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L’affondamento del S. Lucia

[1]

da “Biografia di un Paese”

di Ernesto Prudente

L’affondamento del Santa Lucia

La notizia giunse a Ponza intorno alle undici e venne immediatamente diffusa dalla  Capitaneria di Porto che la ricevette  dal Semaforo, sito su Monte Guardia,  che, a sua volta, l’aveva ricevuta  da quello di Ventotene con il quale era in contatto telegrafico.  Il Semaforo è un posto di vedetta della Marina Militare, situato in posizione elevata e ben visibile dal mare, generalmente in un fabbricato dipinto a grandi scacchi bianchi e neri, munito di apparecchi telegrafici e radiotelegrafici e di apparecchi di segnalazione. Sono legato da tanti ricordi  al semaforo di Ponza perché da giovane, per motivi venatori, frequentavo la Guardia. Il caseggiato vide la luce nel 1858. L’iniziativa faceva parte di una serie di provvedimenti che il governo borbonico intese prendere per la sicurezza dell’isola a seguito dello sbarco di Carlo Pisacane. La costruzione ebbe termine nel 1864, sotto il regno sabaudo. Nacque come faro e si comportò come faro fino alla fine del secolo. Nel primo anno del novecento il complesso degli apparecchi  venne  trasferito sul promontorio sottostante che, imponente, si erge dal mare e dove già era stato costruito un caseggiato identico a quello di Monte Guardia. L’edificio di Monte Guardia  passò nelle mani della Marina Militare che lo usò come posto di osservazione e allarme. Dopo la guerra, nel 1946, ospitò, in una sua ala, un nucleo di avieri anche loro destinati al servizio di assistenza e controllo degli aeromobili. A dirigere i servizi vennero destinati, per la marina, il maresciallo Cesare De Luca, per l’aeronautica il maresciallo Luigi tricoli e il maresciallo Pietro Corti, tutti ponziani e gente di prima qualità sia nel lavoro che nella vita privata. Erano personaggi amati e rispettati da tutti. Torniamo all’affondamento.   La notizia si diffuse con la velocità del vento. “Il Santa Lucia è stato affondato”, “ ànne affunnàte u vapore”. L’eco di questa terribile e dolorosa  notizia si ripercorse tra valli e colline, passando da casa in casa, da porta a porta. Si era ripetuto quanto era già avvenuto il 23 marzo 1918, quando, all’altezza di Zannone, un bastimento, Il Corriere di Ponza, adibito al trasporto passeggeri sulla linea Ponza-Gaeta, venne affondato da sottomarino nemico.  Il paese rimase scosso, terrorizzato. Sul molo, davanti alla Capitaneria, si radunarono in un attimo centinaia e centinaia di persone, parenti,amici, curiosi. Tutti volevano informazioni, tutti cercavano  notizie.  Il Santa Lucia era un piroscafo della SPAN, la società che gestiva il collegamento marittimo tra Napoli, Gaeta  e le isole Partenopee e Ponziane.

Il Santa Lucia era arrivato a Ponza, in partenza da Gaeta, come di solito, la sera del giorno precedente, il 23 luglio, dopo aver fatto  scalo a Santo Stefano e a Ventotene. Al largo di Ventotene era stato bersaglio di un mitragliamento da parte di aerei alleati. Nessun danno alla nave e alle persone.  Il mitragliamento venne preso quasi come uno scherzo, un incidente di percorso. Nessuno diede valore e peso a questo lampo che precedeva il tuono. Fra i passeggeri che scesero a Ponza quel tardo pomeriggio di luglio vi era anche Silverio Di Meglio, Verucciélle per gli amici, lo zio di Pelé, Silverio Scarpati, che era riuscito a scappare dalla Tunisia dove viveva per non finire prigioniero dei francesi. Arrivato a Gaeta pensò bene di fare una corsa a Ponza, tanto il suo nome non risultava iscritto in nessuno ufficio,  per abbracciare la mamma e gli amici. L’indomani, caparbiamente, senza ascoltare i consigli di tutti, si imbarcò per presentarsi alla Capitaneria di Porto di Gaeta e, con lui, si imbarcarono altre 54  persone. Sedici erano i membri dell’equipaggio. Un totale di settanta persone. Il Santa Lucia, quel mattino del 24 luglio, rimandò la partenza di due ore ma ciò non fu sufficiente per sfuggire alla morte.

Era una stupenda giornata di luglio, mare calmo e cielo sereno. A bordo tutto procedeva normalmente. Il comandante, memore di quanto era avvenuto il giorno precedente, con il mitragliamento, aveva raddoppiato la guardia. L’equipaggio al completo era stato posto in servizio di avvistamento e di guardia e pronto a muovere, come si dice in gergo marinaresco, per eventuali manovre. La navigazione fino a poche miglia da Ventotene fu normale e tranquilla. Ad un certo momento, così, all’improvviso,  il marinaio di guardia sull’aletta di dritta  richiamò l’attenzione del comandante su due puntini neri all’orizzonte , verso sud, che nel cielo limpido e terso sembravano due moscerini. Il rumore dei loro motori, sordo e cavernoso, appena si percepiva. Anche i passeggeri, che si trovavano in coperta, li notarono e li seguirono con trepidazione e preoccupazione. Di momento in momento il rumore degli aerei diventava sempre più chiaro,  più distinto e più preciso. Le macchioline incominciarono a prendere forma e consistenza e a rendere evidente la loro direzione di volo. Erano diretti sul Santa Lucia!  Pensando che fossero mitragliatori, come nel pomeriggio precedente, il Comandante diede ordine che tutti abbandonassero i ponti scoperti e si rifugiassero nei saloni. Al timoniere ordinò di accostare a dritta con l’intenzione di avvicinarsi il più possibile a Ventotene che era a circa due miglia. Alle macchine venne chiesto il massimo della potenza. Il comandante Simeone, ad occhio nudo, pur avendo il binocolo al collo, con lo sguardo fisso, seguiva dall’aletta  il volo degli aerei che si presentavano uno dietro l’altro. Con la calma, caratteristica delle persone capaci nei momenti difficili, il comandante Simeone avvisò il timoniere di essere vigile, attento e pronto ai suoi ordini che, poco dopo, all’apparire della scia di un siluro, impartì come una martellata: “Tutto a dritta”. La nave, che procedeva al massimo della velocità, accostò rapidamente ed il siluro, sfrecciando di prua, andò a perdersi nel profondo del Tirreno. Il secondo aereo che aveva seguito le precedenti manovre si presentò immediatamente sul bersaglio non concedendo al bravo capitano il tempo di vedere il secondo siluro  e di manovrare di conseguenza. L’impatto fu terribile. Lo scoppio tremendo.

I ventotenesi, compresi i confinati politici, abbarbicati ai costoni che sovrastano l’antico porto romano, in attesa dell’arrivo della nave, che sull’isola  rappresenta sempre una novità, furono testimoni di quel finimondo. Ma perché gli Alleati se la presero con quella nave, inerte, che trasportava solo passeggeri? Si, è vero che la colpa è della guerra ma è anche vero che noi nulla abbiamo fatto per evitare il fattaccio. Il Santa Lucia, una delle navi della compagnia SPAN che provvedeva, per contratto, ai collegamenti con le isole partenopee e ponziane, venne militarizzata per un brevissimo periodo, come risulta dalla documentazione conservata negli uffici delle Capitanerie di Porto, che va dal 25 maggio al 30 agosto. Alla nave venne fatta una livrea nuova, dal bianco avorio si passò al grigio, caratteristico delle navi da guerra, e sulla prua venne installato un cannoncino facendola diventare una nave ausiliaria  da guerra.

Cessato il periodo di militarizzazione la nave riprese il suo lavoro originale, cioè il collegamento con le isole, senza però che nessuno provvedesse a ridarle la sua colorazione originale e questo nonostante che nel maggio del 1943 venne sottoposta, da parte del Registro Navale, alle consuete visite per il rinnovo della classe. Nessuno fa presente la sua sbagliata colorazione e nessuno fa presente che quel cannoncino sul cassero di prua doveva essere tolto. Gli aerei che la silurarono, Beaufigter,  facevano parte di uno stormo di vecchi apparecchi inglesi, di stanza sulle coste della Tunisia, che avevano il compito di perlustrare la zona di mare che dalla Tunisia arrivava alle isole ponziane. Oltre non potevano andare per problemi di carburanti.  Gli aerei avvistarono il Santa Lucia, per la prima volta il giorno precedente, quando era ancora  nelle acque di Ventotene e lo mitragliarono. Il giorno seguente, gli aerei,  due, si presentarono sulla scena del delitto armati di siluri. Avvistata la nave  si indirizzarono, in fila indiana, su di essa. L’aereo di testa, arrivato a distanza di tiro utile,  lanciò il suo siluro che l’abilità del comandante Simeone riuscì a scansare. Il secondo aereo lanciò immediatamente il suo siluro non concedendo il tempo al capitano Simeone di prendere le precauzioni dovute e fu la fine.

Mentre la nave, squarciata in due tronconi, perché colpita al centro, si inabissava con un pesante carico umano, sulla superficie del mare si dibattevano quattro sopravvissuti. Fu immediato l’arrivo delle barche per il recupero, erano già pronte per svolgere il rituale servizio di sbarco e imbarco dei passeggeri perché la nave, come sempre,  avrebbe dato fondo in rada per la mancanza di una struttura idonea di ormeggio. I quattro superstiti vennero recuperati. Erano il comandante Simeone, il carabiniere Vincenzo Moretti, ancora in vita, il marinaio Luigi Ruocco ed il passeggero Francesco Aprea di Le Forna,  che aveva già subito un affondamento, che ne avrebbe incassato anche un terzo e che sarebbe morto, anni dopo,  nell’affondamento di una nave da carico, il San Silverio,  su cui era imbarcato e di cui non si è mai saputa la causa dell’affondamento.

L’affondamento del Santa Lucia coperse Ponza di lutto. Dopo aver versato a gocce il suo contributo di sangue per la morte di tanti marinai, imbarcati sulle navi da guerra affondate dal nemico, e di tanti fanti morti nella varie campagne di guerra, Ponza versò, con l’affondamento del Santa Lucia, forse più di tanti altri paesi, il suo contributo di sangue per una guerra infame, ignobile, sciagurata, scellerata.  Quante mamme, quante mogli, quante sorelle e quanti figli si vestirono di nero. E tante mamme, quel nero, lo portarono fino alla loro morte.

La scomparsa del Santa Lucia segnò la fase più nera per la comunità isolana in quel triste periodo storico. L’isola rimase isolata nel senso vero della espressione e patì, dopo aver provato il gusto di ogni avversità, la fame. Ci furono diversi morti per fame, in modo specifico vecchi e bambini. Mancava tutto, mancava qualsiasi tipo di alimento. Tutti, e per tutti significa donne e vecchi, perché i giovani erano tutti “a difendere” la Patria,  si diedero a coltivare qualsiasi pezzetto di terra.  Due “caténe”  nacquero nella “mandria”, il tratto tra Chiaia di Luna e il Fieno e una “caténe” venna creata sulla spiaggia di Chiaia di luna livellando il terreno  franato.          Quasi tutte le erbe che sbucavano dal terreno, e tra queste le foglie del carciofo e i germogli dei rovi, finivano in pentola. Alcuni, in mancanza d’altro, mangiarono le pale dei Fichi d’India. Il sale era introvabile. Le mamme mettevano al sole scodelle piene di acqua di mare per ottenere, con l’evaporazione, qualche granello di sale. Al posto del caffè c’erano ceci e chicchi d’orzo abbrustoliti.  I vecchi fumavano erbe secche e tra queste la più usata era la “prùteche”, la cascellora. Quella specie di tabacco veniva  arrotolato  con qualsiasi tipo di carta.

In questo clima di spaventosa miseria molte mamme furono costrette a consegnare nelle mani di alcuni ignobili profittatori l’oro della famiglia ed il loro corredo ornato con guarnizione di altissimo pregio, e qualcuna mise finanche a disposizione propria la casa, in cambio di qualche chilo di farina e di qualche litro di olio. Farina, olio e altri generi alimentari arrivavano a Ponza con qualche gozzo che venne attivato per compiere le traversate, andata e ritorno, con il   continente.

Ernesto Prudente