di Giuseppe Mazzella
Ortensia Feola, una vita da imprenditrice ‘che si è fatta da sé’ alle spalle e un meritato successo nel campo del turismo, per aver saputo realizzare, partendo da tre piccole camere, il più importante hotel di Le Forna e uno dei più frequentati dell’isola. Oggi ha 88 anni; ne aveva solo sedici quando cominciò a lavorare alla Miniera di bentonite. Era il 1940. Si era in piena guerra. Gli uomini validi erano al fronte e lei, giovane di una numerosa famiglia, dovette imbracciare la pala e il piccone e assieme ad altre cento donne piegarsi ad un lavoro che la impegnava dalle sei del mattino alle sei di sera: undici ore di turno massacrante, con una pausa di pochi minuti alle nove per la colazione e un’ora a pranzo che lei consumava a casa, proprio a ridosso della zona degli scavi.
Nipote di Antonio Feola, detto il Barone, aveva avuto in sorte, assieme a fratelli e sorelle, il terreno che interessò per primo l’ingegner Francesco Savelli, perché il prezioso materiale vi era presente ‘a cielo aperto’. Una sorte che la vide tra le prime a dover rinunciare alla casa paterna, abbattuta dalla società mineraria. La S.A.M.I.P., che le costruì le tre stanzette con le stesse pietre della vecchia casa, con la quale cominciò la sua escalation turistica. In tutto questo tempo ha ricordato sempre quegli oltre dieci anni di impegno mortificante, da cui però seppe trarre la forza per riscattarsi.
“Eravamo un gruppo di oltre 120 donne – racconta Ortensia – coordinate da due caporali: Pompea Balzano e la cugina Marietta Balzano. Io lavoravo in galleria: trasportavo il carrello che gli uomini avevano riempito e lo portavo all’aperto dove le mie compagne di lavoro provvedevano a frantumare il materiale. La bentonite era ridotta in piccoli pezzi e fatta essiccare al sole. Nei mesi estivi era sufficiente una giornata di esposizione. Poi veniva trasportato al punto di imbarco e caricato dagli uomini nella stiva dei bastimenti che lo portavano a S. Marinella”.
Il lavoro era molto pesante?
“Certo, era molto duro, specie per noi donne che in quegli anni non potevamo contare nemmeno su un’alimentazione regolare. La nostra magrezza era garantita dalla penuria di viveri e dal lavoro massacrante. Io, però, confesso cercavo ogni modo per lavorare meno. La mattina, per esempio, tutte le mie compagne addirittura litigavano per appropriarsi della pala migliore e del cofano più capiente. A me restava una palettina e un cesto per lo più bucato. Contente loro!”.
Mi hanno raccontato però che usavi anche altri mezzi per evitare il lavoro…
“E’ vero. La sera, nonostante la stanchezza, avevo meno di vent’anni e la giovinezza ha risorse inesauribili, leggevo a lume di candela dei romanzi d’amore che mi prestava Rosa Amendola, che era la ragioniera della miniera. Il giorno dopo, nell’ora di pausa, raccontavo le storie che avevo letto la sera prima e questo mi rendeva importante agli occhi delle compagne che, ammirate, mi risparmiavano i lavori più pesanti”.
Quanto guadagnavi?
“Undici ore di lavoro per la misera somma di cinque lire. Considera che un litro d’olio costava 7 lire e un chilo di pane 34 soldi. Dal momento che la mia famiglia era povera e numerosa, il mio magro salario mi veniva sequestrato totalmente da mia madre. Io allora feci un patto con la ragioniera Rosa, quella stessa che mi prestava i libri che diversamente non mi sarei mai potuto permettere, di fare una doppia busta paga: una destinata a mia madre, falsa, e quella vera, che dava a me. Con la differenza potevo comprarmi le poche cose che erano in vendita in quel tempo”.
Comunque, nonostante le difficoltà, riuscivi a barcamenarti tra lavoro e aiuto alla famiglia:
“Si, al punto che, grazie anche al mio guadagno, potevo permettermi nella colazione anche un pezzo di lardo, per dare sapore ai pomodori e al pane in cui consisteva per lo più la mia colazione. E a tal proposito ricordo un episodio che m’è rimasto impresso per tutta la vita. Un giorno mi rivolsi ad una compagna, Assunta, figlia di Uariello, chiedendole perché non mettesse del lardo nella sua colazione e lei così mi rispose: “Meglio morire e lasciare, che non morire e desiderare!”. Una risposta che mi lasciò di stucco, che proveniva da una povera ragazza, incolta più di me, ma che mi gira sempre in testa da quegli anni ormai lontani”.
Quante persone occupò la Miniera nel massimo sviluppo?
“Oltre seicento persone, tra uomini e donne. La società mineraria portò lavoro e economia in un paese poverissimo, dando la possibilità a chi, pescatore, non aveva le possibilità di comprasi una barca e mettersi in proprio, ed era costretto a lavorare su barche di altri con stipendi da fame. La Miniera rappresentò per tutta questa gente, la meno agiata, una possibilità lavorativa in casa, evitando di lasciare l’isola per mesi e mesi per andare a pescare lontano, in Sardegna o in Toscana. Da questo punto di vista la Miniera ha rappresentato una grande opportunità, anche se all’inizio, specie per noi donne, gli stipendi erano veramente miseri”.
Ortensia si astrae per un momento e va con la memoria ancora una volta a quegli anni. Fissa un punto lontano. Forse è stanca, anche se vuole ancora parlare. Le prometto di andarla a trovare presto per continuare la conversazione su quegli anni alla Miniera.
Giuseppe Mazzella