C’è carota e carota
di Sandro Russo
Ovunque, in giro per le campagne o le coste scoscese di Ponza in questa stagione, ci si imbatte in fiori ad ombrello, bianchi o rosati a seconda della fase di maturazione, con un puntino più scuro (nero o rosso-bordeaux) al centro. A guardarli bene da vicino si può apprezzare la grande perfezione del fiore, con un andamento a spirale, che si ritrova in altre strutture del mondo vegetale [chi fosse interessato ad approfondire, può cliccare qui, per accedere ad un articolo dello stesso Autore dal titolo “Le piante, i frattali e la ricerca della bellezza”].
Il fiore di cui stiamo parlando è quello della carota selvatica, diffusissima nell’isola. Da questa pianta, per un processo di domesticazione di secoli (non certo avvenuto a Ponza) si giunge alla carota coltivata (Daucus carota), di color arancio; ma ne esistono varietà di colori diversi:
La famiglia è quella delle Ombrellifere, che include, oltre alla carota, il prezzemolo (Petroselinum crispum), il coriandolo (Coriandrum sativum), la pastinaca, l’anice, il finocchio, l’angelica, gli ombrellini pugliesi (tordylium apulum). Ma che annovera anche piante velenose, come la cicuta, la ferula [‘sa ferula’ (ferula communis): una volta endemica in Sardegna, ora ubiquitaria e invasiva (diffusa anche a Ponza)].
La ‘ferula sarda’ si è diffusa anche a Ponza, come in tutta Italia. Della contaminazione della flora isolana da parte di piante estranee, ma estremamente invasive, bisognerà riparlare
D’altra parte lo stesso prezzemolo – in decotto concentrato (l’apiolo) – era utilizzato in un passato neanche tanto tanto lontano, come abortivo: azione non specifica, ma fenomeno collaterale di una intossicazione generale. Molte giovani donne ci sono morte, per questa ignoranza!
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A Ponza dunque, la carota comune, di color arancione, arrivò relativamente tardi, diciamo durante la generazione dei nostri zii e nonni, che la chiamavano pastenaca. Mentre in italiano e in botanica la pastinaca (Pastinaca sativa) è l’ortaggio qui sotto mostrato, la cui lunga radice, bianca e carnosa, dal sapore acidulo, viene consumata dopo cottura.
A complicare ancor più le cose c’è che a Ponza si chiama ‘carota’ un ortaggio completamente diverso, appartenente ad un’altra famiglia botanica: quella delle Cucurbitacee (invece che delle Ombrellifere).
Ed eccola, la carota ponzese – in realtà pugliese: è una varietà di ‘carusiello’, ancora più precisamente il ‘tortarello pugliese’ – di cui abbiamo avuto un profluvio di informazioni dal nostro amico Pinuccio ‘Giovanotto’ di Bari.
La ‘carota’ di Ponza, ovvero il ‘tortarello pugliese’
I ‘caroselli’ – Cucumis melo subsp. Adzhur – sono strani ortaggi, tipici della Puglia, ibridi spontanei tra melone e cetriolo, vengono infatti anche chiamati cetriolo-melone. Le varietà differiscono per forma del frutto, colore e sapore (V. ultima foto); le piante hanno la vegetazione del melone e si coltivano allo stesso modo, non vanno cimate poiché i frutti si raccolgono a scalare.
Chissà perché a Ponza è invalsa questa terminologia – …se qualcuno dei Lettori lo sa, ce lo faccia sapere!
Forse per distinguerlo dall’altra cucurbitacea – il cetriolo, u’ cetrùll’ – che anch’esso si mangiava crudo nelle insalate, ma che a quei tempi – non c’erano ancora gli ibridi recenti – aveva un che di amarognolo, specie alle estremità, per cui bisognava trattarlo in modo particolare. Questo invece era croccante, da consumare fresco, e più dolce, meno della pastenaca (come era chiamata a Ponza la vera carota), ma in qualche modo simile, per cui: ‘carota’.
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Piuttosto, di fronte alla competenza sulle varietà ortive e relativa nomenclatura, sciorinata dal nostro amico, ci siamo resi conto di conoscere ben piccola parte di quel che invece altre culture contadine – quella pugliese, per esempio – hanno acquisito nei secoli e purtroppo (anche loro) stanno perdendo, con le nuove generazioni e con l’omologazione dei mercati.
La straordinaria varietà di caroselli e cetrioli, tortarelli e barattieri conosciute e diffuse in Puglia, tra cui (nell’angolo in basso a destra, nella foto) anche il ‘tortarello pugliese’: la nostra ‘carota’
E chi se l’aspettava? Una volta di più abbiamo dovuto prendere atto dei limiti delle nostre abitudini alimentari, alquanto rigide, per la verità. Mentre (si parva licet…): “Ci sono più cose tra la terra e il cielo, di quanti voi umani avreste mai sospettato”
Sandro Russo
[Passioni botaniche ponzesi (8). Carote – Continua]
Piero Nussio
7 Luglio 2011 at 11:33
Caro Sandro,
hai scritto nel tuo pezzo: “La ‘ferula sarda’ si è diffusa anche a Ponza, come in tutta Italia. Della contaminazione della flora isolana da parte di piante estranee, ma estremamente invasive, bisognerà riparlare”.
Si, bisognerà proprio riparlarne, specie se certe affermazioni le fai leggere a un tarquiniese. La FERULA (Ferula communis, vedi la relativa pagina su Wikipedia) è sarda quanto io sono svizzero: è una pianta erbacea originaria del bacino del Mediterraneo, cioè di Ponza come sarda o corsa. Se proprio vogliamo assegnarle un luogo d’origine, il posto primigenio è Tarquinia, per i due motivi che ti enumero:
1. il fungo saprofita Ferlengo, che si sviluppa dalle radici della Ferula (Pleurotus eryngii, vedi sempre la relativa pagina di Wikipedia) è famosissimo a Tarquinia (anche se diffuso pure in Sardegna e nella Murgia) tanto da meritarsi una specie di DOP che si chiama PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali laziali) con il numero 140 e il nome “Ferlengo o finferlo di Tarquinia”. Ferlengo è il nome locale del Pleurotus eryngii var. ferulae, che era già famoso nel XV secolo. L’aggiunta “finferlo” (cioè tutt’altro tipo di fungo, noto anche come “gallinella” è solo un esempio dell’ignoranza di chi ha compilato la lista ed ha confuso il Pleurotus con il Cantharellus.
2. ma il motivo principale per cui la Ferula è tarquiniese è che, riferendosi alla Ferula communis, il genere di piante a fusto alto e dritto che è tipico del paesaggio tarquiniese da millenni, gli etruschi prima e i romani in conseguenza ne hanno ricavato un simbolo di potere dei loro sacerdoti. Indovina come si è trasmessa la notizia fino a noi: è ancora un simbolo di potere dei sacerdoti cristiani, e si chiama ancora “ferula”. Al riguardo ti consiglio la lettura della seguente pagina: http://www.vatican.va/news_services/lithurgy/details/ns_lit_doc_20091117_ferula_it.html
3. ti potrei poi citare D. H. Lawrence che, trovandosi a visitare le tombe etrusche su segnalazione di Aldous Huxley, fu sopraffatto dalla forza e il rigoglio della natura e lo svettare delle ferulae, ma sarei solo all’inizio del ‘900, non all’epoca etrusca come nel punto precedente.
Certo, se mi avessero detto che avrei potuto correggerti su un argomento di botanica non ci avrei mai creduto…
Se torni a Roma da Ponza, fatti sentire.
Ciao
Sandro Russo
7 Luglio 2011 at 11:51
Caro Piero,
apprezzo la tua erudizione e ti ringrazio per la precisione.
Volevo sottolineare che nella mia (certo limitata) esperienza di viaggi, io la Ferula l’avevo conosciuta in Sardegna negli anni ’60 e non l’avevo notata in continente – né a Ponza – fino a quando – dagli anni ’90 in poi – ho cominciata a vederla sempre più spesso e dovunque (scarpate ferroviarie e incolti in genere).
D’altra parte, se anche ad altri risulta che sta diventando sempre più invasiva a Ponza – mentre prima era poco frequente o proprio non c’era – ci passino l’informazione: anche a questo può servire il sito!
Sandro