Bonlamperti Carlo

Il faro e il gabbiano (3)

di Carlo Bonlamperti

Per la seconda puntata del romanzo breve leggi qui

 

III

Dopo la lunga estate mediterranea che caratterizza il clima delle Isole Ponziane, l’autunno capriccioso non tardò ad arrivare anche a Zannone, annunciando il mutamento del tempo con le prime giornate uggiose e i piovaschi repentini giunti a rinfrescare l’aria e a spezzare la calma di vento e di mare che divide le due stagioni. In quelle giornate di bonaccia, quando le brume mattutine stentavano a dissolversi per l’assenza di vento e si percepiva che il mare era un elemento liquido solo dallo svogliato movimento che si notava a riva, chi si fosse soffermato a contemplare lo spettacolo di una natura che scivolava verso il sonno dell’inverno, sarebbe stato assalito dalla malinconia. Malvolentieri infatti si accetta di separarsi dai ricordi piacevoli dell’estate al pensiero che dovrà trascorrere un lungo periodo prima che il ciclo perenne della vita ci riporti la bella stagione. E mai come in quegli anni l’attesa del bel tempo coincideva anche con il desiderio della pace e il ritorno alla normalità dopo i disagi di una guerra disastrosa in cui il Paese era scivolato dal giugno del ’40 senza che su quelle isole, abitate da gente semplice e tranquilla, ci si fosse resi pienamente conto del vero significato della parola “guerra”.

Giovanni non aveva rimpianti per la stagione appena conclusa, anzi, per dirla tutta, non vedeva l’ora che quell’anno funesto giungesse al termine per archiviarlo definitivamente nella sua memoria, in attesa di celebrarne la fine con la gioia della nascita del suo secondo figlio. Infatti, se escludeva i giochi all’aperto con la piccola Carmelina e le battute di caccia alle quaglie – che al tramonto si posavano sull’isola dopo la lunga migrazione dai paesi caldi – e di pesca a calamari e totani – attirando le prede con l’esca argentea che brillava al chiarore della luna -, lui non aveva ricordi estivi piacevoli di cui serbare memoria, soprattutto in quel preciso periodo bellico.

Allo scoppio delle ostilità, si era detto che il piccolo mondo in cui viveva sarebbe stato preservato dagli orrori della guerra, e cercava di convincere di questo anche Giovanna quando la sera si sedevano l’uno di fronte all’altra per la cena. Ma dopo l’estate precedente e quella appena trascorsa, aveva dovuto ammettere che quella cieca follia aveva allargato sempre più i suoi  tentacoli, entrando prepotentemente persino nella vita della sua famiglia. Pensava naturalmente allo scoppio della mina di due mesi prima ma anche al salvataggio di quei due naufraghi inglesi la cui nave era stata affondata in un attacco tedesco.

Ripensando a quell’operazione, da cui potevano derivare per lui  sanzioni disciplinari da parte dei superiori, si sentiva ancora combattuto da due sentimenti contrastanti che spesso lo tenevano sveglio la notte. Il primo era che in nessun caso avrebbe potuto esimersi dal prestare soccorso a quei poveri disgraziati approdati fortunosamente a Zannone, senza sentirsi rimordere la coscienza. Il secondo, non meno importante del primo, era che quei due naufraghi dovevano in ogni caso essere considerati nemici e trattati come tali, soprattutto alla luce della barbarie perpetrata a luglio dell’anno precedente verso tanti poveri ponzesi[1].  Il fatto era che Giovanni il nemico se lo immaginava forte, armato fino ai denti e con intenzioni ostili nei suoi confronti, non seminudo, infreddolito, stremato dalla fatica e dalla fame e alla ricerca di un rifugio! In quella circostanza, una considerazione del genere dovette far emergere in lui il senso di umanità e l’innata disposizione all’ospitalità che caratterizza gli isolani e la gente di mare in generale. Così proprio a Zannone, isoletta sconosciuta ai più e sperduta nel mare magnum del teatro di guerra italiano, quei due naufraghi furono lavati, liberati dei loro stracci infestati dai pidocchi, riscaldati e rifocillati, e poterono sperimentare il gran cuore di quelle due persone semplici che avevano messo a loro disposizione il poco che avevano senza aspettarsi nulla in cambio. Anzi, nonostante i paesani conoscessero bene sia lui che la sua famiglia, Giovanni fu guardato con sospetto e diffidenza allorché si presentò al Governatorato Inglese di Ponza con i marinai che aveva salvato, perché i ponzesi non gradivano affatto la presenza degli Inglesi [2] sull’isola dopo il recente affondamento del “Santa Lucia”!

Un altro ricordo drammatico che Giovanni intendeva gettarsi dietro le spalle era quello della carestia che aveva colpito Ponza a metà febbraio di quello stesso anno, trascinando con sé tante vite umane. Non era mai accaduto prima, infatti, che il maltempo si protraesse per un periodo così lungo da impedire l’approvvigionamento di viveri per l’isola, per cui a Ponza non si erano mai costituite scorte alimentari sufficienti per un’evenienza del genere. Evidentemente si riteneva che la pesca avrebbe fornito agli isolani una risorsa pressoché inesauribile in caso di necessità, ma una risorsa è tale solo quando vi si può attingere, e sfortunatamente in quel periodo una serie di forti tempeste inchiodò a riva i battelli per tre settimane!

Così, tra febbraio e marzo del ’44, a Ponza si cominciò a morire di fame e per le strade si videro sfilare decine di cortei funebri dopo che le campagne erano state prese d’assalto fornendo i vegetali più insoliti e persino la semplice erba alla fame della gente. Ma ancora una volta una vicenda drammatica, che assieme alle polemiche lasciò dietro di sé una lunga scia di dolore e di morte, si risolse grazie al coraggio di una persona di Ponza che, con l’istintività della gente semplice e di cuore – che gli storici chiamano eroismo – era riuscita a salvare tante vite umane [3].

Giovanni conosceva bene Totonno Feola ed ebbe modo di dimostrargli personalmente la sua riconoscenza per il gesto grazie al quale la madre e le sorelle poterono sopravvivere assieme al resto della popolazione di Ponza. Da parte sua l’“eroe” gli raccontò come invece a lui fosse toccato il sorriso di sufficienza da parte del sussiegoso capitano inglese che, dopo avergli dato del matto, aveva deciso di accontentarlo, convinto che le alte onde che s’intravedevano al largo di Ischia lo avrebbero fatto rientrare in porto!

E il lieto fine che aveva coronato quella vicenda drammatica si sovrappose nel ricordo di Giovanni alla disavventura della Liberty [4] che aveva terminato il suo ultimo viaggio proprio nelle acque di Ponza.

La grave situazione alimentare che aveva monopolizzato l’interesse dei ponzesi in quel periodo, fece passare quel naufragio quasi sotto silenzio; ma in seguito, sia pure col distacco con cui si rivivono a distanza di tempo certe vicende che durante il loro svolgimento hanno scosso e appassionato solo i diretti interessati, l’intera isola fu pervasa da un sentimento di pietà per quegli sfortunati soldati anglo/americani e tedeschi, accomunati da uno stesso infausto destino proprio a un passo dalla salvezza.

Per Giovanna si avvicinava sempre più il giorno del parto e quell’evento, che sulla terraferma genera comunque un minimo di apprensione sia nella partoriente che nei familiari, su una piccola isola come Zannone, priva di qualsiasi presidio medico, poteva costituire un serio problema in caso di complicazioni.

Già per la nascita di Carmelina, Giovanni aveva fatto venire da Ponza la madre perché assistesse la moglie, e anche questa volta si era recato per tempo a Ponza approfittando della prima giornata di mare calmo.

A donna Carmela piaceva stare a Zannone perché quell’isolotto, che per tanto tempo era stato il suo mondo, sembrava  le somigliasse. I silenzi delle prime ore del mattino  – quando d’estate si sentiva il tubare delle tortore nella macchia e il fischio del merlo nel bosco – somigliavano ai suoi silenzi eloquenti che parlavano più di mille parole. Lo scoppio secco del fulmine – che sull’isola sovrastava gli scrosci di pioggia e il ruggire del mare nei temporali d’inverno –  era simile alle sue risposte taglienti che zittivano chiunque, bloccando sul nascere qualsiasi tentativo di replica. La solitudine cui si pensava guardando da lontano l’isola circondata dal mare era la stessa di quella donna severa e schiva, attorniata da una schiera di figli e nipoti ma sostanzialmente sola.

Lei aveva vissuto a Zannone col suo Giuseppe e i numerosi figli quando la vita era dura e ogni cosa costava fatica, ma gli anni della sua giovinezza erano stati lontani mille miglia dalle complicazioni delle successive generazioni allorché al bianco e al nero si erano aggiunte le mille sfumature del grigio e alla schiettezza di un “si” o di un “no” si erano affiancati l’opportunismo e l’incertezza dei comportamenti ondivaghi.

Col senno del poi, qualcuno dei figli ricordava con nostalgia gli anni dell’adolescenza, quando bastava il solo sguardo del padre per ottenere l’obbedienza immediata o una sua parola per porre fine ad una discussione, senza che la madre potesse mai intercedere per loro in caso di punizione. Tuttavia neppure quando i figli divennero a loro volta genitori e percorsero con quella mamma  – ormai canuta ma sempre asciutta e diritta come un fuso –  il suo ultimo tratto di strada verso il tramonto, riuscirono a dimenticare le attenzioni di quel padre austero, giusto e buono, che sapeva trasformare in un’occasione speciale ogni suo ritorno da Ponza, rendendo felici i figli ora con delle caramelle, ora con delle castagne, ora con delle pecorelle di zucchero colorato: cose semplici che agli occhi dei figli acquistavano il valore di doni principeschi cui mai avrebbero rinunciato.

Durante gli anni di permanenza a Zannone, donna Carmela  – della quale si diceva non avesse mai avuto né una febbre né un mal di testa –  era stata la regina incontrastata dell’isola e aveva guidato con saggezza una corte di due figli e sei figlie, ciascuno dei quali, in epoche e con turni diversi, aveva un preciso compito da svolgere, rispondendone sia alla madre che al padre, come si addice ad una squadra coesa e ben organizzata. A quella dura scuola di vita, sia i maschi che le femmine impararono alla perfezione il mestiere del fanalista  – che svolgevano in assenza del padre – e, in aggiunta a quest’attività, i maschi si dedicavano alla pesca e alla caccia e le femmine alla cucina, alle pulizie della casa, al cucito e al ricamo. Tutti sapevano nuotare in maniera provetta, facendo risuonare delle loro grida festose soprattutto la zona del Varo o di Cala Marina quando d’estate vi si recavano a fare il bagno, e sono rimaste proverbiali fino ad oggi le punizioni che don Giuseppe seppe infliggere ad alcuni figli che, disubbidendo a un suo preciso ordine, un pomeriggio avevano deciso ugualmente di bagnarsi. L’intento dei ragazzi era infatti quello di rientrare in casa prima che il padre si svegliasse dal riposino pomeridiano, ma a tradirli fu l’esuberanza con cui consumarono il “misfatto” e il protrarsi del cicaleccio che, nella calma del pomeriggio, disturbò il sonno del genitore!

Mettendo nuovamente piede a Zannone, donna Carmela sapeva che le uniche grida che sarebbero risuonate sull’isola, in aggiunta a quelle dei capricci di Carmelina, sarebbero state quelle del suo ultimo nipote. Lei si aspettava un maschio e lo aveva detto fin dalla prima occhiata che aveva dato al pancione di Giovanna in occasione della sua ultima visita a Ponza. In questo genere di divinazioni ogni “esperto” aveva il suo metodo, che difficilmente rivelava ai profani, e anche donna Carmela non era da meno, rivelando in quella circostanza la sua incrollabile fiducia nel suo metodo divinatorio con il colore celeste della lana che portava con sé. Dalla sua capace borsa da viaggio, realizzata con rombi e triangoli di cuoio nero e marrone cuciti assieme come il vestito d’Arlecchino, spuntavano infatti gli inseparabili ferri da calza, attorno ai quali andava prendendo forma un delizioso maglioncino morbido da abbinare ad una calda cuffietta già terminata, perché a Zannone l’inverno poteva essere anche piuttosto freddo e umido.

Donna Carmela sapeva pure che, nel caso si fosse trattato di un maschio, Giovanni gli avrebbe dato il nome del padre, e in cuor suo n’era contenta perché sapeva ch’era giusto così.

Il figlio, d’indole allegra e faceta, da quando, fidandosi della previsione della madre, aveva capito che doveva aspettarsi un figlio maschio, era più allegro del solito, e dal giorno dell’Immacolata, ricorrenza che per tradizione segnava l’inizio dei lavori di preparazione del presepe, lo si udiva cantare con voce tenorile le canzoni natalizie della tradizione popolare, mentre nella sala da pranzo si dava da fare inchiodando su un vecchio tavolo delle assicelle che dovevano costituire l’ossatura per la grotta e le montagne e trasportando dal ripostiglio cortecce di sughero, vecchie confezioni di carta da pasta di colore blu e gli scatoloni con i pastori.

Come sempre, assieme alla polvere, nell’aria si diffondeva subito il caratteristico odore di chiuso emanato da quel materiale lasciato a dimora per un anno intero, ma anche quello era un segno che si avvicinava il natale.

Per Carmelina, troppo piccola perché potesse ricordare i preparativi dell’anno precedente, quella era una novità assoluta, e per tutto il tempo che il padre dedicava alla costruzione del presepe, la si vedeva gironzolare attorno a lui senza perdere neppure un gesto, elettrizzata da quello che evidentemente doveva considerare un gioco da adulti destinato ai bambini come lei. La piccina si soffermava incantata a guardare quella specie di casetta col tetto di legno, sughero e carta che pian piano prendeva forma sotto i suoi occhi, e ora allungava la manina verso il bordo del tavolo, ora si nascondeva sotto di esso, utilizzando i pezzi di legno e sughero che il padre scartava come fossero dei mattoni, immaginando a suo modo di aiutare il padre nella costruzione.

I giorni successivi videro Giovanni recarsi a più riprese nel bosco per raccogliere il muschio occorrente a simulare il prato, dei rami di lentisco cui appendere arance e mandarini che fungessero da palloncini colorati, e asparagina con cui guarnire lo sfondo che riproduceva il cielo stellato di una città mediorientale ai margini del deserto. Nel suo andirivieni Giovanni era accompagnato dal Gabbiano che, vedendolo uscire di casa con un gran cesto, immaginava dovesse recarsi a pesca, restando poi deluso per la diversa direzione che l’uomo prendeva.

In assenza del padre, la piccola Carmelina restava padrona del campo, e si dedicava ad estrarre dagli scatoli pastori di terracotta, casette di cartapesta e pecorelle d’ogni dimensione, davanti ai quali restava con gli occhi sgranati, creando con la fantasia atmosfere e giochi nei quali inseriva ora l’uno ora l’altro dei personaggi, spesso accostando ad un pastorello minuto una pecora enorme o ponendo accanto ad una grande fontana una minuscola lavandaia con il cesto della biancheria sulla testa. Poi, continuando a rovistare nello scatolo come in una cesta di giocattoli, Carmelina faceva emergere Benito, che dormiva sotto il pagliaio invece di sorvegliare le pecore; poi il Predicatore [5], che imboniva un immaginario pubblico con uno strano cappello in testa e l’indice levato in alto; quindi il palazzo di Erode con le torri merlate, al quale seguivano i cammelli dei Re Magi, il bue con una sola corna, San Giuseppe col bastone che aveva bisogno di restauro, e dozzine di pastori menomati, accumulatisi negli anni perché nessuno aveva avuto il coraggio di disfarsene per rimpiazzarli con quelli nuovi.

Felice di rendersi utile, la bambina li porgeva alla rinfusa al padre, che curava di disporli secondo la prospettiva ed il “mestiere” di ciascuno,  collocando quelli più grandi vicino a chi guardava e quelli più piccoli o con qualche difetto un po’ più lontano, magari sulle montagne o tra la neve di ovatta. Giovanni aspettava pazientemente che la figlia finisse di estrarre gli avventori dell’osteria per sistemarli tutti attorno al tavolo, il pescatore con un piccolo pesce argenteo preso all’amo per piazzarlo ai bordi del laghetto fatto di carta stagnola, le pecorelle con la base in terracotta verde per allinearle dietro al pastore con l’agnello sulle spalle, e quelle con le zampe libere per collocarle qua e là in equilibrio sul sughero delle montagne.

Inevitabilmente, appena la bimba pescò dallo scatolo il bambinello, Giovanni le spiegò che Gesù non era ancora nato e che quindi quel minuscolo simulacro di terracotta doveva essere nascosto in un anfratto ricavato nella carta sagomata, in attesa di vedere la luce la notte di Natale. Lì per lì Carmelina sembrò accettare quella semplice spiegazione, ma poi, fino al 24 dicembre, non mancò di cogliere ogni occasione per sgattaiolare nella sala da pranzo a liberare dal nascondiglio il bambinello per tenerlo per un po’ nelle sue manine, parlandogli ed accarezzandolo con immensa tenerezza quasi si trattasse del fratellino di cui i genitori e la nonna le parlavano da tempo.



  [1] Il 24 luglio 1943 il traghetto “Santa Lucia” della SPAN, in viaggio da Ponza a Gaeta via    Ventotene, venne mitragliato a più riprese da una squadriglia di tre aerosiluranti inglesi nei pressi di  Ventotene. In seguito gli aerei sganciarono due siluri che il Comandante Simeone riuscì ad evitare con abilissime virate mentre cercava di far arenare il piroscafo sulla spiaggia di Parata Grande.  Un terzo siluro colpì il  “Santa  Lucia” spezzandolo in due tronconi che affondarono in poco tempo. Da Ventotene non fu possibile portare alcun soccorso ai naufraghi perché gli aerei, con inutile crudeltà,  continuavano a volteggiare sulla zona mitragliando i rottami, i superstiti e i soccorritori. Dei 105 passeggeri ne furono salvati solo 5, tra cui il Comandante Simeone, agonizzante. Ancora oggi a Ponza ci si domanda il perché di tanto feroce accanimen-                                  to verso quell’inerme piroscafo di linea!

[2] Dopo l’8 settembre del ’43 gli Inglesi divisero le zone occupate in Governatorati. A Ponza fu              stabilito un centro logistico in vista delle operazioni di Anzio e Nettuno del gennaio ’44.

[3] Si tratta dell’armatore Antonio Feola,, detto Totonno Primo, il quale, appresa la notizia del telegramma  disperato giunto da Ponza ( “POPOLO PONZA MUORE FAME”) riuscì a forzare la mano al Comandante  inglese  Simpson, incaricato dal Governatore di portare i viveri da Ischia a Ponza. La nave con le  provviste  salpò,  ma  al  largo d’ Ischia,  quando  la tempesta si fece sentire con tutta la sua violenza e il Comandante voleva invertire la rotta nel timore di un naufragio, Totonno, appoggiato da altri ponzesi, si mise coraggiosamente al timone della grossa nave e quella sera stessa  arrivò miracolosamente nel porto di Ponza, accolto dal suono delle campane.

 [4] La nave americana da guerra LST-349 (Landing Ship Tank), una sorta di grande mezzo da sbarco con un gran portellone a prua per consentire lo sbarco di autocarri, cingolati e mezzi semoventi, era salpata da Anzio alla volta di Napoli trasportando attrezzature militari, feriti e prigionieri. Infatti lo sbarco di Anzio era già avvenuto e il Comando Alleato aveva chiesto rinforzi per sferrare l’attacco finale contro  la Linea Gustav. Durante la traversata il motore entrò in avaria e il Comandante decise di ancorare la nave nei pressi di Palmarola per la notte. Lì la colse una tempesta improvvisa e i forti venti disancorarono la nave e la sospinsero verso Ponza dove, non più governata, si schiantò tra gli scogli di Punta del papa. Una successiva esplosione spezzò lo scafo in due tronconi e costrinse i sopravvissuti a gettarsi tra le onde in tempesta per trovarvi comunque morte sicura. Gli inglesi del presidio, aiutati dai ponzesi, calarono lunghe corde dall’alto del Promontorio del Papa e ad esse si aggrapparono marinai americani e prigionieri tedeschi per essere portati in salvo. Si raccontò di un pilota della RAF, di nome Gottard che, pur essendo riuscito a mettersi in salvo, morì dopo essersi rituffato tra le onde per salvare un prigioniero tedesco.

[5]  “Benito”, “il Predicatore” ecc. sono nomi attribuiti ad alcuni vecchi pastori, mantenuti fino ad oggi da chi li ha ereditati.

 

Carlo Bonlamperti

 

[Il faro e il gabbiano. (3) – Continua]

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