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Il bucato

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Dal libro di Ernesto Prudente “Costumanze antiche

 

Dato che nella cucina c’era anche il “cufunature” è giusto, a mio parere, descrivere il procedimento  del lavaggio della biancheria.

Il bucato era una operazione che in qualsiasi  casa si faceva ogni quindici giorni o ogni mese. Essa consisteva nella lavatura della biancheria con acqua bollente, sapone, liscivia e altri detersivi con rami di  piante e radici odorose.

La biancheria per il bucato consisteva nel molteplice degli indumenti intimi e nel complesso dei panni di uso domestico: biancheria da letto: lenzuola  e federe; biancheria da tavola: tovaglie e tovaglioli; biancheria da bagno: asciugamani e similari.

Il “cufunature”  era un recipiente in muratura a forma tronco-conica con la base in altro. Aveva una altezza superiore al metro e mezzo e con un diametro,  nella parte alta, di oltre un metro che andava assottigliandosi nella parte inferiore fino a circa 25 centimetri.

Nella parte inferiore vi era una nicchietta, capace di contenere un secchio, con un piccolo condotto da cui poteva uscire la liscivia che vi era stata immessa.

Il “cufunature” serviva per fare ‘a culate ed il  bucato era la lavatura generale di ogni tipo di biancheria. Era un lavoro massacrante, un lavoro di polsi e braccia. Era un continuo salire e scendere dal tetto con il peso di una conca piena di panni bagnati. I panni stesi bisognava capovolgerli per farli asciugare bene e poi intere giornate con il ferro da stiro in mano.

Quando una donna accusava dolori fisici le si diceva: “E’ fatte àsteche é lavatore é mò chiagne u cufunature” (hai fatto tetti e lavatoi ed ora piangi davanti al cufunature). Si voleva far notare che era stata poco attenta alla sua salute.

L’invenzione e l’uso della lavatrice sono stati la salvezza della massaia.

Fare il bucato, vale a dire lavare tutti i panni bianchi che si erano sporcati, non era una operazione giornaliera. Il bucato veniva effettuato, come minimo, ogni 15-20 giorni. Generalmente una volta al mese.

I panni bianchi che si sporcavano venivano ammucchiati in un ripostiglio e quando la loro quantità era diventata rilevante – un modo anche per far risaltare quando una famiglia fosse ricca di biancheria – si decideva il  giorno del lavaggio.

Quasi tutte le case erano dotate di due gruppi di lavatoi ognuno formato da due lavandini: uno all’interno della casa e l’altro all’esterno, nel cortile. Da usarsi secondo le condizioni atmosferiche. Se il tempo è brutto all’interno, se è bello fuori.

I panni sporchi venivano ammucchiati vicino al lavatoio e si dava inizio al procedimento.

Il panno, lenzuolo o fazzoletto che fosse, veniva immerso nell’acqua e insaponato. Successivamente veniva stropicciato fortemente sul piano inclinato del lavatoio e, spremuto, veniva immesso nell’altra vasca per lo sciacquaggio.

Finito il lavaggio e lo sciacquaggio i panni strizzati venivano “ncufunate”, cioè venivano aperti e stesi nel cufunature seguendo un certo ordine. Quelli più delicati venivano posti per ultimi.

I panni così sistemati venivano coperti con un panno di  juta, cennerale,  che aveva la funzione di far filtrare la  liscivia trattenendo la cenere  da cui il nome.

Intorno al bordo venivano poste delle strisce di faggio, chierchje, che, oltre ad aumentare la capacità, avevano lo scopo di contenere l’acqua versata.

Quando si sistemavano i panni nel cufunature l’acqua, nella grossa caldaia di rame, già era in ebollizione. In essa si metteva della cenere che si ricavava dalla bruciatura delle foglie secche di agave.

Prima di versare l’acqua bollente nel cufunature si mettevano, sotto il panno di copertura, radici odorose e si tappava il cannello di fuoriuscita che si trovava nella nicchietta.

Dopo diverse ore si stappava la cannula così da permettere l’efflusso dell’acqua che, con secchi, veniva totalmente recuperata perché serviva successivamente alla lavatura dei panni a colori.

Questa liscivia veniva distribuita alle famiglie del vicinato che ne facevano richiesta per il medesimo uso.

A scolatura completa i panni venivano tolti dal cufunature e immersi nuovamente nei lavatoi per lo schiaraggio.

Strizzati venivano stesi al sole ad asciugare.

Infine, stirati e piegati, venivano riposti negli scaffali. Un mazzetto di “spicandosse”, lavanda, per profumarli, non mancava mai in ogni tiretto.

“‘A culate” era una operazione che durava diversi giorni e  impegnava tutte le donne della famiglia. Spesso ci si faceva aiutare anche da amiche.

 

Ernesto Prudente