlare, ma dal soprannome affibbiatogli dal capo pensa debba trattarsi di uno spagnolo.
Dell’ultimo, quasi certamente più giovane e apparentemente anche meno pratico degli altri, senza riuscire a spiegarsene il motivo l’Ingegnere ha la sensazione che sia italiano e con le mansioni marginali di un neofita. Il fatto poi che indossino tutti il passamontagna, se da una parte gli impedisce di memorizzare importanti particolari oltre la voce e la statura, dall’altra sta a significare che, non rischiando di venir riconosciuti, i malviventi lo lasceranno in vita per assegnargli il compito essenziale di reperire il denaro per il riscatto.
Giorgia arriva allo stabilimento intorno alle venti e si meraviglia che il padre non sia già nell’atrio ad attenderla, preparandosi ad attivare il sistema di sicurezza. E dire che si era raccomandata di far presto per arrivare ad Ostia in tempo per lo spettacolo!
Senza spegnere il motore, dà due colpi di clacson per segnalare il suo arrivo e si sposta sul sedile del passeggero con l’intenzione di lasciare al padre la guida della Toyota fiammante regalatale da lui la settimana prima.
Al primo piano della palazzina, il suono del clacson produce un effetto diverso sui quattro uomini in attesa: i sequestratori si irrigidiscono, quasi ubbidendo ad un segnale convenuto che prelude all’azione; l’Ingegnere invece, istintivamente, si agita sulla poltrona dimenticando i precedenti propositi di autocontrollo, spinto dal cuore con i battiti a mille a mettere in atto un improbabile tentativo di liberarsi per avvertire del pericolo la figlia. Inutilmente, col bavaglio che gl’impedisce la parola, tenta di articolare un suono che, invece, si tramuta in una sorta di rantolo disperato, mentre i polsi e le caviglie gli fanno male per la stretta delle corde.
Giorgia, ulteriormente spazientita per il ritardo del padre, dopo aver suonato il clacson una seconda volta, decide di salire nel suo ufficio, trovandosi, appena aperta la porta, di fronte ad uno spettacolo che la lascia impietrita.
La ragazza ha appena il tempo di fissare nella memoria l’immagine del padre che si dimena sulla poltrona cercando, con gli occhi sbarrati e i suoni inarticolati che riesce ad emettere, di comunicare con lei senza riuscirci.
In un lampo è afferrata per le braccia e legata con le mani dietro la schiena, mentre sul naso le viene premuto un tampone imbevuto con qualcosa dall’odore acre che in pochi istanti le fa girare la testa ed annebbiare la vista. Prima però di perdere conoscenza, fa in tempo a sentire l’omaccione incappucciato, che tiene il padre sotto il tiro della pistola, proferire parole minacciose: – La vita di tua figlia vale due milioni di euro. Datti da fare per mettere insieme i soldi perché non hai molto tempo. Ci faremo vivi presto per dirti dove e come portarli.
Un istante dopo, sotto lo sguardo annichilito del padre, la ragazza si affloscia come un cencio tra le braccia dei due rapitori, che la incappucciano prontamente e ad un cenno del sardo si avviano giù per le scale con il loro fardello.
Rimasto solo con l’Ingegnere, l’omaccione, col dito puntato verso di lui, gli sibila un ultimo avvertimento: – Sappi che facciamo sul serio. Niente Polizia, se ci tieni alla vita di tua figlia.-
Poi esce di corsa dall’ufficio chiudendosi la porta alle spalle.
Carlo Bonlamperti
[La gabbia di pietra (1) – Continua]