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Piccola storia. L’alalònghe

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Dal libro:

“Vocabolario illustrato del dialetto parlato ai pescatori e dai marinai ponziani”

di Ernesto Prudente

La pesca della alalonga, come quella del tonno e del pesce spada, l’abbiamo appresa da alcuni siciliani che negli anni cinquanta misero piede a Ponza con due piccole imbarcazioni a fondo piatto, armate di una potente luce a petrolio, per esercitare la pesca con la fiocina. Su ogni barca vi erano due pescatori: un rematore e un fiocinatore. Il ramponiere perlustrava il fondo marino con lo specchio e come vedeva il pesce faceva segnali con i piedi e il vogatore o fermava la barca o la spostava per portarla perpendicolarmente sul pesce avvistato. Tra i due vi era un affiatamento perfetto. Lo specchio era un cilindro di lamierino, se di legno era di forma quadrata, con un diametro di circa quaranta centimetri e di altezza intorno ai cinquanta-sessanta. Era chiuso da un lato da un vetro. Immergendolo nell’acqua si poteva chiaramente esplorare il fondo marino, anche oltre i dieci metri, perché vengono soppressi i riflessi mobili della luce che rendono opaca la massa d’acqua.
Uscivano all’imbrunire e rientravano il mattino seguente. Erano abilissimi in questo loro lavoro. Dovevano essere ambedue bravi. Sembra strano, ma penso che il più bravo dovesse essere il rematore. Tutti i giorni la loro barca era piena di pesce. Pesce di ogni specie: dalla cernia al dentice, al sarago, alla murena, alla perchia, all’ombrina, all’occhiata, alla grancevola e qualche volta anche alla aragosta. I pescatori ponzesi, alcuni, prima li accettarono ma poi, di fronte a quelle pescate, reagirono vivacemente asserendo che usavano medicinali velenosi per uccidere il pesce. Orazio e Ciccio, una delle due coppie, si dichiararono disponibili a imbarcare con loro un ponzese per farlo assistere al loro lavoro. Non vollero un pescatore e scelsero me che andavo bene anche per i miei compaesani, che, in certe circostanze, non sono facili. Passai alcune notti meravigliose. Fu una esperienza unica. Orazio e Ciccio erano provetti nel loro lavoro. Li paragonai a Giovanni Califano, masaniélle, e Silverio Conte, facciabruciata, nella loro attività venatoria. Erano maestri di tiro.
Questi siciliani, dopo alcuni anni di pesca con la fiocina, cambiarono attività. Un anno, sempre in primavera, arrivarono a Ponza con un gozzo e con una grossa vasca di plastica contenente una particolare attrezzatura da pesca. Il loro arrivo fu preceduto da una telefonata all’iscaiuole, la pescheria a cui davano il loro pescato, facendogli presente di procurargli dei calamari congelati e avvertendolo di non far parola con nessuno.
Nel pomeriggio del primo giorno di pesca, quasi di nascosto lasciarono il porto. Rimasero in mare tutta la notte. Al rientro, nella tarda mattinata del giorno dopo, Ponza rimase attonita. Su quella barca vi erano sette pesci spada che superavano i quattro quintali di peso. Era una scoperta. Tutta la popolazione isolana ne parlava. Il cestone contenente l’attrezzo era sempre coperto da un telo cerato e legato intorno, strettamente legato, da una cordicella. Veniva sbarcato di nascosto appena la barca arrivava in banchina e portato nella casa dove abitavano. Nessuno doveva vedere. Passò del tempo prima che i siciliani incominciassero a svelare il loro segreto. I pescatori ponzesi interessati a questa nuova, feconda e fertile, attività si diedero da fare per farsi svelare il mistero. Le reazioni furono feroci. I pescatori come prima cosa minacciarono di disertare la pescheria dell’Iscaiuolo se non si facesse promotore per comporre la situazione. Dopo una lunga serie di dispute i siciliani, a cui venne fatto presente che si trovavano in terra straniera, fecero vedere come era composta la loro coffa ma non imbarcarono nessun ponzese per mostrare come si doveva stendere. In men che non si dica, Geppino Di Meglio, alias portazero, lungimirante, si fece arrivare, per sé e per eventuali altri acquirenti, quintali di filo di nailon di diverso spessore e diversi tipi di ami che, per la loro grandezza, sembravano ganci. Furono diverse le barche ponziane che si diedero alla pesca del pesce spada. Dopo il Geppino di Gennaro di Meglio, il figlio di portazero, e la Francesca Maria, dei Feola, che mutarono, vedendo i risultati dei siciliani, il loro tipo di pesca: da cianciole divennero palangare. E vennero imitate anche da altre barche: Onorino trasformò il suo peschereccio mettendo da parte la rete a strascico per imbarcare le coffe. Il maestrale, la barca che Onorino comandava, era del professore Antonio Assante di Formia, un galantuomo che è piacevole ricordare. E la trasformazione di Onorino venne seguita finanche da Geppino Vitiello, il proprietario dell’Ave Maria, un grosso bastimento da trasporto merci che lavorava sulla linea Golfo di Napoli – porti della Sardegna.
L’attrezzo coffa ebbe vita breve perché si trascinava il problema esca il cui prezzo, con la richiesta sempre in aumento, saliva di giorno in giorno. E non era Ponza a generarlo. In Calabria e in Sicilia vi erano centinaia di barche che si erano date alla pesca del pesce spada con le coffe tralasciando la caratteristica pesca con la fiocina, una attività secolare. I pescatori di quelle regioni pensarono e realizzarono, per abbattere il costo dell’esca, ad una rete e passarono pochi anni che nelle acque di Ponza si videro barche cariche di reti. Oltre ad una quindicina di barche ponziane, durante il periodo di pesca, nel porto di Ponza vi erano anche una ventina di barche calabre e sicule.
Anche con le reti il prodotto era abbondante, anzi maggiore di quello ricavato con le coffe. Alla fine del primo anno di pesca con la rete, i pescatori ponziani comprarono le reti di alcuni pescatori siciliani e calabresi per dotare le loro barche di questa nuova attrezzatura. I cestoni con gli ami vennero posti in magazzino ad arrugginire e sulle barche vennero poste le reti. Era una corsa alla lunghezza e, contemporaneamente, una corsa al rinnovo delle barche. Nacquero diversi natanti con caratteristiche adatte a questa nuovo tipo di pesca. Su alcune barche la rete raggiunse la lunghezza di trenta chilometri. Cosa assurda e pericolosa.
La barca, qualunque barca, con quel quantitativo di rete a bordo, era, in caso di un temporale improvviso, in pericolo di affondamento. Questa paura evidente mi ha fatto sempre rifiutare l’invito a partecipare ad una pescata a pesce spada. Stavo per dimenticarmi di raccontare che, durante l’uso della coffa, con i tanti pesci spada venivano sbarcati anche tanti pescecani, dallo smeriglio alla verdesca, al capopiatto, al cagnaccio, al pescecane, al pesce volpe, al palombo, alla canesca, allo squalo grigio, al pesce carabiniere, al tritone.
Possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che ci fu lo stermino dei pescecani.
Conoscemmo, in quel periodo, il pesce vetro e altri tipi di pesce mai visti ed imparammo anche a mangiarli.
Imparammo anche il lavoro per la conservazione dell’alalunga e del tonno sott’olio. Con il passare degli anni e con le dovute correzioni siamo giunti a fare un tonno, e per tonno intendo anche l’alalunga, sott’olio, per l’uso della famiglia, da fare invidia alle migliori ditte industriali.
Io approfitto, ogni anno, della bontà e della generosità della consuocera Antonietta. Mi inscatola all’incirca trecento vasetti. Io le procuro solo il pesce. Il resto è tutto sulle sue spalle. Alle spese vive deve aggiungere il lavoro manuale che non è cosa facile e semplice. Il pesce viene bollito in una grossa caldaia, per cui il peso è sempre in relazione alla capacità del pentolone. Ritengo che ogni bollitura ammonti ad una quindicina di chili. Il pesce, tolto la testa, le lische e le pinne, viene tagliato a fette dallo spessore di quattro-cinque centimetri e deposto nella caldaia. L’acqua è in ragione di tre litri per ogni chilo di pesce così come il sale che va messo in ragione di ottanta grammi a chilo. Dopo tre ore di bollitura il pesce viene estratto dall’acqua e disteso su una tovaglia ad asciugare. Questo procedimento ha la durata di due giorni e in questo periodo viene pulito dalla pelle e da qualsiasi altro elemento che non sia la carne del pesce. Si passa poi “all’imbuccacciamento” all’inscatolamento. A Ponza si usano barattoli di vetro, con larga apertura, facili a pulirsi e a chiudersi ermeticamente senza che l’olio fuoriesca. I coperchi si rinnovano anno per anno. Una volta sistemato nel barattolo, la cui apertura deve permettere il lavoro interno, si passa alla oleazione. Il barattolo, riempito d’olio, rimane scoperto per permettere all’olio di penetrare. Di tanto il tanto, si infila uno spiedino il cui leggero movimento consente all’aria di emergere ed uscire dal barattolo. Dopo la chiusura i barattoli con il tonno vengono presi e messi nuovamente in una pentola per una ebollizione a bagnomaria di mezz’ora. Il lavoro è finito. Si lasciano raffreddare e si dispongono nei luoghi di deposito. Per i miei barattoli c’è ancora il trasporto. Antonietta li mette in casse di plastica e con l’intervento delle figlie e di Roberto, uno dei generi, li accompagna a casa mia dove, questi barattoli, trovano la vera padrona, mia moglie. Grazie, Antonietta e con te ringrazio Roberto e Silveria. Se ho dimenticato qualcuno, pensaci tu.